È ormai tradizione per il ROF chiudere i battenti
con un concerto – diffuso su schermo gigante in Piazza del Popolo - in cui si
eseguono musiche non-operistiche del maestro oppure si propongono opere in
forma di concerto (capitò in anni recenti con Zedda che presentò Barbiere,
Tancredi e Donna). Le due composizioni del primo tipo che si spartiscono la
torta sono solitamente la Petite Messe
Solennelle (che infatti chiuderà il prossimo Festival, nella versione strumentata)
e lo Stabat Mater, che ieri sera è tornato sulla scena dopo le due ultime apparizioni
guidate da Michele Mariotti (2010 e 2015) con i suoi bolognesi.
Quest’anno è toccato alla OSN-RAI, al Coro Ventidio
Basso e a Daniele Rustioni il
privilegio di abbassare il sipario del Festival, coadiuvati da quattro voci che
il pubblico pesarese conosce ormai benissimo: Salome Jicia e Dmitri Korchak
che sono ormai di casa qui (Korchak già cantò lo Stabat nel 2006), Erwin Schrott (che esordì lo scorso anno
nel Turco) e la rediviva dal secolo
scorso Enkelejda Shkoza (fu Ernestina
nientemeno che nel 1996, Marie nel ’97, Emilia nel ‘98 e Melibea nel ‘99).
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La gestazione dello Stabat durò 9 mesi anni, quanti ne passarono fra una prima
stesura frettolosa (1832, a fronte dell’impegno che Rossini aveva preso con Manuel Fernandéz Varela, un agiato
prelato - tipo cardinal Bertone, per intenderci - di Madrid) e quella
definitiva. Fretta che obbligò Rossini ad... appaltare per buona parte a terzi
(nella fattispecie l’amico di studi Giovanni
Tadolini da Bologna) la composizione della versione iniziale dell’opera,
prima di stenderne (tutta di suo pugno) quella definitiva del 1841.
Una relazione assai dettagliata e documentata di
quegli anni della vita di Rossini che videro la composizione dello Stabat si può leggere sul programma di
sala del ROF, ed è a firma di Reto Müller (membro del Comitato Scientifico della Fondazione Rossini) il quale,
oltre a fare chiarezza su molti approssimativi luoghi comuni riguardo
all’opera, presenta anche una tabella comparativa delle due versioni, che mi
sono permesso di sintetizzare qui sotto. L’originale rossiniano prevede una
distribuzione del quartetto dei solisti abbastanza insolita: due soprani,
tenore e basso; stante però la tessitura non impervia del secondo soprano (tocca
al massimo il SOL#) è diventata ormai consuetudine affidare la relativa parte
ad un contralto/mezzosoprano (cosa che è puntualmente avvenuta anche ieri sera)
ristabilendo quindi il tradizionale quartetto SATB:
Come si può notare, Rossini compose originariamente
l’introduzione e tutta la seconda parte dello Stabat (dalla strofa 11, parte che
rimarrà inalterata) appaltando a Tadolini la prima parte; poi però –
ritornatigli tempo e voglia - cassò tutti i numeri composti dall’amico per
sostituirli, ristrutturandoli profondamente, con farina del suo sacco.
L’ultima strofa di Jacopone (Quando corpus morietur) è originariamente affidata al solo quartetto
solistico (a cappella). Qui a Pesaro
tuttavia è ormai invalsa l’usanza – confermata ieri sera - di affidarla al
Coro, scelta arbitraria anche se non certo riprovevole, ma che non dà modo ai
quattro solisti di sciorinare le loro qualità (e di accommiatarsi prima del
finale) in questo brano assai impegnativo e di alta drammaticità. È un po’ come
far suonare un quartetto ad un’intera orchestra d’archi... privata delle prime
parti: è vero che alcuni famosi quartetti sono stati strumentati per ampio organico,
ma si tratta di esercizi di studio. Personalmente trovo assai preferibile la
soluzione originaria di Rossini.
In ogni modo l’esecuzione complessiva è stata di
livello più che dignitoso: punte di diamante, fra i solisti, le due voci
maschili, un Korchak impeccabile (per il quale alcuni spettatori hanno
abbozzato un applauso a scena aperta – tanto meritato quanto inopportuno - dopo
il Cuius animam, chiuso da uno squillante
e stentoreo REb acuto) e poi il papà del primogenito della Netrebko, che ha
sciorinato la sua voce scura e potente, in particolare nel Pro peccatis. Le due voci femminili (per me) un filino al di sotto:
la Jicia deve meglio saper controllare le sue esuberanti doti naturali, che la
portano a forzare gli acuti, che tendono a uscire stimbrati; la rediviva Shkoza
ha esibito voce potente e scura, ma (mi) è parsa non perfettamente fluida,
soprattutto nella sua cavatina.
Bene ancora il Coro
del Ventidio Basso di Giovanni Farina,
distintosi nelle parti più religiosamente sommesse (come l’attacco del citato Quando corpus) sia in quelle (vedi il Finale) dove l’impegno anche fisico
diventa proibitivo.
Sui suoi notevoli standard la OSN-RAI, dalla quale Daniele
Rustioni ha saputo cavare sonorità vuoi delicate e struggenti, vuoi
poderose e spettacolari.
Alla fine trionfo per tutti, con ripetute chiamate,
in un Teatro Rossini (con pochissime poltrone vuote) che ha così salutato in
bellezza la chiusura di questo ROF-38.
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La serata era però stata aperta dall’esecuzione del Preludio Religioso dalla Petite Messe Solennelle, orchestrato
anni fa dal compianto Alberto Zedda,
esecuzione preceduta da un indirizzo del Sovrintendente Mariotti che ha
ricordato con evidente commozione la figura del Maestro che tanto ha dato per
il ROF, e ha anche spiegato i razionali che portarono Zedda a decidere di
orchestrare quel brano che Rossini aveva affidato al solo organo. È stato
insieme un omaggio all’indimenticabile Direttore Artistico e un arrivederci al
2018, quando proprio la Piccola messa
tornerà per porre il sigillo all’edizione numero 39 del Festival.
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