Ritorno sotto le enormi valve dell’Adriatic Arena (parecchie
anche ieri le poltroncine vuote, peraltro) per l’ultima recita de La pietra del paragone, la settima opera che portò al ventenne Rossini il successo e la
notorietà sulla piazza milanese. In quel 1812 la Scala aveva in cartellone due
opere che avevano avuto un discreto, se non grande, successo: il Ser Marcantonio del Pavesi e Le bestie in uomini
del Mosca, che non erano proprio da
buttar via, almeno a giudicare da qualche frammento recuperabile anche in rete
(la Sinfonia del Pavesi e una scena-e-aria con
corno obbligato del Mosca) che sembrano anzi dei modelli di riferimento per il
Gioachino. Eppure la Pietra eclissò
totalmente le due concorrenti: e il pubblico milanese in quell’autunno non
volle più ascoltare altro che Rossini!
Su un libretto di Luigi Romanelli, assai raffinato nella forma quanto inverosimile
nel contenuto (basti pensare ai due speculari travestimenti di Asdrubale e
Clarice) Rossini compose quasi tre ore di musica che scorre via senza cadute di
tensione o rilassamenti, una vera e propria abbuffata di numeri: cavatine, arie, duetti, terzetti, quartetti, quintetti,
cori, un temporale e ovviamente i due concertati finali. Non mancano anche qui
gli auto-imprestiti (in e out): dall’Equivoco stravagante (sua terza opera, che aveva fatto fiasco a
Bologna) arrivano – rielaborati dal compositore - tre numeri della Pietra (coro
di cacciatori, quintetto e aria di Clarice-Lucindo); la Sinfonia venne invece
presa di peso e trasportata al Tancredi
veneziano, il terzetto del duello andrà nella Gazzetta, il Temporale nell’Occasione
e successivamente nel Barbiere. A
testimonianza della disinvoltura (ma anche dell’acume e dell’intelligenza) che
Rossini impiegava nel disporre della sua propria musica.
Compagnia di canto giovane, con parecchi
ex-accademici che hanno mostrato le loro promettenti qualità, già emerse alla
prima e all’ascolto radiofonico. Ma i mattatori della serata sono stati i due buffi: Paolo Bordogna che ha confermato (come Pacubio) la sua gran classe
e ha strappato applausi, non solo con la bizzarra e parodistica Missipipì; con lui un ottimo Macrobio di
Davide Luciano, autore di una prova maiuscola,
per spiegamento dei suoi potenti mezzi naturali, oltre che per
caratterizzazione del personaggio.
Maxim Mironov e Aya
Wakizono (tenore e contralto, coppia di potenziali amanti certo meglio
assortita – musicalmente – di quella Asdrubale-Clarice che invece godrà del
lieto-fine) mi son parsi degni di apprezzamento: lui, ormai alla terza presenza
al ROF (dopo 2006 e 2015) non è più da scoprire ed anzi pare fare progressi col
passar degli anni, così ha sciorinato una splendida aria nel second’atto. Lei è
alla prima presenza nel cartellone principale (fece da accademica il Viaggio nel
2014, prima di passare ad un’altra accademia, quella scaligera) e ha mostrato
voce ben impostata e accenti adeguati al ruolo. Ad entrambi si può peraltro imputare
la mancanza di qualche decibel, che ha
un filino penalizzato le loro prestazioni.
A Gianluca
Margheri era affidato il ruolo (Asdrubale) di grande impegno e difficoltà:
che il nostro ha cercato di superare non senza qualche affanno, in specie nei
virtuosismi cui Rossini chiama il protagonista, tuttavia mi sentirei di dargli
un voto nettamente positivo.
Detto che William
Corrò è stato un onesto Fabrizio, restano le due pettegole arriviste della compagnia: come già alla prima radiofonica, Marina
Monzó e Aurora
Faggioli non mi hanno particolarmente
impressionato: comunque un filino meglio la prima, discreta nella
sua arietta e meno... vetrosa e
urlacchiante della seconda.
Il Coro (maschile, ieri) del Ventidio Basso di Giovanni
Farina, impegnato in misura corposa, ha ancora sfoggiato affiatamento,
precisione di attacchi e belle sonorità.
Per l’OSN-RAI non
si possono ripetere che elogi ed apprezzamenti: con una partitura che non a
caso viene definita tedesca (per la
strumentazione lussureggiante, scritta per un’orchestra – quella della Scala
del 1812 - agguerrita come le compagini del Nordeuropa) i nostri radiofonici
vanno evidentemente a nozze. Daniele
Rustioni li ha guidati con perizia e rigore: Orchestra e Direttore
torneranno martedi a chiudere (in bellezza, c’è da esserne certi) questo ROF-38
con lo Stabat Mater.
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Pier Luigi Pizzi ha ripreso, con parecchi
aggiornamenti, il suo simpatico allestimento che tre lustri non hanno per nulla
invecchiato, anzi! La storiella improbabile di Romanelli si può perfettamente
ambientare in spazio e tempo qualsivoglia, rappresentando a suo modo un
archetipo di certa società benpensante e di ceti parassitari presenti sotto
ogni latitudine e in ogni epoca.
Quello di quest’anno si ricorderà come il ROF-delle-passerelle: dopo Padrissa e Martone,
anche Pizzi ne ha fatto uso (peraltro in modica quantità) come appendice alla
sua scenografia riproducente un villino con piscina, ispirato al regista
proprio da una sua casa al mare. Regista che si è presentato
baldanzosamente sul palco a raccogliere applausi e ovazioni, meritati per lo
spettacolo e insieme per la sua interminabile carriera.
Alla fine trionfo per tutti, con passerella generale
accompagnata da Richard Barker al
fortepiano.
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