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23 agosto, 2015

Il ROF-36: Stabat Mater + spizzichi di Tell

 

Il ROF-36 ha chiuso i battenti, in un Teatro Rossini ancora gremito, con l’ormai tradizionale concerto, diffuso anche in streaming, oltre che in Piazza del Popolo a Pesaro. Pezzo forte lo Stabat Mater, al suo ritorno dal 2010, protagonisti gli stessi complessi bolognesi di allora: orchestra, coro e… futuro direttore musicale. E proprio Michele Mariotti, prima di attaccare lo Stabat, ha voluto rievocare quella sera domenicale del 22 agosto di 5 anni fa per ricordare una persona che allora fu protagonista e che da poche settimane non è più fra noi: Paolo Vero, a quel tempo Maestro del Coro felsineo. Di quel concerto conservo anch’io un bel ricordo, immortalato in rete da questa cronaca.

Se la Messa di Gloria (1820 a Napoli) aveva entusiasmato molti ma anche fatto storcere il naso a più d’uno per l’eccessiva invadenza di temi e atmosfere teatrali in una composizione sacra, lo Stabat (1842 a Parigi) ricevette un’accoglienza trionfale e poche furono le voci di critica all’eccessiva secolarizzazione della musica sacra del genio pesarese (una di queste voci fu quella di Wagner, che più tardi però ebbe modo di ricredersi). Sul programma di sala Ilaria Narici (attuale Direttrice dell’Edizione critica della Fondazione Rossini) riassume i termini generali della problematica legata ai rapporti fra musica sacra e profana (teatrale) come si era sviluppata tra la fine del ‘700 e i primi anni dell’800, in coincidenza con il tramonto degli ideali illuministi – che avevano regolato in modo razionale tali rapporti, a partire dalla rigida separazione fra i rispettivi stili e forme - e l’insorgere prepotente del romanticismo, che quei rapporti e quelle regole metteva profondamente in discussione. Così conclude Narici: Rossini non scrive una musica sacra astratta e romanticamente idealizzata, ma fa della contaminazione degli stili la forza e l’attualità dell’opera e in questo senso, contrariamente alle interpretazioni che vedono l’opera rossiniana guidata da un’estetica conservatrice, ne sancisce l’assoluta modernità. E credo che il concetto si applichi anche a Verdi, al cui Requiem (nato in origine proprio come omaggio alla memoria del Maestro pesarese) verranno mosse critiche di eccessiva melodrammatizzazione, critiche che francamente lasciano oggi il tempo che trovano.

È opinione diffusa che lo Stabat sia una specie di evoluzione dell’estetica musicale rossiniana già manifestatasi nel Tell. E non a caso l’apertura del concerto finale del ROF-36 è stata affidata a note dell’ultima, grande opera di Rossini. Così abbiamo potuto ascoltare alcuni dei brani corali-danzati, estrapolati dall’edizione critica dell’opera, curata a suo tempo da una delle principali contributrici della Rossini-renaissance: M.Elizabeth C. Bartlet.  

Dapprima tre brani dall’atto I e precisamente:

- il N°4, Choeur dansé (Choeur de Suisses, Hyménée);
- il N°5, Pas de six;
- il N°5b, Pas de deux.

Poi, dall’atto III:
- il N°15, Pas de trois et choeur tyrolien (Petit choeur de Suisses; Choeur de Suisses et soldats, Petit choeur de Suisses, Toi que l’oiseau, Dans nos campagnes);
- il N°16, Pas de soldats, che ha chiuso in modo a dir poco travolgente la prima parte della serata, permettendo ad orchestra e coro – che il Tell hanno avuto modo di interpretare di recente qui a Pesaro, poi a Torino e Bologna - di… scaldare i muscoli.

Quindi ecco lo Stabat, che non ha tradito le aspettative: a partire da Mariotti, che ha mantenuto un sapiente equilibrio di dinamiche, evidenziando tutti i dettagli della complessa partitura (rispetto al 2010 ha cambiato il layout dell’orchestra, disponendolo alla alto-tedesca, bassi a sinistra, celli al centro e violini secondi al proscenio). Per proseguire con il coro di Andrea Faidutti, sempre compatto e preciso, cui ancora una volta è stato affidato – scelta sempre discutibile peraltro, avendo i suoi pro-e-contro rispetto all’impiego del solo quartetto solistico - il Quando corpus morietur, a cappella, esposto con grande… religiosità; coro che ha poi chiuso in bellezza con la fuga conclusiva, dove Rossini, a 20 anni di distanza dalla Messa di Gloria, ha mostrato alla grande di non aver più bisogno del supporto contrappuntistico di un Pietro Raimondi…

Bene anche i quattro solisti, fra cui si è ben distinto René Barbera, e non solo per il famoso e squillante REb sovracuto del Cuius animam. Ma anche gli altri hanno ben meritato, a partire da Nicola Ulivieri, impeccabile nel suo Pro peccatis e nel successivo Eja mater; ad Anna Goryachova, cresciuta dopo un avvio non proprio perfetto fino ad un convincente Fac ut portem; e per finire con Yolanda Auyanet, la quale oltre che per una voce ben impostata in tutti i registri (inclusi gli acuti, a giudicare dai due DO dell’Inflammatus) si è fatta notare (e come!) per l’abbigliamento consono, più che ad una cerimonia religiosa, all’incoronazione di… Poppea (stra-smile!)             

E con questa nota di colore, auguro (a me stesso, innanzitutto): arrivederci al ROF-37, se (…) vorrà.


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