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08 agosto, 2015

Arriva il ROF XXXVI

 

Lunedì 10 agosto apre l’edizione n°36 del RossiniOpera Festival.

 

In proposito, ecco qualche notazione statistica. La Gazza ladra è alla sua quinta apparizione al ROF, che inaugurò nel 1980 e dove è poi tornata nel 1981, 1989 e 2007 (quest’ultimo allestimento, dovuto a Damiano Michieletto, viene ripreso nell’occasione). Anche L’inganno felice ebbe l’onore di aprire le edizioni del Festival, tornandovi poi nel 1994 (e in quello stesso allestimento di Vick torna anche quest’anno). La Gazzetta vanta presenze più recenti, che risalgono al 2001 e al 2005 (allestite da Dario Fo).

 

Più in generale: l’opera maggiormente gettonata del ROF resta La scala di seta, con 6 apparizioni fra il 1988 e il 2011. Il Festival ha ospitato fino ad oggi 38 opere rossiniane: se si escludono i centoni (o pastiche che dir si voglia) Ivanhoé e Robert Bruce e Ugo, Re d’Italia (rimasta nel catalogo solo per la cronaca, essendo andata perduta), dell’intera produzione teatrale del Gioachino in pratica rimane ancora ineseguita al ROF soltanto Eduardo e Cristina. Dalla prima del 1980, 27 delle 36 edizioni hanno presentato almeno una nuova opera. Ciò non è avvenuto per 9 edizioni, che hanno presentato solo opere già comparse in annate precedenti: 1989, 1994, 2003, 2005, 2007, 2008, 2009, 2013 e 2015.

 

È pacifico che ormai (salvo una futura eventuale proposta di Eduardo) il ROF ha perso la sua originaria caratteristica di palestra impiegata per portare in vetrina opere rossiniane dimenticate e/o criticamente editate – cioè rimesse-a-nuovo - dai musicologi (Cagli, Gossett, Zedda e altri 36 collaboratori) per assumere esclusivamente un ruolo più simile a quello che svolge Bayreuth in casa-Wagner, particolarmente dal 1951, quando si passò dalla concezione sacrale-museale del Festival a quella votata alla proposta di nuove interpretazioni (musicali e registiche) dei drammi wagneriani. Con la differenza che Bayreuth (che oltretutto si ostina a disconoscere le tre opere della produzione pre-Holländer) ha soltanto 7 ingredienti per confezionare la minestra del suo Festival, mentre Pesaro ad oggi ne dispone di ben 38!

 

La tabellina che segue riporta (aggiornati al 2015) i dati relativi alle esecuzioni dei diversi titoli al ROF (la colonna più a destra indica il numero di catalogo dell’opera):



Come in tutti i processi (non solo economici) anche qui assistiamo – come teorizzò il vecchio e troppo frettolosamente sepolto Karl Marx - ad una mutazione quantitativa che alla fine ne induce una – ben più radicale – di natura qualitativa. Il pubblico che negli anni ‘80 arrivava in agosto da ogni angolo del pianeta nella piccola Pesaro, lo faceva perché lì e solo lì si potevano gustare delle primizie rossiniane introvabili a LosAngeles, Berlino, Sidney e in ogni altro posto al mondo. Era un pubblico tutto sommato elitario, formato da rossiniani sfegatati e da operatori interessati a riproporre a casa loro o in disco ciò che la Pesaro-ROF metteva via via a disposizione. Mentre la Pesaro-città viceversa – parole di patron Mariotti - più che supportarlo, il Festival lo sopportava

Oggi, proprio grazie all’opera dei musicologi della Fondazione, a Casa Ricordi e alla straordinaria produttività del ROF, parecchie delle opere rossiniane un tempo sconosciute, o dimenticate o bistrattate, sono comodamente fruibili in-loco a LosAngeles, Berlino, Sidney e in moltissimi altri teatri del globo, per non parlare della spettacolare e capillare diffusione di immagini e suoni rossiniani garantita dalle incisioni, dal web e dal tube!

E allora come si fa per invogliare pubblico da tutto il mondo (ancora nel 2014 gli stranieri rappresentavano ben i 2/3 delle presenze!) a continuare a recarsi nella piccola Pesaro? È questa una sfida non da poco, che Mariotti&C hanno del resto cominciato ad affrontare da qualche anno, con risultati per ora – almeno a sentir loro – incoraggianti. E si basa sull’idea – ecco il parallelo con Bayreuth post-1951 - di offrire sempre nuove interpretazioni (che significa: cast, direttori, regìe) dei titoli rossiniani che ormai, proprio grazie ai successi di 35 anni di ROF, non posseggono più i tratti dell’assoluta novità. In questa logica si inserisce il nuovo allestimento che caratterizza una delle tre opere in programma quest’anno.

Per il resto, il progressivo e fatale svuotarsi del serbatoio delle novità, in aggiunta a fattori esogeni legati alla perdurante crisi economica, hanno fatto sì che le risorse disponibili (alla Fondazione Rossini ma soprattutto al Festival) abbiano subito negli ultimi anni tagli consistenti. Stando a Mariotti, oggi il Festival dispone di un budget che è poco più del 50% di quello di cui disponeva 10-15 anni fa, e con quello deve comunque garantire un’offerta dignitosa; non solo, ma anche giustificarsi economicamente: non a caso viene attribuita un’enfasi crescente al cosiddetto indotto del ROF sull’economia locale, calcolato dagli esperti ricercatori dell’Università di Urbino in termini di € di fatturato incrementale delle strutture commerciali dell’area per ogni investito nella realizzazione del Festival. Numeri che sembrerebbero giustificarne ampiamente – quanto meno sul venale fronte del business – tanto l’oggi che il domani.

A proposito di mutazioni, proprio con il 2015 si chiude il ciclo del venerabile Alberto Zedda quale Direttore artistico: dal 2016 il suo posto verrà preso da Ernesto Palacio (Zedda rimarrà tuttavia responsabile dell’Accademia). È stato nel frattempo anche annunciato il programma del ROF-37, che comprenderà Donna del lago, Turco e Ciro (ma le sorprese - sotto forma di variazioni - come ben sappiamo qui sono all’ordine del giorno…)

Adesso, poche note sui tre titoli in programma da lunedi, in ordine cronologico di composizione.
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L’Inganno felice è una farsa rappresentata per la prima volta a Venezia mercoledì 8 gennaio 1812. Rossini, ventenne, è qui alla sua quarta esperienza compositiva, ma solo alla terza teatrale (dopo Cambiale ed Equivoco) poichè la sua prima opera, Demetrio e Polibio, verrà rappresentata (a Roma) solo nel maggio successivo, subito dopo un’altra farsa veneziana (La scala di seta).

L’Inganno è la seconda delle 5 farse che Rossini compose per il Teatro SanMoisè in poco più di 2 anni (dicembre 1810, Cambiale – gennaio 1813, Bruschino) e che rappresentavano fino ad allora più della metà della sua produzione (in tutto 9 titoli). Due mesi dopo L’Inganno, Rossini presenterà a Ferrara il suo Ciro, un’opera seria che doterà – guarda un po’ – della stessa Sinfonia (dai tratti che anticipano certo Schubert…) della farsa veneziana, inaugurando con ciò la lunga serie dei suoi auto-imprestiti e la sua propensione a svincolare i contenuti musicali dai soggetti delle opere.

Per la verità, se guardiamo da vicino il testo di Giuseppe Foppa dobbiamo concludere che l’attributo di farsa non vada per nulla inteso nel senso di pezzo comico o leggero, ma semplicemente di opera breve, dalla struttura semplice e concisa (atto unico con 8 numeri musicali in tutto, Sinfonia esclusa). In effetti, il testo presenta risvolti assai drammatici, e il lieto fine è l’unico squarcio consolante di tutta la vicenda. Più che un dramma giocoso (come venne caratterizzato) è una classica pièce au sauvetage, dove la sfortunata protagonista viene miracolosamente restituita all’affetto del nobile marito dopo aver rischiato di fare una brutta fine per la seconda volta nella vita e per mano del medesimo sbifido individuo, finalmente e doverosamente tratto in catene. Insomma, qualcosa di vagamente simile (nel suo piccolo) al Fidelio, che a nessuno verrebbe in mente di catalogare come farsa solo perché alla fine due coniugi vi si riuniscono felicemente mentre un tiranno viene castigato come si merita…

In rete è possibile ascoltare almeno due edizioni complete dell’opera: una diretta da Marcello Viotti nel lontano 1992 e l’altra più recente (2010) di Marc Minkowski.  
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La Gazzetta, unica opera buffa composta per Napoli (debutto al Teatro dei Fiorentini, giovedì 26 settembre del 1816, poco più di due mesi prima dell’Otello) si avvale di un libretto a dir poco strampalato di Giuseppe Palomba. A differenza dell’originale che lo ispirò (un mirabile testo di Goldoni) esso è un insipido minestrone infarcito di gratuiti equivoci, imbrogli e travestimenti che – manco a dirlo - si salva esclusivamente grazie alla straordinaria verve della musica del Gioachino. Che già si manifesta dalla Sinfonia, uno dei gioiellini rossiniani, la cui fama fu ulteriormente illustrata dal suo totale re-impiego, 4 mesi più tardi, per la romana Cenerentola.

A sua volta la sinfonia recupera il secondo tema dal Torvaldo, dato a Roma meno di un anno prima, nel dicembre del 1815. E, a proposito di riciclaggi, chissà quale fu il nesso causa-effetto che determinò – nel testo – l’invenzione della scena del ballo con i travestimenti da turchi e – nella musica – gli auto-imprestiti rossiniani dal Turco in Italia.  Ma l’imprestito più famoso è quello… mancato, poiché lo si ritrova nel libretto, ma non nella musica. Dunque, a metà del primo atto era d’uso collocare un concertato (o un quintetto, come in questo caso) che creasse un climax intermedio, prima del finale. Nella Gazzetta è il momento in cui si sciolgono, alla presenza di Pomponio, gli equivoci Filippo-Lisetta e Alberto-Doralice, e dove tutti manifestano stupore e incredulità, chiudendo il quintetto con l’impiego quasi alla lettera dei versi che si odono alla fine del primo atto del Barbiere, di soli 7 mesi più anziano:

Mi par d’esser con la testa
in un’orrida fucina,
ove cresce e mai non resta
un continuo susurrar.
Alternando questo e quello
pesantissimo martello,
che coi colpi d’ogni intorno
fanno l’aria rimbombar.

Per ragioni insondabili – la più gettonata è quella della necessità di stringere i tempi, già ampi, dell’atto primo – Rossini non musicò il quintetto, che viene direttamente cassato oppure – come fece Dario Fo nella sua regìa al ROF – semplicemente recitato con accompagnamento di altra musica rossiniana. Ebbene, nel 2011, a quasi 200 anni di distanza, si è ritrovato a Palermo un manoscritto di Rossini che l’esperto Philip Gossett non ha esitato a riconoscere come il quintetto mancante all’appello. Si tratta di un brano tripartito la cui ultima sezione, sui citati versi del Barbiere, ne ripropone sostanzialmente anche la musica. Qui lo si può seguire nella prima esecuzione assoluta, avvenuta in USA nel 2013 proprio sotto la supervisione di Gossett. Il quale ha successivamente retro-fittato (come barbaramente direbbero gli informatici) il quintetto nella sua edizione critica del 2001 (Ricordi) che è stata impiegata per la prima volta a Liegi nel 2014 in questa edizione dell’Opera (a partire da 47’00”). Qui il sestetto del Barbiere incorporato nel quintetto della Gazzetta. Ecco, il ROF non ha voluto fare uno sgarbo a Gossett (che nel 2006 ha, diciamo così, divorziato dalla Fondazione Rossini) e ha deciso di incorporare il ritrovato quintetto nell’edizione 2015; staremo a vedere sentire.

Aspettiamo anche con interesse di vedere il nuovo allestimento di Marco Carniti.
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La Gazza ladra (che debuttò sabato 31 maggio del 1817 alla Scala) fu un’opera totalmente nuova, cui Rossini dedicò la massima cura, scrivendone ex-novo tutte le note, a partire dalla famosissima Sinfonia, che non è un brano avulso dal contesto, ma nella quale compaiono almeno due motivi che si udiranno nell’atto secondo: il crescendo che segue il secondo tema (SOL maggiore) il quale sostiene il coro-concertato (Udiste, vi seguo) dopo l’aria del Podestà (In odio e furore); e poi il primo tema (in MI minore) che supporta il duetto Pippo-Ninetta (A mio nome deh consegna).

In rete è disponibile una registrazione del 2007, dalla quale è possibile farsi un’idea del premiato spettacolo di Damiano Michieletto (il cast 2015 è invece totalmente rinnovato, così come la compagine strumentale, il coro e il concertatore). Forse più storicamente interessante è la registrazione del 1989, introdotta da una splendida Simona Marchini.
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Appuntamenti su Radio3 il 10-11-12 (ore 20) per le tre prime del cartellone principale.


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