Archiviato (dal mio punto di vista e senza troppi
rimpianti) il Festival wagneriano, sta arrivando l’ora (10 agosto) di quello rossiniano: un virtuale trasferimento
dalla verde collina di Franconia alle calde sabbie dell’Adriatico.
Il che mi dà lo spunto per qualche considerazione
sui rapporti e i reciproci apprezzamenti (veri o presunti tali) fra questi due compositori
che – nel giro di 50 anni – produssero le due più epocali svolte nella storia
del teatro musicale.
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È opinione diffusa che Rossini avesse
scarsissima considerazione di Wagner, e al proposito circolano da sempre
aneddoti di ogni tipo. Al musicista Michele
Carafa (Caraffa) wagneriano convinto, si narra che Rossini fece servire a
cena una portata di pesce guarnito con diverse salse, ma dove mancava proprio…
il pesce: spiegando che chi apprezzava la musica di Wagner (tutto contorno e
niente melodia) avrebbe dovuto quindi apprezzare la sola salsa senza il pesce. Sappiamo
peraltro (da quanto riferito da Wagner stesso nella terza delle sue Censuren - Eine Erinnerung an Rossini – vergata in occasione della morte di
Rossini e da quanto dettagliatamente riferito da Edmond Michotte, testimone oculare) che in occasione dell’incontro
che i due musicisti ebbero a Parigi nel 1860 (quando Wagner era là per
preparare Tannhäuser) l’anziano
maestro italiano smentì categoricamente ogni malignità che gli era stata
attribuita nei suoi riguardi dai giornali, cui dichiarò di aver chiesto formali
smentite di queste dicerie.
Un’altra citazione rossiniana che si legge
ovunque riguarda Lohengrin: Rossini
avrebbe affermato che per giudicare compiutamente l’opera fosse necessario
almeno un secondo ascolto, che lui però… si sarebbe ben guardato dal fare. Ora
sappiamo benissimo che, Rossini vivente, di Lohengrin a Parigi si eseguirono
soltanto pochi brani antologici (la prima rappresentazione si ebbe nel 1877…) il
che rende assai poco verosimile quella battuta. Così come altre, del tipo:
Wagner ha qualche momento buono e interi quarti d’ora insopportabili; oppure:
finalmente riesco a capire qualcosa di questo Tannhäuser (ma la partitura è capovolta…);
e così via.
Quel che è certo è che Rossini non
poteva condividere la visione wagneriana sul futuro dell’opera (sono figlio del mio tempo…) ma nemmeno
si può escludere che la giudicasse con un minimo di tolleranza e senza farci
guerre di religione.
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E Wagner, cosa pensava di Rossini?
Beh, che Wagner non avesse in simpatia
l’establishment culturale e musicale del suo tempo è assodato. Ed è noto come
avesse aspramente criticato - particolarmente in Oper und Drama - lo sviluppo del teatro musicale e dell’opera così
come maturato negli anni di massimo fulgore di Rossini. Nel capitolo L’Opera e la natura della musica Wagner
dedica pagine e pagine a Rossini, analizzandone l’approccio compositivo: in
primo luogo il ruolo preminente destinato proprio alla melodia, tanto genialmente ispirata da profumare i fiori finti delle
sue opere facendoli apparire come veri! Certo, Wagner si scaglia contro quella che
considera un’autentica degenerazione dell’arte musicale, ma riconosce a Rossini
una specie di stato di necessità, che
lo aveva portato ad assecondare le tendenze
di mercato: che privilegiavano i cantanti, le voci, i gorgheggi,
sacrificando ad essi – pura forma – la sostanza dei contenuti del dramma per musica.
Ma è significativo notare come il citato
capitolo si apra con queste precise parole: dieser große Künstler war Joachimo Rossini, questo grande artista fu Rossini.
Il che ci fa pensare che di lui Wagner avesse un’alta considerazione (così come
di Bellini, del resto; al contrario di Donizetti, che Wagner detestava
probabilmente per aver dovuto sbarcare il lunario trascrivendone per trombetta
alcune arie). Interessante notare il trattamento riservato (sempre nel citato
Oper und Drama) a Giacomo Meyerbeer, accreditato
di capacità musicali pari a zero! Evidentemente
per lui non valeva la giustificazione delle esigenze di mercato! (Poi, per
dimostrare che i suoi non erano ciechi pregiudizi, Wagner fa una lode sperticata
del passaggio in SOLb maggiore – Tu l’as
dit – di Raoul-Valentine dal quarto atto di Les Huguenots, che forse gli ispirerà qualcosa nel Tristan…)
Ci sono poi le controverse citazioni
che Wagner fa di
motivi rossiniani nei Meistersinger. La
prima riguarda Beckmesser, che i sostenitori
(Gutman, Zelinsky, Millington, Leeson,
Nicholson, Brach, etc.) della tesi secondo cui l’anti-semitismo sarebbe
organicamente connaturato alle opere di Wagner, definiscono come rappresentante
della razza semitica, individuo artisticamente inferiore che però cerca di
conquistare Eva con tutti i mezzi, anche illeciti, a spese del puro ariano Stolzing.
Orbene, dato che a lui Wagner mette in bocca una parodistica citazione della serenata di Lindoro dal Barbiere, ne
deriverebbe il facile e offensivo parallelo: Rossini=Beckmesser=verme. Ma
basterà ascoltare come quel motivo viene da Wagner magistralmente sviluppato
per rendersi conto dell’assurdità di tale parallelo.
Poi è soprattutto la citazione del
motivo Di tanti palpiti dal Tancredi ad essere presa di mira.
Vediamo come e perché. Il presupposto filosofico è l’astio razionale che Wagner
avrebbe nutrito per l’arte degenerata (rappresentata principalmente dagli ebrei
Mendelssohn e Meyerbeer, ma anche dall’imperante opera italiana) che avrebbe minacciato di inquinamento la pura Arte tedesca.
Orbene, nel terzo atto dei Meistersinger
Wagner mette in scena l’arrivo delle diverse corporazioni di Norimberga presso
la spianata sulla Pegniz dove si celebrerà la festa di SanGiovanni (che
includerà anche la tenzone canora): ciascuna corporazione marcia fra uno
sventolio di bandiere e stendardi, cantando le lodi delle proprie
professionalità e i meriti acquisiti in passato presso la città e il popolo. Dopo
che per primi sono sfilati i calzolai (la corporazione di Hans Sachs) ecco arrivare i sarti
illustrando i meriti di un loro rappresentante che – tempo addietro -
nientemeno aveva salvato Norimberga da un assedio nemico, mettendo in fuga gli
assedianti con un curioso quanto geniale stratagemma: cucendosi addosso una
pelle di caprone ed esibendosi in corse e salti sulle mura della città. Al che
il nemico, disgustato dalla prospettiva di dover affrontare non esseri umani ma
mandrie di cornuti, aveva deciso fosse meglio lasciar perdere l’assedio…
(evabbè)
È qui che Wagner cita, in modo
parodistico, i famosi palpiti dal Tancredi.
Ed ecco che diventa facile sostenere che la citazione, fatta nel contesto di
una storia di assedio della città tedesca, in realtà rappresenterebbe, secondo
Wagner, l’assedio che la cultura straniera (qui quella italiana, impersonata da
Rossini) starebbe portando a quella tedesco-luterana. Da ciò i successivi
incitamenti di Sachs a difendere l’arte tedesca da queste minacce, e la
profezia che essa, se onorata e custodita dal popolo, avrebbe potuto
sopravvivere anche al tracollo del Sacro
Romano Impero.
Insomma: citandone un motivo musicale
del Tancredi in modo tendenzioso se non addirittura calunnioso, Wagner avrebbe offeso
e dileggiato Rossini come un pericoloso nemico dell’arte germanica. Ma sarà proprio
così?
Proviamo ad analizzare un
po’ più da vicino lo scenario, dando un’occhiata all’unica fonte certa,
autentica e inoppugnabile di cui disponiamo: la partitura (testo e musica di Wagner). Ecco cosa ci troviamo
precisamente nel momento in cui i sarti cantano l’inizio della loro storiella:
nove battute, che possiamo suddividere in due parti uguali. Nelle prime 4 e
mezza c’è il ricordo dei giorni tragici dell’assedio, nelle successive 4 e
mezza l’anticipazione dello scampato pericolo, grazie al coraggio e
all’inventiva del sarto:
L’entrata dei sarti si accompagna ad una
repentina modulazione: dal DO maggiore precedente (con i festosi squilli di
tromba) si passa al LA minore, poiché il coro deve raccontare il pericolo
mortale vissuto dalla città assediata (sono le prime 4 battute e mezza). Poi
abbiamo la transizione verso il consolatorio e allegro ricordo dell’impresa del
sarto che occupa, tornando a DO maggiore, le successive 4 battute, contenenti
appunto la citazione - la tonalità originale è FA - dei palpiti.
Ergo: la melodia rossiniana è impiegata
qui da Wagner per supportare l’epinicio dei sarti per il loro valoroso collega,
non già la minaccia portata dagli assedianti, che è stata evocata con il LA
minore precedente, che nulla ha a che fare con Tancredi. Ed è quindi una
citazione del tutto positiva, un vero e proprio omaggio al compositore italiano
di cui Wagner – lo abbiamo già appurato - apprezzava il genio, pur criticandone
l’involuzione delle forme musicali. Altro che considerarlo un… assediante!
Anche il tono allegro e scanzonato della citazione (i tre ein Schneider che devono essere cantati quasi… belando, in omaggio
al travestimento del sarto) non è certo irriguardoso né offensivo nei confronti
di Rossini, ma simpaticamente appropriato ad evocare un’impresa dai contenuti
più spassosi che drammatici (e del resto non fu proprio Rossini il campione
dell’impiego della medesima musica per supportare il serio e il giocoso?)
In ogni caso la prova definitiva l’abbiamo
chiedendoci: chi è Tancredi? Guarda caso un patriota,
precisamente come l’anonimo quanto bizzarro sarto di Norimberga! (O vogliamo
concludere che l’eroe di Wagner fosse in realtà una macchietta da
avanspettacolo? E che quindi tutti i Meister
siano una farsesca presa in giro, predica finale di Sachs inclusa?)
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Tornando a Pesaro, i tre titoli principali (per 4
recite cadauno) dell’Edizione n°36 del ROF (dedicata significativamente alla
memoria di Luca Ronconi) sono Gazza ladra, Gazzetta e Inganno felice. Cartellone assai diverso da quello prospettato un
anno addietro in chiusura del n°35 che prevedeva - oltre a Gazzetta - Donna del
Lago e Adelaide di Borgogna (della serie: mica siamo a Bayreuth!) In compenso è
un programma arricchito dal ritorno (dopo un ventennio e più: 1992 e 1995)
della Messa di Gloria (più Pianto
d’Armonia e Morte di Didone, con
due giganti rossiniani di nome Pratt e Florez!) e chiuso (sabato 22, con
diffusione in piazza) da una ripresa dello Stabat Mater (più Danze dal Tell) con Mariotti, come nel
2010.
Quanto agli allestimenti, la novità è La Gazzetta (regìa di Marco Carniti e
concertazione di Enrique Mazzola) mentre La
Gazza ladra riprende la fortunata produzione targata Michieletto del 2007 e
L’inganno felice quella ancor più
stagionata di Vick del 1994.
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