Ieri sera terza recita (in una Scala che presentava
qualche buco in platea e parecchi vuoti nei palchi) del titolo che ha aperto a
SantAmbrogio. Come accade non da oggi, dopo una prima contestata, quella di ieri (ma, dicono, anche la seconda) è
invece stata accolta da convinti applausi e soprattutto senza aperti dissensi
(per la verità è mancato il giudizio sulla regìa, renitente al momento delle
uscite finali).
In ogni caso sul fronte dei suoni il
risultato mi è parso di livello notevole, grazie ai tre protagonisti
principali.
Diana
Damrau
si è confermata una Violetta di gran spessore, particolarmente convincente in
quei passaggi di maggior lirismo (che lei canta a fior di labbra, quasi a bocca
chiusa) ma sicura anche nel canto spiegato (e non solo per quel MIb che ieri ha
staccato con grandissima autorità). Se proprio dovessi trovarle un pelo
nell’uovo, direi di qualche acuto un filino calante e della cosiddetta ottava bassa che faticava a… percorrere
gli enormi spazi del Piermarini. Per lei, un trionfo totale.
Piotr
Beczala
era partito un filino contratto e piuttosto impreciso nei passaggi di maggior
virtuosismo, ma poi si è via via migliorato e nessuno ha trovato da ridire
sulla sua prestazione complessiva.
Anche Željko Lučić (per la verità l’unico personaggio che il regista ha… lasciato in pace,
smile!) ha confermato la prova
discreta dell’esordio, ieri oltretutto anche Gatti lo ha supportato meglio che
a SantAmbrogio.
Quanto ai comprimari, mi vien da citare per tutti il Gastone di Antonio Corianò. Sui suoi standard il
coro di Bruno Casoni.
Daniele Gatti? La
sua è una direzione improntata all’intimismo, quasi cameristica, che potrà non
piacere del tutto a chi ama un Verdi più sanguigno. A me non è dispiaciuta affatto,
e anche il pubblico si è mostrato di questo avviso: qualche timido
dissenso è stato ampiamente coperto da
applausi calorosi su cui si è inserita una raffica ritmata di bravo, bravo, bravo! proveniente (mi è
parso) da un singolo punto della prima galleria (evidentemente un supporter particolarmente agguerrito…)
Chi non si è fatto vedere, come detto, è il regista, sottrattosi all’esame-finestra:
così non possiamo sapere se il pubblico di ieri abbia gradito oppure no la sua
proposta.
E allora ci torno sopra io, cominciando col dire che la visione dal vivo
non
mi ha fatto cambiare idea rispetto a quella di SantAmbrogio in TV. Questo di Cerniakov è uno spettacolo assolutamente coerente in se stesso, incentrato su
una visione attualizzata del soggetto originale, ma dove l’attualizzazione,
ahinoi, comporta uno scollamento tanto evidente quanto stridente fra ciò che si
vede in scena e ciò che si ascolta dalle voci e dagli strumenti,
cioè da ciò che Piave e Verdi ci hanno lasciato.
Ora, per non dar l’impressione di emettere
giudizi sommari senza motivarli, prendo alla lettera il motto di Lissner (non
siamo qui per farvi divertire, ma per
farvi riflettere) e provo precisamente a fare qualche
riflessione. Lissner mi perdonerà se in queste mie riflessioni parlo di un prodotto (uso qui il linguaggio
universale anche se freddo del business)
che lui mi ha venduto come originale
e genuino (a giudicare dalla locandina) e che io (sulla fiducia) gli ho comprato, pagandolo, e profumatamente,
in anticipo.
Per non farla troppo lunga, parto direttamente
dalla fine (del resto in ogni opera in
fundo stat dulcis…) Dunque, nella Traviata
di Verdi-Piave (musica-libretto) abbiamo una giovane donna che muore. Di
cosa? Di una malattia del fisico, del
corpo, già ampiamente diagnosticata come letale e della quale Violetta è
perfettamente cosciente da tempo: sintomi si sono manifestati già nel primo
atto; poi, pur senza nominarla, ne ha fatto cenno a Germont-sr nell’atto
secondo. Certo, una malattia potenzialmente aggravata da componenti
psicologiche avverse, prima fra tutte una felicità tanto improvvisa, insperata,
inimmaginata e totalizzante rapidamente distrutta da fenomeni estranei a lei e
alla persona che l’ha resa felice.
Ma una cosa è
lampante, straordinariamente chiara: Violetta, che sa di morire (devolve in
carità gli ultimi spiccioli) muore però contro-voglia,
mentre vorrebbe cocciutamente vivere; immediatamente prima del finale collasso…
si rialza rianimata - ci spiega Piave
- e canta Cessarono
gli spasimi del dolore… in me rinasce… m’agita insolito vigor! Ah!… ma io…
ritorno a viver!… oh gioia! La vita le viene strappata proprio mentre le
cause della drammatica interruzione della sua felicità sono state interamente
rimosse, e ripristinate le condizioni (di natura privata e pubblica) perché quella
felicità possa tornare concreta, tangibile, possibile e praticabile. Insomma,
Violetta vuole vivere! E per questo
c’è una drammaticità commovente in quel suo sfogo Gran Dio! …morir sì giovane.
Chi le è
vicino al momento del trapasso? Precisamente quattro persone care (Grenvil,
vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...)
di cui sarà bene ricordare ruoli ed atteggiamenti. In primo luogo Alfredo, che
da quando se n’è innamorato non ha cessato di amarla, e non solo nelle tre lune trascorse con lei (contenta in quegli ameni luoghi!) ma anche successivamente, persino mentre sfogava
platealmente contro di lei tutto il suo risentimento. In fondo, si era reso
conto ben presto che lei era stata costretta a fingere di tradirlo, con il solo nobile senso di salvare l’onore suo e della sua famiglia. Poi papà
Germont, sinceramente pentito per aver interrotto quella felicità, ed ora
pronto ad ogni riparazione. E il medico, che amorevolmente accorre ripetutamente
al suo capezzale (trascurando magari migliori opportunità di guadagno) per
curarla e per confortarla. E infine Annina, ormai una fedele amica, prima
ancora che donna di casa.
Scenario strappalacrime ottocentesco?
Improponibile e ridicolo ai giorni nostri, dove le lacrime sono merce
sconosciuta a pochi e risorsa esaurita per i più? Forse, ma è precisamente a
questo scenario che stupendamente si attagliano i versi di Piave e -
soprattutto! - la musica di Verdi. Per dire, le 23 battute che precedono lo
spirare della donna che vorrebbe a tutti
i costi vivere sono una vera e propria Tod-und-Verklärung
ante-litteram (rispetto a Strauss ma anche al Wagner di Isolde e al Puccini di Mimì).
E da questo punto di vista benissimo ha fatto Gatti a riprendere l’orchestrazione del 1853, facendo suonare i due
soli violini à-la-Lohengrin
(l’abbassamento di un’ottava del 1854 è ormai appurato fosse esclusivamente dovuto
alla palese insufficienza di strumenti e strumentisti dell’epoca…)
Ecco, questo è il prodotto che uno
spettatore che riflette - caro
Lissner - si attende di ricevere in cambio del (salato) prezzo del biglietto.
Il regista ci metta pure (e ci mancherebbe!) tutta la sua fantasia e
sensibilità, ma il prodotto finale deve
avere quella sostanza, e in primo luogo possedere piena coerenza con quella
mirabile miscela di parole e musica che gli autori ci hanno consegnato. Altrimenti
è solo una (per quanto accurata) contraffazione.
Che prodotto ci consegna invece Lissner, per tramite
del suo regista russo? Una donna malata e morente sì, ma affetta da una tipica
malattia nervosa (lo abbiamo
constatato durante l’intera opera, anche ben prima della stroncante irruzione
di Germont-sr); una donna malata non ai polmoni ma alla mente (grottesca davvero la scena di Grenvil che ammicca ad Annina indicando
la condizione di Violetta con un inequivocabile picchiettare dell’indice della
mano contro la tempia, mentre canta la tisi
non le accorda che poche ore… !) una povera donna distrutta nella psiche, una
che non sta curando con farmaci un male fisico, ma una che sta impasticcandosi
con droghe e riempiendosi di alcol col risultato di aggravare il suo stato psicologico.
In poche parole: una donna alienata che non
vuole (più) vivere! In questo scenario la sua esternazione Gran Dio! …morir sì giovane suona come
una stridente contraddizione.
E chi si agita attorno a lei? Persone innamorate,
pentite e caritatevoli? Nemmeno per idea: tre persone che – letteralmente! –
non vedono l’ora che lei tiri le cuoia! Alfredo, che sembra infastidito,
proprio come fosse lì controvoglia e avesse altro di meglio da fare. Suo padre
che le si avvicina quasi timoroso (proprio come si fa con i matti…) E il
dottore, che resta lì impalato, quasi fosse impaziente di tornare al suo
ambulatorio per fare visite più lucrose. Alla povera Annina non resta che
cacciarli tutti perché quella disgraziatissima Violetta possa finalmente morire
senza disturbatori attorno.
Orbene, e vengo al punto cruciale
dell’intera questione: con una scena simile la
musica di Verdi (ma anche il testo di Piave, infatti in parte cassato, cosa
del resto non nuova) ci sta proprio come i cavoli a merenda. Meglio le si
attaglierebbe magari la musica che fu composta (80 anni dopo!) per un altro
capolavoro: Lulu…
E al resto dell’opera si possono
tranquillamente estendere le considerazioni fatte riguardo al finale: Cerniakov – a differenza della sua Violetta - non è mica fuori di testa, e
quindi tutto il suo spettacolo è coerente con la sua concezione, fin
dall’inizio non fa che preparare adeguatamente quel finale.
Non altrimenti si spiega l’approccio
letteralmente parodistico del regista
alla scena dell’incontro di Violetta con Alfredo e a quella successiva di
Violetta sola: nella prima Alfredo dovrebbe lanciare un seme (Di quell’amor…) che germoglia in Violetta
nella seconda (A quell’amor…) Noi
invece vediamo un Alfredo di credibilità zero e una Violetta che sembra farsi
beffe dei suoi sentimenti.
E così la scena d’esordio del
second’atto viene banalizzata in modo indisponente, a partire dall’ambiente:
invece di un salotto dove gli oggetti principali dovrebbero essere dei libri e l’occorrente per scrivere
(capita l’antifona, Cerniakov?) noi siamo in cucina, in mezzo ad ingredienti
assortiti per pizze e minestroni. E con Alfredo che ci racconta della sua nuova
vita al fianco di Violetta con parole e musica che esprimono rapimento e
felicità celestiale, mentre lei si aggira proprio lì attorno, impegnata come
lui in prosaiche faccende domestiche. Dico: una presa in giro!
Poco dopo, solo una Violetta isterica (che è diverso dallo sconvolta
e preoccupata) può aggredire letteralmente a pugni e spintoni un esterrefatto
Alfredo cantandogli …perché tu m’ami, tu
m’ami, Alfredo, non è vero?
Prima di trattare del secondo quadro,
un’osservazione di passaggio sulla cervellotica idea di fare l’intervallo lungo fra le due parti del second’atto.
Non parlo degli aspetti legati alla struttura stessa dell’opera, che prevede,
canonicamente, un finale d’atto in crescendo, con il concertato conclusivo, ma
semplicemente degli aspetti pratici, proprio terra-terra, della questione.
Dunque, qui ci sono tre intervalli: questo, lungo ben 40 minuti, più altri due –
pubblico inchiodato alle poltrone - di ben 8 minuti ciascuno, in corrispondenza
della fine del primo e del secondo atto. Totale, 56 minuti. Adesso, anche un
bambino che sa far le somme arriva a capire che, a parità di tempo totale, dividendo l’opera come si deve, si potevano
fare due intervalli di 25 minuti fra gli atti, più uno di 6 minuti fra i due quadri
del secondo. Cosa normalissima per chiunque ed ovunque, ma qui le cose normali evidentemente
sono considerate delle stupidaggini.
Ecco, la festa
in casa di Flora. Si potrà anche sorridere dell’idea di Verdi-Piave di aprirla con
i due cortei di invitati mascherati da zingarelle e toreri, ma ci spiega Cerniakov
perché la trasforma in una specie di goliardico de-profundis per il povero Alfredo? Che arriva una prima volta per ricevere
le condoglianze da parte degli invitati, prima di uscire per poi subito rientrare
al momento previsto dal libretto? Quello che, con un riso nevrastenico, fa volare
per aria mazzi di banconote per pagare Violetta non è un individuo alterato che
sfoga dolorosamente il suo rancore, ma un povero idiota, in preda ad una crisi di
nervi.
La finisco
qui (ma ci sarebbe ancora assai da contestare): insomma, un’idea-portante dello
spettacolo semplicemente bizzarra e cervellotica (per quanto realizzata con indubbia
maestrìa) che – manco a dirlo – è del tutto inconsistente con la musica e le
parole che si ascoltano.
Ecco, caro Lissner: questo è ciò che
uno spettatore che cerca di riflettere
– eh sì, non un talebano infiltratosi in loggione – deduce dall’osservazione
del tuo prodotto. Giudizio: buh!
2 commenti:
Il ragionamento è semplice. Non si può credibilmente ambientare Traviata nel 2013, perché nella nostra epoca il presupposto che regge la trama non è proponibile. Nessun padre di famiglia oggi si muoverebbe più per andare a recuperare il figlio che vive con una celebre mantenuta parigina, casomai gli manderebbe addirittura un’ email o un SMS di complimenti! Questo tipo di atteggiamento morale valeva fino all’ esplosione del Sessantotto, poi gli equilibri sono cambiati. In meglio o in peggio, non entra nel merito, ma profondamente mutati in ogni caso. Credo che un regista che voglia o sia messo nella necessità di contemporaneizzare si debba porre quesiti di questo genere.
@mozart2006
Effettivamente la nostra civiltà (o inciviltà) contemporanea ha in buona parte esorcizzato certi tabu ottocenteschi che quindi meno si prestano a suscitare emozioni nello spettatore di oggi.
Ma siamo sempre lì, il teatro musicale è un minestrone con tre ingredienti: testo, musica e scenario ambientale. Se un ingrediente lo sostituisci con qualcosa di totalmente diverso (ad esempio di attualità) rischi di produrre un minestrone indigeribile.
Allora ecco che dovresti cambiare anche altri ingredienti, a cominciare dal testo (la "tisi" nella fattispecie, giusto per esemplificare). Ma siccome la musica è stata ideata e composta su quel testo e in funzione di quello scenario, dovresti ritoccare, o radicalmente cambiare anche la musica!
Costruire una Traviata con parole di Piave, musica di Verdi e ambientazione come quella di Tcherniakov è come cucinare un minestrone (a proposito! ) con fagioli, cotiche e... curry! Vomitevole.
Ciao!
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