Der fliegende
Holländer ha così inaugurato il Festival n°101. Grandioso successo
di pubblico (stando a ciò che ci hanno riportato i microfoni delle radio) che
credo si spieghi col fatto che oggi – come negli anni ’40 – la Germania si
sente in guerra contro tutti, e a Bayreuth può mostrare i muscoli.
Christian
Thielemann – ormai il padre spirituale del festival - è il
trionfatore della prima, con una
direzione che più tedesca (e quindi autentica,
sia chiaro!) di così si muore: nel terzo quadro si vedevano chiaramente i panzer marciare su… Bruxelles (smile!) A parte le battute, Thielemann possiede quello che si
definisce il gene wagneriano, forse
già presente nel suo DNA, ma di certo ben pasciuto dalla frequentazione diretta
di gente come Karajan o indiretta di maestri come Furtwängler… L’unico difetto che gli imputo (personalmente) è la
manìa - comune peraltro a molti direttori, soprattutto se famosi - di lasciare
sulle partiture quelle che chiamo (con termine irriverente, ok) pisciatine di cane (tipicamente: indebiti salti di tempo, che faranno anche effetto, ma siamo sempre lì: se
accettiamo questa, allora dobbiamo poi accettare qualunque invenzione di
qualunque altro direttore?)
L’orchestra e
il coro di Bayreuth sono –
soprattutto se guidate da uno come Thielemann – delle macchine quasi perfette,
nelle quali è difficile trovare difetti, e anche oggi lo hanno confermato in
larga misura (ricordo solo una piccola sbavatura di un attacco del coro e un
paio di incertezze dei corni).
La protagonista principale, la Senta di Adrianne Pieczonka, ha avuto un partenza
un poco freddina, ma per il resto mi pare abbia ottimamente retto l’urto di una
parte assai impegnativa (buon viatico per quando la sentiremo in quel ruolo a Torino, fra
qualche mese).
Suo padre Daland, Franz-Josef Selig, mi è parso francamente non all’altezza: ha
cercato di dare espressione al personaggio, ma il canto ha lasciato a
desiderare assai: difficoltà continua di intonazione e timbro del tutto
sgradevole. Per me, un esordio non proprio felice sulla collina verde.
Meglio, se non altro date le circostanze di assoluta
emergenza in cui si è venuto a trovare, è andato l’Holländer di Samuel Youn: essere catapultato all’ultimo
momento in una prima e in un
ruolo-chiave (per uno che ha solo sostenuto a Bayreuth parti secondarie) non
dev’essere uno scherzo davvero. Lui in fin dei conti ha colmato il vuoto lasciato
da Nikitin (meglio: dall’ipocrisia dilagante lassù) in modo dignitoso.
Lo sfigato Erik era l’esordiente (a Bayreuth) Michael König: una prestazione appena
appena discreta la sua, in una parte pur non proibitiva (nell’aria del terzo
quadro ha accuratamente evitato anche un non impossibile LA acuto…)
Bene lo Steuermann di un altro esordiente, Benjamin Bruns, voce chiara e ben
impostata. Decisamente un gradino sotto la Mary di Christa Mayer.
___
PS: ogni volta che ascolto l’Holländer non posso non
pensare alla stupidità della tradizione di Bayreuth (leggi: Cosima) che vi
rappresenta quest’opera, e vi tiene rigorosamente fuori Rienzi.
Nessun commento:
Posta un commento