Je ne suis qu’une pauvre fille, ammette Manon al primo incontro con DesGrieux… e proprio mal messa è stata
fin dal suo nascere questa produzione scaligera
dell’opera di Massenet. Che ha perso
una dopo l‘altra - e in circostanze che stanno fra il comico e il disdicevole –
entrambe le primedonne chiamate ad interpretare il personaggio del titolo. Di
cui è divenuta forzatamente titolare a tempo pieno colei che avrebbe dovuto
fare da riserva, dando solo pochi cambi alle suddette primedonne.
Se
a ciò si aggiunge una delle solite regìe un po’ lunatiche (nel senso di… fatte
con le natiche, smile!) si ha un’idea
della mediocrità (relativamente al sempre più millantato e sempre meno
certificabile blasone del Teatro milanese) di questa proposta, che viene
peraltro da grandi istituzioni come la ROH, il MET e il Capitole di Tolosa (mal
comune, mezzo…) Insomma: uno spettacolo appena appena passabile, e principalmente
grazie al carisma di Fabio Luisi.
Ermonela Jaho ha un fisico minuto assai adatto ad impersonare questa
sedicenne vulcanica, impulsiva, viziata e irresponsabile (almeno al pari dei familiari
che la spediscono in convento da sola, caricandola su una diligenza, smile!) Quanto alla voce non mi è
dispiaciuta, specialmente nelle parti più acute, mentre l’ho trovata un po’
opaca nelle note più gravi. In complesso la sua è stata una prestazione
onorevole e non è detto che l’essersi ritrovata titolare per tutte le recite,
al posto delle blasonate e indisposte colleghe, non le abbia fatto bene.
Il
DesGrieux di Matthew Polenzani ha una
voce tanto piacevole quanto piccola e perdentesi nell’enorme spazio del
Piermarini. Discreto nelle parti più intimistiche della partitura, poco
efficace in quelle che richiedono slancio e apertura. Per impersonare un
diciottenne, ha un fisico un filino appesantito, ma comunque più appropriato di
quello di certi tenori (di ieri e di oggi) che passano il quintale (smile!)
I
comprimari hanno – chi più chi meno - più che altro vociferato le loro parti,
nessuno sollevandosi da una generale mediocrità. Un po’ meglio ha fatto il coro
di Casoni.
Come
detto, l’unica nota veramente positiva di questa produzione è, a mio avviso, la
concertazione di Luisi, che ha saputo
cavar fuori assai bene tutti i diversi accenti – dall’esuberanza delle scene di
massa, agli squarci intimistici e strappalacrime - di questa partitura. E
l’orchestra mi è parsa assecondarlo in tutto e per tutto. Non so da cosa siano giustificati
i tagli apportati alla musica: se dalla preoccupazione per la durata complessiva,
allora una soluzione meno barbara e più… musicale ci sarebbe: accorciare di almeno
10 minuti i due intervalli!
Su
una regìa come questa di Laurent Pelly
non si possono che avanzare i soliti dubbi. Intanto, la pervicacia con cui ci
si accanisce a spostare l’ambientazione di opere come questa - dall’originale, 1721,
al tempo in cui l’opera stessa fu composta, 160 anni dopo – è veramente
insensata: non aggiunge un’unghia di valore e in compenso butta nel cestino
tutti i riferimenti musicali che il
compositore così mirabilmente e faticosamente aveva introdotto nella partitura.
Il siparietto all’Opera ne è solo un
esempio qualunque: sulle note che rimandano al barocco noi vediamo una
sceneggiata degna dello squallido mondo dei soci del Jockey-Club, che a fine spettacolo prendono di peso le ballerine e se
le caricano in spalla per portarsele evidentemente a letto…
Il
quale letto – è noto – fa parte del normale arredamento di una cappella (smile!) Dove Manon, appunto mettendosi a
letto, convince l’apprendista-abate DesGrieux
a tornare a godere con lei i piaceri dell’alcova… mah!
Una
nota critica anche per le scene: già dalla prima galleria (immaginiamo poi dalla
seconda) restano completamente tagliate agli occhi dello spettatore le parti superiori
della scenografia, dove si dovrebbero vedere panorami cittadini e dove si aggirano,
in specie nel primo atto, anche alcuni personaggi: evidentemente i loggionisti non
sono la prima preoccupazione del teatro…
Pubblico
non oceanico e applausetti di cortesia.
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