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13 luglio, 2012

Muti a Ravenna per le fraternità


Ieri sera  un concerto diretto da Riccardo Muti nell’immenso PalaDeAndrè, gremito all’inverosimile, ha di fatto chiuso il cartellone concertistico della 23ma edizione del Ravenna-FestivalStando alla locandina, si poteva aver l’impressione di un concerto assai breve, anche se di alto livello di intensità spirituale: con il ‘700 religioso (quello aperto e solenne di Haydn e quello raccolto e intimistico di Mozart) a incorniciare il laico ’800 del sereno e nobile pessimismo dei due canti di Brahms.

Viceversa, e in omaggio al Leit-motiv del Festival (Nobilissima visione) si è trattato di una specie di incontro ecumenico fra religioni diverse (e le rispettive espressioni musicali).

Così vediamo entrare dapprima gli strumentisti, componenti di due orchestre di giovani (l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e la fiesolana Orchestra Giovanile Italiana) e i coristi (Coro del Friuli Venezia Giulia e Stagione Armonica). Ma poi ecco farsi avanti dalle due entrate sul fondo il Coro serbo bizantino Moisey Petrovich del monastero di Kovilj e i Lama tibetani del monastero di Drepung Loseling, muniti di due giganteschi corni (del tipo Alpenhorn, per intenderci) e di due specie di trombe. Entrano anche, andandosi a sedere davanti ai coristi, il Coro dei missionari di San Carlo Borromeo e il Coro ortodosso di Mosca. Dal fondo della tribuna arriva poi Ani Choying Drolma, monaca buddhista nepalese che sfrutta le sue doti di canto per finanziare attività benefiche nel campo dell’istruzione e della sanità. (E non è finita qui, perché più avanti avremo ancora altri protagonisti.)

Muti si è accomodato su una sedia vicino al podio e segue, con tutto il pubblico, un indirizzo di saluto registrato dal Dalai Lama, che ricorda i valori comuni a tutte le religioni, in particolare la tolleranza e lo spirito di servizio.            

Dopodichè ha attaccato il Te Deum in do maggiore per coro e orchestra, Hob. XXIIIc n. 2 di Haydn. Opera della tarda maturità, commissionata dalla corte di Maria Teresa, e che risente delle esperienze londinesi (Händel incluso). Opera in tutto e per tutto settecentesca, austera, impettita e un po’ retorica e stucchevole, senza molti cedimenti a compromessi armonici.
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Vi si possono distinguere tre sezioni: la prima (Allegro) propone il tema gregoriano del TeDeum, in DO maggiore, seguito da una canonica modulazione alla dominante SOL (Tibi omnes Angeli) a preparare la tonalità del Sanctus. Sul Tu rex gloriae Christe torna il tema del Te Deum in DO maggiore, che si chiude (sul venturus) con un accordo tenuto di settima (SI-FA-RE-SOL, dai soprani ai bassi). Un DO pure tenuto dell’orchestra chiude questa prima parte del brano.

Ora (Te ergo quaesumus) si passa a DO minore (Adagio) ma per sole 9 misure, dopodiché (Aeterna fac) si torna al DO maggiore, in Allegro moderato. Ora si modula a LA minore (Dignare Domine) fino ad una nuova fermata (nos) prima del Miserere Domine, dove si passa fugacemente al FA maggiore, e da qui al definitivo ritorno al luminoso DO maggiore (Quem ad modum speravimus) che porta alla conclusione fugata sul non confundar.
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Devo ammettere che è musica che non mi entusiasma molto (come quasi tutta la musica di circostanza) ma proprio per questo meritano applausi e stima gli esecutori che l’hanno offerta in modo impeccabile.

A questo punto abbiamo un primo intermezzo, con due canti del Coro dei missionari di San Carlo Borromeo  e del Coro serbo bizantino Moisey Petrovich, prima dei due lavori di Brahms, praticamente coevi e caratterizzati da quel pessimismo sottile, ma mai nichilista, che traspare dalle composizioni con voce del burbero amburghese, ma che in fondo emerge anche nella sua produzione puramente strumentale. 

La Rhapsodie (Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra op. 53) è del 1869 e presenta tre strofe (la quinta, sesta e settima, di 6, 8 e 8 versi rispettivamente) delle 11 del poema Harzreise im Winter di Goethe. Che si basa su una storia vera e racconta di un’anima in pena (nella realtà tale Victor Leberecht Plessing, plagiato dal Werther) un misantropo che ha in odio il mondo e vaga per boschi in preda al suo egoismo e al suo nichilismo. Ma ecco uno squarcio di flebile speranza: in qualcosa di soprannaturale, precisamente nella musica che, chissà, non possa consolare il suo cuore. (Pare che qui ci sia anche qualcosa di autobiografico, una specie di magone che Brahms provò allorquando Julie - figlia di Robert e Clara Schumann - di cui lui si era infatuato, prese marito…)
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Sono 175 battute in totale, che iniziano con un Adagio (4/4 in Do minore, con divagazioni a SIb, LAb e REb) dove l’orchestra, per 18 battute, introduce la prima strofa, che descrive il vagabondare dell’individuo in piena solitudine. L’orchestra (i violini hanno sempre la sordina per le prime due strofe) si muove prevalentemente per gradi congiunti, su scale discendenti (a testimoniare della depressione che attanaglia l’anima in pena) negli archi e ascendenti nei fiati, che anticipano motivi che udiremo poco dopo.

Infatti a misura 18 ha inizio l’Arioso, che caratterizza la prima strofa del canto; qui la voce comincia ad introdurre intervalli più ampi, che caratterizzeranno l’intero brano: prima un RE-FA (Abseits) poi un DO-MIb (ihm) sempre discendenti, intervalli che culminano in un’abissale nona (DO-SI) sulla parola Öde (solitudine, appunto) che chiude il recitativo introduttivo.

A misura 48 si passa in Poco Andante (6/4, ma con la voce che spesso si muove in 3/2)  per l’esposizione della seconda strofa (in forma di Aria con struttura A-B-A’, dove in A’ vengono ripetuti i primi 4 versi) carica di pessimismo sulla sorte dell’individuo cui è venuto in odio l’intero universo. Anche qui troviamo melodie poco mosse (ad esempio quelle che caratterizzano la sezione B, secondi 4 versi) ma con irruzioni repentine di ampi intervalli, come quelli che si odono sulla parola Menschenhaß (odio per l’umanità): prima REb-MI, poi (nella ripetizione della semistrofa, A’) REb-REb e MI-MI; o come quelli che sottolineano il concetto opposto (aus der Fülle der Liebe Trank, dalla pienezza dell’Amore): nella prima sezione (A, seconda esternazione) abbiamo REb-REb (ottava discendente) poi SI-FA (12ma ascendente!):

che nella ripetizione (A’) scendono di un semitono, e diventano DO-DO e LA#-MI. Il trank viene quindi raggiunto sul SOL maggiore (anziché sul LAb) e da qui una semplice modulazione da tonica a dominante prepara il DO maggiore del Finale.

E a misura 116 (Adagio, 4/4, DO maggiore) ha appunto inizio la strofa conclusiva, con l’intervento del Coro maschile a supportare – talvolta in contrappunto - il canto del contralto. Il quale è ancora caratterizzato da ampi intervalli sonori, ora però del tutto rassicuranti e sereni, come la sequenza SOL-DO(ascendente)-MI-RE(discendente) sulla parola Liebe, e ancora l’ottava discendente seguita da una settima ascendente (DO-DO-SI) sul verso Ein Ton seinem Ohre:

Brahms impiegherà qualche tempo dopo il motivo di Ist auf deinem Psalter nell’ultimo dei Neue Liebeslieder, op. 65, come accompagnamento nel basso (mano sinistra del secondo pianoforte):

La struttura del Finale è abbastanza singolare: dal punto di vista del testo si potrebbe definire come A-B-A’, dove A sono i primi 4 versi, B i secondi 4 e A’ ancora i primi 4, con reiterazione finale del quarto verso. Invece se guardiamo la musica, dovremmo definirla come A-B-A-B’, dove B’ è il motivo musicale che caratterizza la seconda parte della strofa, impiegato per supportare la finale reiterazione del quarto verso:

Questo motivo (che sottolinea il quinto verso della strofa) compare per la prima volta a misura 128, su un subitaneo passaggio dal DO al MIb, e viene poi sottoposto a tutta una serie di modulazioni. Dapprima a SI maggiore, fra la chiusa dell’ottavo verso nella voce solista e la sua ripetizione nelle voci del coro; poi a SOL maggiore, dopo che il coro ha chiuso l’ottavo verso e in preparazione del ritorno a DO maggiore per la ripresa (A) dei primi 4 versi. La sezione che ho indicato come B’, dove si reitera il quarto verso, principia col ritorno, nel flauto, del motivo nella tonalità di MIb; poi, dopo il primo erquicke del contralto, lo udiamo per l’ultima volta in LAb.

La chiusa continua a reiterare il verso erquicke sein Herz, muovendo dal LAb verso il FA e da qui, con una incredibile serie di modulazioni in poco più di tre battute, ci porta lungo il ciclo delle quinte a SIb, MIb, LAb e REb. Da dove, per scivolamento, si ritorna al DO per la cadenza conclusiva.

Da Brahms a Mahler? Sappiamo come Mahler fosse ammiratore e critico allo stesso tempo del vecchio maestro (che a Vienna gli aveva impietosamente bocciato il suo giovanile Klagende Lied, ma poi lo aveva rivalutato come direttore, ascoltandone uno straordinario DonGiovanni). Fatto sta che non si possono non rilevare contatti o analogie fra la Rhapsodie e il mahleriano Abschied. Nel quale troviamo il verso Ich suche Ruhe für mein einsam Herz (cerco riposo al mio cuore solitario) che riecheggia l’ultimo verso che udiamo nella Rhapsodie. Sono quei vaghi e subliminali rimandi (testuali, se non musicali) di cui è infarcita la storia della musica occidentale, un fenomeno che paradossalmente non è stato ancora studiato in tutte le sue più intime caratteristiche e implicazioni.
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Ekaterina Gubanova ce l’ha proposta con dignità e garbo, pur se la voce non è delle più penetranti  e gli attacchi non sempre impeccabili. Altro intermezzo con una specie di tenzone canora fra bassi: dapprima il solista dei Lama tibetani, che emette suoni gutturali, quasi da ventriloquo, poi quello del Coro moscovita, che si esibisce in una specie di salmo moderno.

Muti risale sul podio per lo Schicksalslied (Canto del Destino, per coro e orchestra,  op. 54) composto fra il 1868 e il 71 su testo di Friedrich Hölderlin (tre strofe di 6, 9 e 9 versi). Se analizziamo il testo scopriamo una specie di specularità con quello goethiano della Rhapsodie. Là avevamo due strofe cupe e disperate, seguite da una terza vagamente consolatoria, qui invece il contrario: due strofe eteree e luminose (dove si descrive la perennemente serena esistenza dei geni soprannaturali, del tutto esenti da ogni forma di destino) seguite da una terza in cui si prende invece atto dell’eterna infelicità che caratterizza la natura degli Uomini, che sono appunto destinati a non trovare mai pace, né rimedio alle loro ansie.     
Brahms, sempre per quella sua innata contrarietà ad avallare posizioni nichiliste, volle aggiungere una conclusione serena – sia pure solo in suoni e non in parole - in ciò contraddicendo però l’autore del testo e lo stesso spirito del poema. E la cosa gli pesò assai, e forse giustificò i quasi tre anni di oblìo in cui lasciò cadere il lavoro, prima di decidersi finalmente – ma senza esserne del tutto convinto - a pubblicarlo.
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Il brano consta di 409 misure e si articola in tre parti: Langsam und sehnsuchtsvoll (Lento e pieno di anelito) 4/4 in MIb maggiore, che contiene l’Introduzione strumentale di 28 misure e il canto delle prime due strofe (75 misure); Allegro, 3/4 in DO minore, 276 misure che presentano, reiterandola, la terza strofa; Adagio, 4/4 in DO maggiore, 30 misure che contengono la conclusione puramente strumentale.

L’introduzione serve a preparare l’atmosfera rarefatta e luminosa in cui si muovono i geni beati, su morbidi tappeti di nuvolette, accarezzati dalle divine brezze (par di vedere la pubblicità di un famoso caffè, smile!) Dai primi violini, alle misure 19-20, scaturisce quasi inavvertitamente un motivo che fra poco aprirà il canto della prima strofa.  

La quale viene esposta da misura 29 (e fino a 63) inizialmente dai soli contralti che ne cantano i primi due versi, con gli strumentini a disegnare dolci arabeschi che evocano uno scenario di olimpica pace. E, a proposito di Olimpo, sarà un caso che le prime quattro note del motivo che udiamo (ripreso subito dall’intero coro e dagli archi) e che i violini avevano fugacemente preannunciato poco prima, vengano dal mozartiano Molto Allegro della Jupiter?

Dopo che il coro ha chiuso i primi due versi, nel MIb di impianto, ecco una subitanea modulazione a DO (sono le splendenti brezze divine!) sulla quale vengono esposti il terzo e quarto verso, subito ripetuti modulando ulteriormente a SIb (dominante del MIb). In questa tonalità udiamo anche il quinto e sesto verso, pure ripetuti, che iniziano con il motivo principale, ma poi divagano assai, in particolare su Wie die Finger, e la strofa si chiude sospesa sulla dominante FA.

Un breve interludio di 5 misure, dove udiamo il motivo principale, sempre in SIb, nei corni accompagnati da svolazzi degli strumentini, riporta la tonalità a MIb per l’esposizione della seconda strofa (da misura 69 a 96).

I primi due versi (da Schicksallos) sono musicati secondo una variante di quelli della prima strofa, i successivi quattro (da Keusch bewahrt) su un nuovo motivo che dapprima sale per gradi congiunti (dal DO al FA) per scendere sulla tonica, e poi ridiscende sulla mediante SOL in due misure cantate dal solo coro.

Curiosamente, dopo il verso Ihnen der Geist, il flauto propone un inciso (ripreso subito dopo dai soprani sulle parole Augen Blikken) che viene – tonalità inclusa - direttamente dall’Allegro iniziale della Sinfonia K543 (la n°39) di Mozart:

I restanti tre versi della strofa (gli ultimi due ripetuti) chiudono in MIb lo scenario celeste, ma con qualche ombra (i due SOLb che offuscano in minore la melodia); è una cadenza di 8 misure, che ricorda la conclusione dell’Introduzione (con le salite al MIb acuto) a preparare il passaggio al… destino cinico e baro che governa il mondo degli umani. 

Ecco quindi, a misura 104, l’Allegro, nella cui struttura trovano posto due ripetizioni dell’ultima strofa, ma assai diverse fra loro, pur con qualche tratto in comune. È introdotto da altre 8 battute strumentali degli archi (con sporadici secchi e dissonanti accordi degli ottoni) che si agitano con sinistre crome ribattute fino al termine della prima esposizione della strofa, a misura 172.

Il coro, da misura 111, canta in sincrono (proprio a cappella) su una melodia che per i primi quattro versi pare quasi richiamare le cupe esternazioni dei marinai dell’Holländer (terzo atto); poi un primo tremendo accordo in fortissimo su un intervallo di seconda minore discendente (LAb-SOL) sottolinea la parola Blindlings (il cieco errare, da un’ora all’altra); ancora, sui versi Wie Wasser von Klippe Zu Klippe geworfen (come acqua sbattuta di rupe in rupe - qualcosa del genere si trova, peraltro in atmosfera serena, nel goethiano Gesang der Geister über den Wassern) abbiamo un'onomatopeica serie di semiminime sincopate, ad evocare il susseguirsi delle cascatelle che cadono, chiusa da un nuovo grido (Jahrlang) stavolta sul SOL. Altro schianto, sulla dominante, al termine dell’ultimo verso (Ins Ungewisse hinab, letteralmente: in abissali insondabilità). L’ultimo verso è ancora ripetuto, piano, dal coro, prima che 22 misure strumentali portino alla riproposizione dell’intera strofa, da misura 193.

La seconda esposizione della strofa del destino umano ha caratteristiche abbastanza diverse dalla prima: intanto, è per buona parte cantata in contrappunto ed anche la melodia è sottilmente variata. Inoltre ci sono più ripetizioni dei primi due versi, mentre dal terzo verso si ripercorre abbastanza coerentemente, ma con diverse altezze, la prima esposizione, incluso l’urlo sul Blindlings e quello su Jahrlang. Anche l’ultimo verso viene reiterato più volte (dall’intero coro, poi da soprani e tenori, finalmente da contralti e bassi) come a non lasciare speranze di fronte allo sprofondamento negli abissi insondabili.    

A misura 364 si chiude il canto e si trova una coda di 16 misure dove la musica sembra perdersi proprio nel nulla.

Ma a misura 380 ecco l’iniziativa (discutibile?) di Brahms: dal DO minore si transita al maggiore, dove riascoltiamo, solo negli strumenti, la serena melodia dell’Introduzione che ci conduce alla chiusa sull’accordo perfetto di DO maggiore di tutta l’orchestra, in pianissimo.
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Eccellente la prestazione di orchestra e coro, diretti proprio a bacchetta dal ravennate d’adozione.

Ora ecco una nuova irruzione: sono due gruppi italiani, che entrano dal fondo della sala: i Memento Domini di Mussomeli e I lamentatori di Marianopoli, che si esibiscono nelle loro lamentazioni, rispettivamente in latino e in siculo. Ancora un canto della Drolma, e poi la chiusura del programma, con l’Ave Verum Corpus di Mozart.  

Anche questo è un pezzo composto praticamente su ordinazione (o per saldare un debito, fa lo stesso) ma il Teofilo non si smentisce mai e così ne cava un gioiellino sublime. E talmente universale, nel suo messaggio, che Muti, dopo averlo fatto eseguire una prima volta ai complessi canonici, lo ripete invitando al canto anche i quattro cori dei monaci. Ripagato alla fine con una bianca e lunga stola, evidente simbolo di ecumenismo religioso.

E così finisce davvero in gloria questa specialissima serata di universale volemmose bbene… Risalito in automobile, in una serata finalmente fresca dopo una giornata di sbifido e snervante garbino che aveva imperversato sulla costa romagnola, faccio a tempo ad ascoltare le ultime parole pronunciate da Muti, intervistato per Radio3 da Giovanni Vitali: un appello ad investire di più nell’istruzione musicale. Vien quasi da ridere, in tempi di spending review    

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