Dopo il Trittico pucciniano, a fare il tour dell’Emilia tocca all’opera che
ha reso famoso Amilcare Ponchielli. Dopo
le rappresentazioni di metà e fine marzo a Piacenza e Modena questo nuovo
allestimento approda a Reggio E. (venerdi 6 e
domenica 8).
Tanto per inquadrare l’opera nello
scenario storico (dal punto di vista musicale) basta ricordare che la prima (alla Scala, aprile 1876) anticipò
di 4 mesi quella del wagneriano ciclo del Ring
a Bayreuth. Verdi era fermo all’Aida (1871) e solo 5 anni più tardi si sarebbe
rifatto vivo col Boccanegra rimesso a nuovo, nel libretto, da Arrigo Boito. E proprio costui - guarda
caso - firmandosi per l’occasione Tobia
Gorrio (ma anche Troia Brigo non
sarebbe stato niente male, come pseudonimo...) scrisse il libretto di Gioconda
ispirandosi a Victor Hugo, del dramma
del quale (Angelo, tyran de
Padoue)
conservò le figure dei cinque personaggi principali, spostando peraltro
l’azione dalla Padova del 1549 alla Venezia di un non meglio precisato anno del
secolo XVII. Così Angelo divenne
Alvise, Catarina si rinominò Laura, Tisbe Gioconda, Rodolfo Enzo e Homodei
Barnaba.
Leggere le tre giornate del dramma di
Hugo (La clef - Le crucifix - Le blanc pour
le noir) è come scorrere un emozionante thriller,
che non ti lascia un attimo di respiro, ambientato com’è nei più reconditi e
labirintici recessi del palazzo del Podestà, con tanto di pareti che celano
varchi di accesso e di misteriose chiavi che aprono porte proibite. Invece la
trama di Boito (La bocca dei Leoni - Il rosario - Ca’ d’Oro - Il canal Orfano)
si svolge prevalentemente in luoghi pubblici o aperti, e i colpi di scena sono
- tutto sommato - più inverosimili che spaventevoli.
In effetti Boito mise in piedi una trama
che definire contorta è ancora poco, tanti e tali sono gli aspetti privi di
logica e i colpi di teatro di plausibilità assai discutibile di cui è
costellata. Non che il dramma di Hugo mancasse di situazioni improbabili o di
gratuite combinazioni, ma Boito in questo superò ampiamente il maestro. Del cui
lavoro peraltro ignorò del tutto (e furbescamente) il taglio
filosofico-politico(-femminista) per concentrarsi quasi esclusivamente su
quello dei sentimenti (amore, odio, gelosia, libidine, invidia, frustrazione):
ingredienti sicuramente più adatti a cucinare un bel melodrammone da grand-opéra. Nel lavoro di Hugo spiccano
appunto due straordinarie esternazioni - femminismo
in piena regola, valgono più di 100 comizi di una Bonino (con tutto il
rispetto) - delle due donne protagoniste: la nobile, nata con la camicia ma
privata degli elementari diritti reali
(ad una vita affettiva liberamente vissuta); e la plebea, che ha dovuto
scegliere tra la fame e l’orgia. Dapprima ecco Catarina che, nel
tremendo scontro con il marito Angelo che ha deciso di giustiziarla
sommariamente (sì, senza processo nè difesa) per il suo supposto (in realtà
solo... platonico) adulterio, sciorina un’autentica requisitoria contro la
barbarie, l’ipocrisia e la disumanità delle regole su cui si fonda la società
del suo tempo. Poi tocca a Tisbe che denuncia a Rodolfo la misera condizione di
una donna sfruttata, a cui viene negato il diritto di essere amata, restandole
solo la sofferenza e il disprezzo della società. Ecco, due aspetti forti dei personaggi femminili che Boito
ignora bellamente, presentandoci una Laura succube e remissiva, del tutto
incapace anche di una timida reazione all’estremo sopruso del marito-padrone; e
una Gioconda che accetta il suo ruolo subalterno nella società, senza mostrare
alcuna presa di coscienza delle cause che lo determinano.
Particolare evidenza ha in Boito la
figura dello spione Barnaba, chiaro prototipo di quello straordinario Jago che torreggerà 10 anni più tardi
nella penultima fatica di Verdi. Lui è il personaggio che significativamente
apre e chiude l’opera, dentro la quale la sua improbabile macchinazione, che
coinvolge nientemeno i più alti gradi dell’autorità della Repubblica veneziana,
ha un obiettivo tutto sommato limitato e... prosaico (insomma: il classico
cannone per sparare ad una mosca): ingropparsi una buona volta l’avvenente
cantatrice. E l’opera si chiude con il misero fallimento del suo disegno,
mandato in fumo dal suicidio di Gioconda. In Hugo lo spregevole Homodei ha invece
un movente assai più serio per le sue complicate macchinazioni: vendicarsi del
rifiuto opposto alle sue attenzioni sentimentali da Catarina, che in gioventù gli
aveva preferito Rodolfo, prima di essere costretta al matrimonio con Angelo.
Liberarsi in un sol colpo della femmina ingrata e del suo amante e ferire
l’immagine del Podestà: questo è rimasto l’unico scopo della sua vita. Il suo
piano diabolico peraltro naufraga miseramente per opera di Tisbe e lui paga con
la vita il prezzo della sua scelleratezza, costretto ad abbandonare la scena
abbondantemente prima dell’epilogo, visto che Hugo lo fa ammazzare senza pietà da
Rodolfo.
Il quale,
trasformato da Boito in Enzo, ci viene presentato come personaggio senza
macchia - l’insincerità e l’ipocrisia del suo rapporto con Gioconda restano in
secondo piano - e viene gratificato del consolante (e mica tanto meritato,
ammettiamolo) lieto-fine: lui e Laura che... vissero felici e contenti,
risparmiando a lui - con il provvidenzialmente tempestivo risveglio di lei -
l’onta di ammazzare Gioconda (peraltro colpevole ai suoi occhi solo di...
trafugamento di cadavere, nulla più) e il rimorso che ne deriverebbe e distruggerebbe
la sua felicità nel ritrovare poi viva l’amata Laura. Cosa che viceversa
succede al personaggio di Hugo (che chiude il suo dramma con tutt’altra
autorevolezza, verrebbe da dire): prima che Catarina si risvegli, Tisbe viene
uccisa da Rodolfo in quanto erroneamente ritenuta diretta corresponsabile, con
Angelo, della morte dell’amata; e così i due amanti non potranno certo avere un
futuro felice (ammesso di averne uno!)
Gioconda.
Per Boito, come detto, è una povera cantante di strada che vive alla giornata
senza porsi domande, portando il fardello della madre cieca e sopportando le
molestie sessuali dell’infoiato spione Barnaba, senza avere al contempo alcun
tipo di rapporto con Alvise. La Tisbe di Hugo è invece una donna le cui vicende
ricordano un poco quelle di Marie
Duplessis (la Marguerite Gautier
di Dumas, poi Violetta verdiana): di umili origini, strappata - quando era una
ragazzina mendicante - alla miseria e alla fame e trasformata in puttana-d’alto-bordo
(appunto, vittima dell’alternativa fame-orgia)
fino a divenire la favorita del
Podestà Angelo. Homodei da parte sua non la degna della minima considerazione,
pensando solo ad usarla come esca per intrappolare Catarina e Rodolfo. In
comune, Gioconda e Tisbe hanno però (proprio come Marguerite/Violetta) il sincero
amore per un uomo che in realtà (a differenza di Armand/Alfredo) le inganna,
trattandole come semplici diversivi; amore che le spinge (al prezzo della
vita!) a cercare altruisticamente di rendere felice l’amato con la donna
rivale. Le loro fini sono, come si è visto, diverse, pur avendo molto in comune:
Gioconda suicida per non sottomettersi alla libidine di un mostro; Tisbe uccisa
dall’unico uomo che aveva disperatamente amato. C’è una differenza non da poco,
invece, fra le donne di Boito e Hugo; quest’ultima manifesta anche aspramente
(verso Catarina e Rodolfo) la sua gelosia, ma sempre in modo genuino e sincero.
Scopriamo invece che Gioconda sa anche essere mentitrice: quando nel
second’atto, per averlo tutto per sè, vuol convincere Enzo che Laura è fuggita
per il rimorso, e che non lo ama più.
Da ultimo: la Cieca. Nel dramma di Hugo
la madre di Tisbe è morta da tempo (si scoprirà essere stata graziata anni
addietro per intercessione di Catarina, da cui la riconoscenza di Tisbe per la
moglie del Podestà). Boito invece ne fa un personaggio di primo piano, che
condiziona continuamente i comportamenti della figlia (Barnaba cerca di sfruttare
ai suoi fini quel forte legame affettivo) e Ponchielli la gratifica di musica
di ottima fattura.
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A proposito di musica, si è soliti
collocare il compositore cremonese a metà strada fra il romanticismo e il
verismo: seguace convinto dell’estetica verdiana, sarà maestro (al
Conservatorio di Milano) di Puccini e Mascagni! Quanto a Gioconda, è singolare
il giudizio che ne diede Gustav Mahler:
dieci anni dopo la prima dell’opera,
quando era di stanza a Praga ma in procinto di trasferirsi a Lipsia, il 26enne
direttore boemo non esitò a dichiarare (in una lettera al responsabile del suo
prossimo impiego) che all’opera di Ponchielli andasse preferita la Dejanice di Catalani. E giammai alla
povera Gioconda e al suo autore fu concesso il privilegio e l’onore di essere
diretti dal più famoso Kapellmeister
di quei tempi. (Nè Catalani ebbe peraltro miglior fortuna, se è per questo...)
La contemporaneità con le innovative
produzioni wagneriane si scorge nell’impiego (limitato ma significativo) di
pochi temi ricorrenti: non hanno
nulla di paragonabile alle fitte trame architettate dal genio di Lipsia,
tuttavia servono assai bene a creare atmosfere e a collegare fra loro diversi
momenti del dramma.
In ordine di apparizione, possiamo
distinguere il tema del Rosario,
esposto quasi subito nel Preludio, che risentiremo nella quinta Scena del primo
Atto, dalla voce della Cieca che dona il suo strumento di preghiera a Laura,
per ringraziarla della sua intercessione presso Alvise. Subito dopo è
l’orchestra a riprenderlo in forma di postludio alla stessa scena. Nel secondo
Atto, Scena 7 (quella del drammatico confronto fra Gioconda e Laura) il tema
ricompare nei violini dopo che Gioconda ha scorto il rosario nelle mani di
Laura, e così decide di salvarla, e subito dopo nei legni, seguendo Laura che
si allontana. Ancora nell’Atto terzo, quinta Scena, il tema fa capolino nei
legni mentre Gioconda (che ha appena sostituito il veleno con il sonnifero,
salvando una seconda volta Laura) fugge disperata, con la consapevolezza di
dover definitivamente rinunciare al suo Enzo. Infine ritroviamo il tema nella
quinta Scena dell’Atto finale, allorquando Gioconda rivede il rosario al collo
di Laura, e benedice lei ed Enzo che stanno per fuggire verso la felicità.
Ecco poi il tema di Barnaba, che insieme a quello del Rosario monopolizza il Preludio.
Lo si ritroverà più volte ed esclusivamente in orchestra a sottolineare la
presenza e la bieca personalità dello spione. Lo si ode nei celli già
all’inizio della seconda Scena, poi lo si ascolta quando la spia incontra per
la prima volta Gioconda e la madre, di cui chiude il duetto. Ancora fa capolino
all’inizio della settima Scena, quando lo spione detterà a Isepo la lettera di
denuncia della tresca Laura-Enzo. Lo ritroviamo poi in archi e fiati
nell’ottava Scena dell’Atto secondo, quando Barnaba vede Laura fuggire dal
brigantino e il suo piano andare in fumo. L’ultima comparsa del tema avviene
nella Scena quinta dell’Atto conclusivo, allorquando Gioconda, salutati con lo
strazio nel cuore Enzo e Laura, rammenta il patto con Barnaba, che sta in
effetti sopraggiungendo.
All’entrata di Gioconda e della madre
(Scena 2) udiamo in bocca alla Cieca (poi alla figlia e ad entrambe) un motivo
(L’amor filiale) che riappare proprio
in chiusura dell’Atto primo, quando la Cieca e Gioconda se ne vanno,
consolandosi a vicenda. Riudiamo il motivo nei clarinetti all’inizio del quarto
Atto, allorquando Gioconda prega i compagni di tornare a Venezia in cerca della
madre, di cui ha perso le tracce.
Il tema del Destino compare al termine del primo atto, poco prima di quello dell’Amor filiale, nel canto di
Gioconda, schiantata dalla scoperta che Enzo ama un’altra; e nel postludio
orchestrale, proprio a chiudere l’atto. Ricompare nella quinta Scena dell’Atto
terzo, allorquando Gioconda esterna la sua disperazione, dopo aver compiuto il
sacrificio di salvare ancora (col narcotico) la sua rivale per consegnarla
all’uomo che lei ama e da cui non è riamata. Lo ascoltiamo, dal clarinetto, nel
Preludio dell’Atto quarto, ad anticipare precisamente l’ineluttabilità del
destino di Gioconda. Nella seconda Scena dello stesso Atto il tema torna nei
legni a sottolineare lo strazio della protagonista, cui le luci e le feste di
Venezia in lontananza risvegliano l’irresistibile attrazione per Enzo.
Altri rimandi tematici si ritrovano ovviamente all’interno di singole sezioni dell’opera, la cui struttura è ancora tradizionale, con i classici numeri ad intercalare le scene. Mirabile è l’equilibrio complessivo, ottenuto attraverso una sapiente alternanza fra scene corali - per lo più manifestazioni di allegria e di festa di popolo (siamo in uno dei periodi del Carnevale veneziano) - e i momenti topici del dramma. Parte rilevante hanno anche le coreografie: danze e balli che non sono limitati alla corposa e celeberrima Danza delle Ore che occupa la parte centrale dell’Atto terzo.
I sei ruoli principali impegnano tutti i gradi della tessitura vocale: soprano (Gioconda); mezzo (Laura); alto (Cieca); tenore (Enzo); baritono (Barnaba) e basso (Alvise). Il coro è al completo, compreso quello di voci bianche. L’orchestra è quasi tardoromantica, con corpose percussioni e nutrita banda interna. Insomma, un dispiegamento di mezzi vocali e strumentali di prim’ordine, che rende sempre impegnativo l’allestimento dell’opera. Le quattro uscite già compiute (Piacenza e Modena) hanno avuto ottimi riscontri di pubblico e critica. Che non dovrebbero mancare alle recite di Reggio.
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