Ieri pomeriggio al Malibran (poco affollato in verità, ma d'altronde Venezia è immersa fino al collo nel carnevale) ultima replica della serenata
(sic!) mozartiana Il
sogno di Scipione.
Opera
del sedicenne Teofilo, opera di circostanza, da dedicare ad un personaggio e/o
ad un avvenimento pubblico importante, verosimilmente il 50° (o 49°) di sacerdozio dell’Arcivescovo
di Salzburg. Il soggetto - preso di peso da quel pozzo di sanPatrizio
costituito dall’immensa produzione letteraria del poeta cesareo Pietro Metastasio - tratta di un sogno che lo
Scipione, futuro conquistatore e spianatore di Cartagine, fa mentre dorme a casa del suo
alleato Massinissa, in una regione oggi assimilabile all’Algeria orientale (va
detto che nemmeno Metastasio ha inventato nulla, chè il soggetto viene da...
Cicerone!)
Nel sogno incontra due intraprendenti
signore che gli chiedono di scegliere fra loro due la sua compagna della vita. Insomma,
uno scenario subito sospettabile di introdurre tematiche di natura non precisamente
platonica, ecco (tanto è vero che qualche regista ha preso la palla al balzo
ambientando l’operina in un ménage-à-trois
in piena regola).
Le due
signore in realtà se la tirano parecchio, presentandosi come esseri
soprannaturali: una si definisce Fortuna
e l’altra Costanza, magnificando
ciascuna le proprie specifiche prerogative. Prima di decidersi Scipione
vorrebbe sapere in qual posto sia capitato, e così gli vengono presentati
nientemeno che i suoi due ascendenti nell’albero genealogico: il nonno adottivo,
Publio; e il
padre, Emilio. I quali gli spiegano
cos’è l’aldilà, magnificandolo al punto che lui vorrebbe fermarsi lì con loro,
ma i due lo spronano a completare le sue (e le loro) imprese con la definitiva
distruzione di Cartagine.
Fortuna e Costanza non sono disposte ad
attendere oltre e portano ciascuna i propri affondo
per conquistare l’eroe. Il quale - ovviamente deve dimostrare di aver la testa
sulle spalle, mica di essere un pazzo avventurista - sceglie la Costanza,
suscitando le ire di Fortuna che lo riempie di saette e fulmini, provocandone
il risveglio.
Adesso deve arrivare la conclusione-con-dedica.
E capita che le opere dedicate a
qualche personaggio (soprattutto se a potenti) a volte presentino problemi,
come dire, di adattamento alla
bisogna. E qui nello Scipione ne emerge uno la cui soluzione fa abbastanza
sorridere. Dunque, il testo di Metastasio, da Mozart impiegato alla lettera, verso
la fine prevede l’intervento di un particolare personaggio (la Licenza) che canta, prima della sua
aria, un recitativo secco nel quale - al fine di esplicitare la dedica dell’opera - svela chi si celi,
in realtà, sotto le spoglie dell’ultra-lodato Scipione. Metastasio scrive: Carlo. E perchè mai? Semplice: perchè Carlo VI Imperatore era il suo sponsor e
protettore!
Ma quando Mozart compone la serenata, il
dedicatario è l’Arcivescovo di Salzburg in carica al momento (1771): tale Sigismund III Christoph Graf von Schrattenbach, autentico
patron dei Mozart. E così, nel recitativo della Licenza, il nome
Carlo viene sostituito da Sigismondo.
Peccato che il prelato non faccia in tempo a godere della
dedica, poichè tira le cuoia quando ancora Mozart deve completare l’operina. Al
suo posto arriverà lo sbifido Hieronymus Franz de Paula
Josef Graf Colloredo von Waldsee und Mels (quello
che anni dopo licenzierà in tronco il povero Teofilo... ma così facendone senza
volerlo la fortuna). E allora, prontamente Mozart (lui o il padre Leopold, ma
fa lo stesso) cancella dal manoscritto il nome Sigismondo e ci scrive sopra: Girolamo!
Ora, siccome a noi frega nulla di Carli, Sigismondi
e Girolami, imperatori e vescovi assortiti, si doveva pur trovare un nome
adatto per attualizzare la dedica della serenata, qualcuno di nostra conoscenza
e meritevole di panegirico. Bene, siamo a Venezia, Fenice, giusto? Qui non c’è
un arcivescovo, ma comunque un capo della Fondazione. E quindi il fortunato
prescelto (toh!) è proprio un... Fortunato!
(Diciamo che c’è andata pure bene: non hanno scelto un...
Matteo.)
A proposito della Licenza, va detto che
Mozart compose una seconda versione dell’aria, assai più elaborata di quella
originale (che è stata eseguita a Venezia). In questa registrazione assai pregevole e ascoltabile
in rete (fra l’altro senza una riga di tagli)
a 1h36’41”
viene eseguita l’aria originale e a 1h42’10” quella composta
successivamente.
Per le 10 arie Mozart interpreta la
classica struttura bistrofe metastasiana (A - B - A da-capo) con ampia libertà,
mostrando un precoce istinto all’innovazione: l’esposizione della prima strofa
è sempre assai articolata, con ripetizioni del testo in tonalità diverse
(comunque adiacenti) mentre quella
della seconda è sempre asciutta e senza riprese. Eliminato il meccanico e un po’
arido da-capo, la prima strofa viene
riesposta con nuove varianti.
Particolare cura è messa nella
caratterizzazione musicale dei personaggi; ad esempio Fortuna ha melodie vivaci e caratterizzate da ampi intervalli, Costanza invece è più riflessiva e
posata, con melodie che si muovono senza troppi scossoni. Forse più
convenzionali sono i due Cori, mentre
la Sinfonia si distingue per la
mancanza di una chiusura tradizionale, estinguendosi direttamente nel
recitativo di apertura.
L’organizzazione
dei numeri musicali presenta una simmetria abbastanza spiccata. Se escludiamo i
due cori e l’intervento asimmetrico
di Licenza, ecco come si struttura la sequenza delle 9 arie affidate ai 5
protagonisti principali:
Emilio
|
||||||||
Publio
|
Publio
|
|||||||
Costanza
|
Fortuna
|
|||||||
Fortuna
|
Costanza
|
|||||||
Scipione
|
Scipione
|
Scipione apre e chiude,
le due femmine - che trattano aspetti di carattere comportamentale - occupano le
parti a ridosso del protagonista, mentre ai genitori - che si occupano di
politica - è assegnata la posizione centrale.
___
Vengo ora a ieri, cominciando dalla
musica. Le cinque voci in scena hanno tutte ben meritato. Volendo proprio fare
una (mia personale) graduatoria, metterei in testa lo Scipione di Valentino
Buzza e la Costanza di Francesca
Boncompagni, poichè mi son parsi i più efficaci nei rispettivi ruoli e vocalmente
non hanno mostrato limiti o pecche. Ma tutti hanno ricevuto applausi a scena
aperta alla fine delle rispettive arie.
Federico Maria Sardelli ha guidato la (correttamente) sparuta pattuglia di
orchestrali de LaFenice con grande autorevolezza e non a caso il pubblico ha riservato per lui, alla fine, l’accoglienza più calorosa. Bene anche il coro di Claudio Marino Moretti, che ha cantato
il finale dalla buca dell’orchestra. Buca dove si sono distinti (in casi come
questi il loro apporto è fondamentale) i continuisti
Luca De Marchi (cembalo) e Alessandro Zanardi (cello).
___
Lo spettacolo è stato realizzato
con la collaborazione dell’Accademia di Belle
Arti veneziana e l’apporto di giovani studenti delle Scuole di scenografia e costumi. Tutti coordinati da Elena Barbalich, regista di fatto dello
spettacolo. Un lavoro di gruppo encomiabile, tenuto conto delle caratteristiche
dell’opera, dove non esiste la minima parvenza di azione, ma solo dissertazoni
su filosofia, psicologia e politica. Del resto, non per nulla il pezzo si chiamava serenata: da eseguirsi - se
non proprio sotto le finestre di una casa popolare - magari nel giardino di una
residenza patrizia o in un salone dell’Arcovescovado...
Alcune trovate della messinscena possono
essere apparse un filino goliardiche o sopra le righe, ma nel complesso si è
trattato di uno spettacolo godibile, grazie anche alla supervisione dello
scenografo Massimo Checchetto e del
responsabile alle luci Fabio Barettin.
___
In definitiva, una proposta quanto
mai interessante, della quale il Fortunato
dedicatario-patron può ben andare orgoglioso.
Nessun commento:
Posta un commento