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28 febbraio, 2019

La Chovanščina è tornata alla Scala


Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima delle 7 rappresentazioni di Chovanščina, una nuova produzione affidata a Mario Martone e, per la parte musicale, al confermato (dopo il 1998) Valery Gergiev. Chiudo subito la questione tagli rispetto alla versione-Shostakovich: Gergiev conferma l’approccio che tiene da diversi anni e cioè elimina le trombe di Pietro in chiusura di second’atto, sostituite con una dissolvenza e con il passaggio senza soluzione di continuità all’atto successivo; nel terzo atto taglia completamente la canzone di Kuzka e Strelcy; chiude infine l’opera dopo il coro dei raskolniki, ripreso in orchestra e omettendo quindi il finale di Rimski (trombe di Pietro) e le aggiunte di Shostakovich (moscoviti e alba). Il tutto per una decina di minuti in meno di musica.

Gergiev si conferma, ce ne fosse bisogno, un profondo conoscitore di questa complessa partitura: nulla gli sfugge e tutto concorre a creare l’atmosfera così profondamente russa di cui l’opera è intrisa. Dove squarci di assoluto lirismo si affiancano a scene di rozzezza animalesca, momenti di intimità privata a sguaiate manifestazioni popolari, sfoghi di forza bruta ad espressioni di profonda religiosità. Il Maestro russo ottiene sempre dall’orchestra (in gran forma) e dalle voci il massimo dell’efficacia, senza che la tensione si abbassi mai nel corso delle più di tre ore nette di musica.

Ma encomiabile è anche l’affiatamento con la parte scenica dello spettacolo di Martone, che a sua volta interpreta con grande coerenza lo spirito dell’opera. Dove non si mandano messaggi nè si presentano posizioni politiche o sociologiche o ideologiche, ma si descrive semplicemente e dolorosamente un’epoca storica travagliata e caotica della vecchia Russia, un immenso paese sconvolto da fenomeni tipici del trapasso politico da medioevo a modernità, nonchè dal cambio radicale di modelli culturali: da quelli tipici dell’Asia ad altri mutuati dalla civiltà occidentale. Peccato che qualche gratuita (quanto evitabile) forzatura del regista (ci torno nel seguito) abbia compromesso una messinscena tutto sommato intelligente, tanto da guadagnare a Martone gli unici buh uditi alla fine.

Il cast delle voci merita un encomio cumulativo: ciascun interprete ha saputo dar vita al personaggio con efficacia e appropriatezza. Ecco quindi il volgare Ivan Chovanskij di cui Mikhail Petrenko mette in risalto le attitudini di vecchio possidente privo di cultura, ma pieno di boria, prepotenza e cinismo.

Splendido Alexey Markov come Šaklovityj: e non solo per la grande aria del terz’atto, davvero esposta con nobiltà, portamento e con il supporto di una splendida voce baritonale, ma anche per l’efficacia con cui ha incarnato questo personaggio caratterizzato da tratti inafferrabili, ambigui e contraddittori. 

Il santone Dosifej è impersonato da Stanislav Trofimov, praticamente perfetto in questa parte che coniuga la nobiltà di ideali religiosi con il cieco dogmatismo e l’intolleranza di chi arriva persino al sacrificio della propria vita pur di non dover vivere in una società nella quale non si riconosce più.

Evgeny Akimov incarna da par suo la figura di Vasilij Golicyn, personaggio tanto raffinato, laico e progressista quanto schizofrenicamente schiavo di assurde superstizioni. La sua è una figura che passa come una meteora (lo vediamo e sentiamo solamente nel second’atto, poi ne sentiremo solo parlare nel quarto...) ma - anche grazie all’integrità della partitura, preservata da Shostakovich e da Gergiev - ha modo di mettere in mostra la sua voce squillante (un po' meno nei centri e bassi) e le sue notevoli qualità espressive.

Discreta anche la prestazione di Sergey Skorokhodov, un Andrej Chovanskij dalla personalità instabile (con quel padre...) che lo trasforma da bestia assatanata di sesso in bambino piagnucoloso e disperato al momento del redde-rationem.

Lo scrivano è impersonato da Maxim Paster: ottima la sua resa di questo personaggio tremebondo, qualunquista e meschinello, in particolare nella scena con Šaklovityj e nella ricomparsa al terz’atto.

Penalizzato dal taglio della sua canzone della calunnia, Sergej Ababkin (uno dei sei accademici scaligeri di questa produzione) si è rifatto aggiungendo al personaggio di Kuzka anche quello, piccolo piccolo, di Strešnev.  
   
Gli altri cinque dell’Accademia vanno accomunati in un elogio collettivo: ciascuno ha meritevolmente dato vita a personaggi che saranno pure di contorno ma richiedono pur sempre (ad esempio il Pastore protestante) sensibilità interpretativa e voci adeguate.

Vengo ora al gineceo: qui il personaggio che torreggia (è l’unico presente in tutti i cinque atti dell’opera) e quello di Marfa. Bene, Ekaterina Semenchuk è assai efficace nella parte: memorabili la sua profezia e la canzone, ma di grande spessore anche tutti gli altri suoi interventi. Sostenuti da una voce di bel colore brunito e dagli acuti potenti, anche se nell’ottava bassa qualche decibel in più non guasterebbe.

I due soprani hanno parti non proibitive, ma proprio per questo non si possono permettere pecche: devo dire che sia la Emma di Evgenia Muraveva che la Susanna di Irina Vashchenko hanno messo in mostra buone qualità, voci ben impostate e corpose, e non si son fatte trascinare dalla foga che caratterizza i due personaggi e che potrebbe facilmente portare ad emettere schiamazzi invece che canto.

Il coro di Casoni è chiamato ad un compito oltremodo difficile, dovendo passare - i maschi - dalle sguaiatezze dei buzzurri moscoviti e dei prepotenti Strelcy alle stolide esternazioni dei monaci e alle esaltate preghiere dei raskolniki; ma anche dare nobiltà e religiosità ai cori degli stessi moscoviti. Le donne devono pure loro sdoppiarsi fra gentili e timide contadinelle che cantano canzoncine da educande e mogli degli Strelcy inferocite e vociferanti, oltre che in popolane esultanti per Ivan e in vecchie credenti invasate. Bene, come al solito la compagine scaligera ha dato il meglio di sè, a dispetto del... russo!

Detto ciò, mi sembra quasi superfluo aggiungere che tutti, ma proprio tutti, hanno avuto alla fine un calorosissimo riconoscimento da parte di un pubblico entusiasta, che evidentemente non ha avuto problemi a sopportare più di quattro ore di spettacolo.
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Spettacolo che ha avuto in Mario Martone il protagonista della parte scenica e drammaturgica. L’ambientazione è in un tempo-fuori-dal-tempo, un mix di passato, presente e (forse) futuro, dove convivono oggetti, suppellettili e abbigliamenti di provenienza eterogenea, come il consunto sidecar dello scrivano carico di residuati di strumenti elettronici, o gli smartphone impugnati indifferentemente da modernisti (Golicyn) e passatisti (Dosifej); c’è anche una specie di drone che attraversa la scena proprio all’inizio; i costumi sono pure di fogge svariate, dai cappottoni di Ivan e Dosifej all’impeccabile abito scuro, con valigetta 24-ore, da funzionario FBI (più che KGB...) di Šaklovityj; le scene lasciano percepire un generale stato di caos e degrado, che ben rappresenta la situazione vissuta dalla Russia nel periodo oggetto del testo di Musorgski. Meno efficace invece la differenziazione fra l’ambiente in cui vive Golicyn da quello di Chovanskij (ma di quest’ultimo parlerò più avanti).

Martone inventa encomiabilmente alcune trovate di carattere didascalico, che aiutano lo spettatore meno addentro alle contorte vicende del libretto (e alle prese con i problemi di lingua...) a capirci qualcosa in più. La ricorrente presenza in scena (accuratamente evitata, pur se inizialmente contemplata da Musorgski) di Sofia con i due piccoli zar ne è esempio illuminante. I tre appaiono proprio all’inizio dell’opera, sulla musica dell’alba, dove possono rappresentare, soprattutto Pietro, il-nuovo-che-avanza; poi tornano al momento in cui lo scrivano esce di scena, e va a consegnare la lettera delatoria di Šaklovityj alla zarevna. La quale, significativamente, la fa leggere anche al piccolo e intelligente Pietro, per poi consegnarla appallottolata nelle mani del grandicello ma minorato mentale Ivan! Alla fine del primo atto Sofia abbandona i piccoli zar per... abbandonarsi ad un amplesso con Golicyn, comparso a chiarire in anticipo il significato della lettera (no... un sms) d’amore che la zarevna gli invia all’inizio dell’atto successivo. Infine i tre tornano sulla scena nel secondo quadro del quarto atto a chiarire come il padrone della situazione resti, da solo, Pietro (che però, a 10 anni, difficilmente poteva essere già solitario al potere... ma questo è un problema di Musorgski).

Nell’atto iniziale citerei ancora l’incomprensibile mancanza di reazione di Marfa al tentativo di accoltellamento da parte di Andrej, il che dà modo a Emma di ricambiarle il favore (?) difendendola dall’energumeno. Azzeccata invece la permanenza dello stesso Andrej con il gruppo di vecchi credenti (mentre il padre e gli Strelcy entrano al Kremlino) che sta a prefigurare la sorte del poveraccio, come si materializzerà nel quarto e quinto atto. Poco da dire sul second’atto (il bicchiere che sostituisce la bacinella d’acqua non fa troppi danni...) Efficace la resa del turbolento convegno a tre e delle irruzioni da Marfa e Šaklovityj.

Come detto, il secondo e il terzo atto vengono accorpati e c’è assoluta continuità musicale fra la dissolvenza che chiude l’uno e l’attacco dell’introduzione che apre l’altro. Il coro dei monaci (che erano presenti e ben visibili nell’atto secondo) viene qui cantato a sipario chiuso (scelta del tutto condivisibile); sipario che si alza quindi sulla canzone di Marfa, che vediamo ingabbiata come una belva, per nulla feroce, peraltro. Gabbia che rappresenta - direi - un’allegoria: la costrizione psicologica che attanaglia la donna, prigioniera dei suoi bei ricordi dei momenti passati con Andrej ed anche della sua fede talebana in una religione fossilizzata e ormai minoritaria. Gabbia dalla quale viene liberata dal santone Dosifej che la invita ad accettare fatalisticamente ciò che il futuro le riserverà.

A questo punto arriva (secondo me e credo per buona parte del pubblico) la prima caduta di stile, e non solo, di Martone. Il quale ci mostra un Šaklovityj che canta quel mirabile e accorato arioso sulla situazione della sua povera Russia e contemporaneamente dà ordine ai suoi sgherri di arrestare Ivan Chovanskij! Davvero un’invenzione sopra le righe, poichè sappiamo già che Šaklovityj vuole Chovanskij morto, ma lo farà ammazzare nell’atto successivo e senza di certo imprigionarlo prima. Così siamo costretti a vedere Ivan che fa l’ultimo appello ai suoi Strelcy, invece che da casa sua, da una gabbia di penitenziario, dopodichè, nell’atto quarto, torna libero come un uccello (anzi con una dotazione di doppiette per sparare ai volatili) nella sua residenza di campagna, dove si gode i canti delle sue contadinelle. Mah... che siano arresti domiciliari all’acqua di rose, tipo quelli di Tiziano Renzi e consorte?  

Ma il peggio arriva adesso, con la danza delle persiane: un siparietto da volgarissimo avanspettacolo, con lap-dance, strip e strusciamenti, culminante nell’uccisione di Chovanskij per mano (anzi, per fucilata) di una delle zoccole! Qui siamo caduti proprio in basso... e in basso si resta alla fine del quadro successivo dove, in barba alla grazia concessa da Pietro agli Strelcy, alcuni di questi vengono platealmente ammazzati da tagliagole dell’ISIS! (Certo, sappiamo bene che 15 anni dopo Pietro il Grande farà ammazzare come cani gli Strelcy, ma nell’opera non è così e allora: perchè si deve correggere a tutti i costi Musorgski?)

Ecco, una regìa apprezzabile che si è in parte rovinata per voler strafare. Così alla fine, mentre per tutti c’erano solo applausi e bravi!, per Martone sono piovute sonore contestazioni. Ma chi è causa del suo mal...  

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