Ieri
sera il Piermarini ha ospitato la prima
delle 7 rappresentazioni di Chovanščina,
una nuova produzione affidata a Mario Martone
e, per la parte musicale, al confermato (dopo il 1998) Valery Gergiev. Chiudo subito la questione tagli rispetto alla versione-Shostakovich:
Gergiev conferma l’approccio che tiene da diversi anni e cioè elimina le trombe
di Pietro in chiusura di second’atto, sostituite con una dissolvenza e con il
passaggio senza soluzione di continuità all’atto successivo; nel terzo atto taglia
completamente la canzone di Kuzka e Strelcy; chiude infine l’opera dopo il coro
dei raskolniki, ripreso in orchestra
e omettendo quindi il finale di Rimski (trombe di Pietro) e le aggiunte di
Shostakovich (moscoviti e alba). Il tutto per una decina di minuti in meno di
musica.
Gergiev si conferma, ce ne fosse bisogno,
un profondo conoscitore di questa complessa partitura: nulla gli sfugge e tutto
concorre a creare l’atmosfera così profondamente russa di cui l’opera è
intrisa. Dove squarci di assoluto lirismo si affiancano a scene di rozzezza
animalesca, momenti di intimità privata a sguaiate manifestazioni popolari, sfoghi
di forza bruta ad espressioni di profonda religiosità. Il Maestro russo ottiene
sempre dall’orchestra (in gran forma) e dalle voci il massimo dell’efficacia, senza
che la tensione si abbassi mai nel corso delle più di tre ore nette di musica.
Ma
encomiabile è anche l’affiatamento con la parte scenica dello spettacolo di
Martone, che a sua volta interpreta con grande coerenza lo spirito dell’opera.
Dove non si mandano messaggi nè si presentano posizioni politiche o
sociologiche o ideologiche, ma si descrive semplicemente e dolorosamente
un’epoca storica travagliata e caotica della vecchia Russia, un immenso paese
sconvolto da fenomeni tipici del trapasso politico da medioevo a modernità,
nonchè dal cambio radicale di modelli culturali: da quelli tipici dell’Asia ad
altri mutuati dalla civiltà occidentale. Peccato che qualche gratuita (quanto
evitabile) forzatura del regista (ci torno nel seguito) abbia compromesso una
messinscena tutto sommato intelligente, tanto da guadagnare a Martone gli unici
buh uditi alla fine.
Il cast delle voci merita un encomio
cumulativo: ciascun interprete ha saputo dar vita al personaggio con efficacia
e appropriatezza. Ecco quindi il volgare Ivan Chovanskij di cui Mikhail Petrenko mette in risalto le attitudini
di vecchio possidente privo di cultura, ma pieno di boria, prepotenza e cinismo.
Splendido Alexey
Markov come Šaklovityj: e non solo
per la grande aria del terz’atto, davvero esposta con nobiltà, portamento e con
il supporto di una splendida voce baritonale, ma anche per l’efficacia con cui
ha incarnato questo personaggio caratterizzato da tratti inafferrabili, ambigui
e contraddittori.
Il santone Dosifej è impersonato da Stanislav Trofimov, praticamente perfetto in questa parte che coniuga la nobiltà di ideali religiosi con il cieco dogmatismo e l’intolleranza di chi arriva persino al sacrificio della propria vita pur di non dover vivere in una società nella quale non si riconosce più.
Il santone Dosifej è impersonato da Stanislav Trofimov, praticamente perfetto in questa parte che coniuga la nobiltà di ideali religiosi con il cieco dogmatismo e l’intolleranza di chi arriva persino al sacrificio della propria vita pur di non dover vivere in una società nella quale non si riconosce più.
Evgeny
Akimov incarna da par suo la figura di Vasilij
Golicyn,
personaggio tanto raffinato, laico e progressista quanto schizofrenicamente
schiavo di assurde superstizioni. La sua è una figura che passa come una
meteora (lo vediamo e sentiamo solamente nel second’atto, poi ne sentiremo solo
parlare nel quarto...) ma - anche grazie all’integrità della partitura, preservata
da Shostakovich e da Gergiev - ha modo di mettere in mostra la sua voce
squillante (un po' meno nei centri e bassi) e le sue notevoli qualità espressive.
Discreta anche la prestazione di Sergey Skorokhodov, un Andrej Chovanskij dalla personalità instabile
(con quel padre...) che lo trasforma da bestia assatanata di sesso in bambino piagnucoloso
e disperato al momento del redde-rationem.
Lo scrivano è
impersonato da Maxim Paster: ottima la sua resa di
questo personaggio tremebondo, qualunquista e meschinello, in particolare nella
scena con Šaklovityj e nella
ricomparsa al terz’atto.
Penalizzato dal taglio della sua canzone della calunnia, Sergej Ababkin (uno dei sei accademici
scaligeri di questa produzione) si è rifatto aggiungendo al personaggio di
Kuzka anche quello, piccolo piccolo, di Strešnev.
Gli altri cinque dell’Accademia vanno accomunati in un elogio
collettivo: ciascuno ha meritevolmente dato vita a personaggi che saranno pure di
contorno ma richiedono pur sempre (ad esempio il Pastore protestante) sensibilità interpretativa e voci adeguate.
Vengo ora al gineceo: qui il personaggio che torreggia (è l’unico presente in
tutti i cinque atti dell’opera) e quello di Marfa. Bene, Ekaterina Semenchuk è assai efficace nella parte:
memorabili la sua profezia e la canzone, ma di grande spessore anche tutti gli
altri suoi interventi. Sostenuti da una voce di bel colore brunito e dagli
acuti potenti, anche se nell’ottava bassa qualche decibel in più non guasterebbe.
I due
soprani hanno parti non proibitive, ma proprio per questo non si possono
permettere pecche: devo dire che sia la Emma di Evgenia
Muraveva che la
Susanna di Irina
Vashchenko hanno
messo in mostra buone qualità, voci ben impostate e corpose, e non si son fatte
trascinare dalla foga che caratterizza i due personaggi e che potrebbe
facilmente portare ad emettere schiamazzi invece che canto.
Il coro
di Casoni è chiamato ad un compito oltremodo difficile, dovendo passare - i
maschi - dalle sguaiatezze dei buzzurri moscoviti e dei prepotenti Strelcy alle
stolide esternazioni dei monaci e alle esaltate preghiere dei raskolniki; ma anche dare nobiltà e religiosità
ai cori degli stessi moscoviti. Le donne devono pure loro sdoppiarsi fra
gentili e timide contadinelle che cantano canzoncine da educande e mogli degli Strelcy
inferocite e vociferanti, oltre che in popolane esultanti per Ivan e in vecchie
credenti invasate. Bene, come al solito la compagine scaligera ha dato il meglio
di sè, a dispetto del... russo!
Detto ciò, mi sembra quasi superfluo
aggiungere che tutti, ma proprio tutti, hanno avuto alla fine un calorosissimo
riconoscimento da parte di un pubblico entusiasta, che evidentemente non ha avuto
problemi a sopportare più di quattro ore di spettacolo.
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Spettacolo che ha avuto in Mario Martone il protagonista della
parte scenica e drammaturgica. L’ambientazione è in un tempo-fuori-dal-tempo,
un mix di passato, presente e (forse) futuro, dove convivono oggetti,
suppellettili e abbigliamenti di provenienza eterogenea, come il consunto sidecar dello scrivano carico di residuati
di strumenti elettronici, o gli smartphone
impugnati indifferentemente da modernisti (Golicyn) e passatisti (Dosifej); c’è
anche una specie di drone che
attraversa la scena proprio all’inizio; i costumi sono pure di fogge svariate,
dai cappottoni di Ivan e Dosifej all’impeccabile abito scuro, con valigetta
24-ore, da funzionario FBI (più che KGB...) di Šaklovityj;
le scene lasciano percepire un generale stato di caos e degrado, che ben rappresenta la situazione vissuta dalla Russia
nel periodo oggetto del testo di Musorgski. Meno efficace invece la differenziazione
fra l’ambiente in cui vive Golicyn da quello di Chovanskij (ma di quest’ultimo
parlerò più avanti).
Martone inventa
encomiabilmente alcune trovate di carattere didascalico, che aiutano lo
spettatore meno addentro alle contorte vicende del libretto (e alle prese con i
problemi di lingua...) a capirci qualcosa in più. La ricorrente presenza in
scena (accuratamente evitata, pur se inizialmente contemplata da Musorgski) di
Sofia con i due piccoli zar ne è esempio illuminante. I tre appaiono proprio
all’inizio dell’opera, sulla musica dell’alba, dove possono rappresentare, soprattutto
Pietro, il-nuovo-che-avanza; poi tornano al momento in cui lo scrivano esce di
scena, e va a consegnare la lettera delatoria di Šaklovityj alla zarevna. La
quale, significativamente, la fa leggere anche al piccolo e intelligente Pietro,
per poi consegnarla appallottolata nelle mani del grandicello ma minorato mentale
Ivan! Alla fine del primo atto Sofia abbandona i piccoli zar per...
abbandonarsi ad un amplesso con Golicyn, comparso a chiarire in anticipo il
significato della lettera (no... un sms) d’amore che la zarevna gli invia all’inizio
dell’atto successivo. Infine i tre tornano sulla scena nel secondo quadro del
quarto atto a chiarire come il padrone della situazione resti, da solo, Pietro
(che però, a 10 anni, difficilmente poteva essere già solitario al potere... ma
questo è un problema di Musorgski).
Nell’atto iniziale
citerei ancora l’incomprensibile mancanza di reazione di Marfa al tentativo di
accoltellamento da parte di Andrej, il che dà modo a Emma di ricambiarle il
favore (?) difendendola dall’energumeno. Azzeccata invece la permanenza dello
stesso Andrej con il gruppo di vecchi credenti (mentre il padre e gli Strelcy
entrano al Kremlino) che sta a prefigurare la sorte del poveraccio, come si
materializzerà nel quarto e quinto atto. Poco da dire sul second’atto (il
bicchiere che sostituisce la bacinella d’acqua non fa troppi danni...) Efficace
la resa del turbolento convegno a tre e delle irruzioni da Marfa e Šaklovityj.
Come detto, il secondo
e il terzo atto vengono accorpati e c’è assoluta continuità musicale fra la
dissolvenza che chiude l’uno e l’attacco dell’introduzione che apre l’altro. Il
coro dei monaci (che erano presenti e ben visibili nell’atto secondo) viene qui
cantato a sipario chiuso (scelta del tutto condivisibile); sipario che si alza
quindi sulla canzone di Marfa, che vediamo ingabbiata come una belva, per nulla
feroce, peraltro. Gabbia che rappresenta - direi - un’allegoria: la costrizione
psicologica che attanaglia la donna, prigioniera dei suoi bei ricordi dei momenti
passati con Andrej ed anche della sua fede talebana in una religione fossilizzata
e ormai minoritaria. Gabbia dalla quale viene liberata dal santone Dosifej che
la invita ad accettare fatalisticamente ciò che il futuro le riserverà.
A questo punto arriva (secondo
me e credo per buona parte del pubblico) la prima caduta di stile, e non solo, di
Martone. Il quale ci mostra un Šaklovityj che canta quel mirabile e accorato arioso sulla situazione della sua povera
Russia e contemporaneamente dà ordine ai suoi sgherri di arrestare Ivan
Chovanskij! Davvero un’invenzione sopra le righe, poichè sappiamo già che Šaklovityj
vuole Chovanskij morto, ma lo farà ammazzare nell’atto successivo e senza di
certo imprigionarlo prima. Così siamo costretti a vedere Ivan che fa l’ultimo
appello ai suoi Strelcy, invece che da casa sua, da una gabbia di
penitenziario, dopodichè, nell’atto quarto, torna libero come un uccello (anzi
con una dotazione di doppiette per sparare ai volatili) nella sua residenza di
campagna, dove si gode i canti delle sue contadinelle. Mah... che siano arresti
domiciliari all’acqua di rose, tipo quelli di Tiziano Renzi e consorte?
Ma il peggio arriva
adesso, con la danza delle persiane:
un siparietto da volgarissimo avanspettacolo, con lap-dance, strip e
strusciamenti, culminante nell’uccisione di Chovanskij per mano (anzi, per
fucilata) di una delle zoccole! Qui siamo caduti proprio in basso... e in basso
si resta alla fine del quadro successivo dove, in barba alla grazia concessa da
Pietro agli Strelcy, alcuni di questi vengono platealmente ammazzati da
tagliagole dell’ISIS! (Certo, sappiamo bene che 15 anni dopo Pietro il Grande
farà ammazzare come cani gli Strelcy, ma nell’opera non è così e allora: perchè
si deve correggere a tutti i costi Musorgski?)
Ecco, una regìa
apprezzabile che si è in parte rovinata per voler strafare. Così alla fine,
mentre per tutti c’erano solo applausi e bravi!,
per Martone sono piovute sonore contestazioni. Ma chi è causa del suo mal...
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