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23 aprile, 2015

Famigliastre a Bologna

 

In questi giorni è di scena a Bologna la Jenůfa di Leóš Janáček, che ieri pomeriggio è arrivata alla penultima delle sei rappresentazioni, che si concluderanno questa sera.

Opera dal soggetto cosiddetto verista, presentando uno spaccato di vita rurale di remote periferie della Moravia e trattando di vicende abbondantemente legate alla cronaca nera. Ma dove non manca il richiamo alla genuinità della vita della gente comune, capace anche di esprimere le più elevate qualità etiche.

L’intreccio del dramma (tutto sommato… a lieto fine) coinvolge prevalentemente persone appartenenti ad una stessa famiglia allargata, quella che fa capo alla vecchia, vedova ormai da tempo, nonna Buryjovka; ma dalla lettura del libretto di Janáček si fatica a comprendere l’intricata matassa dei rapporti di parentela intercorrenti fra i 5 protagonisti principali: la nonna appunto, i tre suoi nipoti (Laca, Števa e Jenůfa) e la nuora Kostelnička. Per dipanare la complicata matassa ci si deve quindi far aiutare dal testo del dramma teatrale - 1890, cui seguirà molti anni dopo un più dettagliato racconto di pari soggetto - di Gabriela Preissová, dal quale il compositore trasse ispirazione per il suo libretto; dramma dal titolo Její pastorkyna (La sua figliastra); titolo che Janáček mantenne per l’opera, anche se poi per vari motivi a quello subentrò il nome della protagonista.

Nell’albero genealogico che segue sono rappresentati appunto i 5 principali personaggi dell’opera, indicati in rosso (gli altri sono tutti ormai… defunti):


Come si deduce, siamo di fronte ad uno scenario a dir poco… incasinato: dico, di gradi di parentela diretti non ce n’è uno che è uno: fra fratellastri, figliastri e matrigne, il rapporto più diretto è quello della protagonista con il suo primo amore, cugini di primo grado.

Tanto per chiarire: i due uomini (Laca e Števa) che si contendono (almeno per un po’) l’amore di Jenůfa sono figli della stessa madre, ma di padri diversi: il primo, di tale Klemen, il secondo del primogenito di nonna Buryjovka. Laca quindi è più anziano, ma tutta l’eredità dei Buryja (il mulino e proprietà connesse) va al fratellastro, per ragioni di… sangue (residui di maggiorascato!) così a Laca viene semplicemente concesso di lavorare al mulino, come qualunque altro estraneo. Da parte sua Jenůfa è figlia del secondogenito (Tomas) di nonna Buryjovka e di una donna (Jenůfa-sr, figlia di un albergatore) morta poco dopo averla data alla luce (per questo la bimba ne prende pari-pari il nome). Tale Petrona Slomkova, che invano aveva puntato Tomas da scapolo, lo ha poi sposato da vedovo, e alla morte di costui ha trovato impiego come sacrestana (Kostelnička) presso la locale cappella: Jenůfa-jr (la sua figliastra, appunto, come dice il titolo) viene da lei allevata come una figlia.
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Ora qualche nota sulle personalità dei protagonisti, come emergono dal testo della Preissová, e poi dal libretto e dalla musica di Janáček. La figura centrale è fuor di dubbio quella della Kostelnička, poiché è lei che determina, nel bene e nel male, ogni singolo sviluppo del dramma che si consuma nella sperduta Veborany. Lo stesso titolo della fonte di Janáček (che il compositore originariamente trasferì anche all’opera) lo testimonia senza ombra di dubbio: Jenůfa vi compare implicitamente, indicata come la sua (della Kostelnička, appunto) figliastra, quindi l’enfasi è sulla titolare di quel sua!

I cui comportamenti evidenziano una chiara instabilità psichica, che un suo conterraneo e contemporaneo avrebbe potuto analizzare e magari curare applicando le sue recenti scoperte in tema di psicanalisi: peccato che Petrona Slomkova non abbia avuto la ventura di passare a Příbor per farsi visitare da tale Sigismund Shlomo Freud!

Certo, il suo equilibrio psichico doveva essere stato turbato da tutta una serie di circostanze esistenziali particolarmente avverse. Dunque, vediamo: Petrona riceve un’educazione assai severa dal padre (para-medico molto rispettato in paese) e alla morte di lui deve accudire la madre (donna pia e in perenne ansia che qualche uomo le porti via la figlia). A 27 anni – quindi non più una ragazzina – conosce Toma Buryja (bello e pure ricco!) e se ne innamora. Ma lui sposa un’altra (Jenůfa-sr) che muore partorendo una bimba (Jenůfa-jr).

Allora è Toma a cercare Petrona, la quale decide di sposarlo, attirandosi così mille maledizioni dalla madre, che non può vedere quel poco di buono (la suocera Buryjovka invece è ben felice che una donna proba tenga a bada il figlio scapestrato). La stessa Petrona deve presto pentirsi del matrimonio, viste le abitudini del marito, che beve e perde tutte le sue sostanze al gioco e a lei riserva solo maltrattamenti. Per di più lei ha scoperto di non poter avere figli, e da questa frustrazione nasce un amore possessivo per la piccola Jenůfa, che è l’unica cosa che le rimane alla morte del marito, ucciso accidentalmente dalla fucilata di un cacciatore.

La sua rettitudine e moralità le fanno ottenere il posto di sacrestana (Kostelnička). Quando i due fratellastri Števa e Laca cominciano a frequentare Jenůfa, ormai adolescente, le simpatie di Petrona vanno istintivamente a Laca: primo perché lui è (precisamente come lei stessa) estraneo alla famiglia Buryja e quindi penalizzato (tutta l’eredità va a Števa) e secondo perché è un ragazzo con la testa a posto, al contrario del fratellastro che assomiglia – quanto a cattive abitudini – allo zio Toma.  

Naturale quindi che lei sia contraria alla relazione della figliastra con Števa, ma quando fra i due sopravviene il fatto compiuto tutta la sua esistenza è volta al perseguimento del bene (o del… minor male) di Jenůfa: così la nasconde fino al parto e contemporaneamente comincia a sperare che il bimbo (del peccato, quindi sbagliato) non veda la luce; e quando la vede, dice direttamente in faccia alla figliastra di augurarsi che Dio le tolga quel figlio dalle mani. Per rispetto delle convenzioni di cui è impregnata, cerca comunque di convincere il padre ad addivenire alle classiche nozze riparatrici. Mancato questo obiettivo, la sua decisione è ormai presa: sopprimere il bimbo (qui non è da escludere un inconscio senso di invidia per la figliastra, che un figlio lo ha avuto, mentre a lei era stato negato…)

Ma arriva inaspettatamente Laca, nonostante tutto ancora e sempre innamorato di Jenůfa, e la donna è costretta a rivelargli il segreto. Però prima che lui possa pensare a mente fredda all’eventualità di prendersi la figliastra sua con annesso pargolo del fratellastro suo (al quale l'infante già somiglia come una goccia d’acqua!) lei lo previene con la menzogna della morte del piccolo, tanto è convinta dell’assurdità di una simile soluzione: ma come, Laca dovrebbe sposare Jenůfa e riconoscere come suo il figlio del fratellastro che gli ha violato anche la moglie, dopo essersi preso tutta l’eredità della famiglia? No, l’unica soluzione buona (o meritata) per tutti - e persino benedetta dal suo Dio - è la soppressione del neonato: ciò farà il bene della figliastra e di Laca (che infatti, alla fine, vivranno felici e contenti!); risparmierà al piccolo innocente una vita di umiliazioni, facendogli raggiungere immediatamente il Paradiso; e infine caricherà sulle spalle del fedifrago Števa un meritato, pesante ed eterno rimorso.

Accipicchia, il Dottor Freud avrebbe avuto materia per scriverci più di un tomo di psicanalisi!

Quanto alla povera protagonista, lei è una donna sfortunata fin dalla nascita, per la perdita della madre e più tardi del padre: rimane quindi alla mercè di una matrigna tanto possessiva quanto amorevole, che di fatto cerca di sequestrarle ogni libertà di pensiero e di movimento, e successivamente di indirizzare a modo suo la spinosa gestione della nascita e del futuro del nipotino. La stessa conclusione della vicenda ce ne mostra l’intrinseca debolezza di carattere e la subalternità di fronte ad eventi che appaiono decisamente più grandi di lei.

Il personaggio di Laca, come detto, ha qualche punto di contatto con quello della Kostelnička: è figlio della stessa madre di Števa, del quale però non condivide la fortuna, né quella economica, né quella sentimentale, sempre preceduto sul traguardo dal più giovane e privilegiato fratellastro. Naturale che provi risentimento verso quest’ultimo, ma anche verso Jenůfa, rea di preferire il bello e ricco (ma anche vuoto e inaffidabile) Števa a lui che è buono e fedele, ma povero. E così la sua frustrazione sfocia nell’atto violento di sfregiare una guancia della ragazza che gli si nega. Da notare al proposito che sono proprio lui e la matrigna di Jenůfa a rendersi responsabili dei due crimini che caratterizzano la vicenda.

Števa è il classico figlio-di-papà, già nato con la camicia e al quale vanno (fino a un certo punto!) tutte bene: si prende l’eredità, è il prediletto della cugina, ha fortuna con le donne, antepone la bella vita ai doveri familiari, riesce ad evitare il servizio militare e infine può scegliersi in moglie la figlia della massima autorità locale! La fine ingloriosa che gli viene riservata sembra quasi una giusta punizione divina per il suo comportamento irresponsabile.

Per ultima, nonna Buryjovka: è un personaggio opaco, privo ormai di qualunque iniziativa; una vecchia che non riesce a comprendere che il mondo sta cambiando e che subisce passivamente gli avvenimenti che accadono attorno a lei; non a caso è l’unica persona della famiglia ad essere assente dal secondo atto, dove si sviluppa tutto il dramma dei Buryja. Fuori dalla cui cerchia si muove il microcosmo della gente di Veborany, tipica comunità rurale arretrata e un po’ bigotta, ma proprio per questo anche naïf e perfettamente strumentale all’obiettivo di Janáček di circondare il cuore del dramma con squarci di musica che raccontano l’innocente ingenuità della sua gente.
   
I tre atti dell’opera (come del dramma originario) coprono un arco di tempo di alcuni mesi: un’estate (o inizio autunno) dove scopriamo il segreto legame fra Števa e Jenůfa, già incinta; l’inverno che fa da sfondo alla nascita – e alla tragica morte prematura! – del piccolo Števa-jr; e la successiva primavera – a un anno di distanza dal concepimento del figlio di Jenůfa - dove assistiamo al ritrovamento del cadaverino, al dramma della Kostelnička, alla punizione morale di Števa e al lieto fine fra Laca e Jenůfa.

Conseguentemente i tre atti si configurano come un’alternanza di due scenari caldi e sereni (ma all’interno dei quali si materializzano colpi di scena drammatici) e di uno cupo, tragico e gelido, proprio come l’inverno.
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La musica di Janáček ha qualcosa di inafferrabile, ne veniamo colpiti per la sua indifferenza a canoni o stereotipi consolidati (a fine ‘800): non ci sono ovviamente arie o romanze in senso tradizionale, ma nemmeno un organico intreccio di motivi conduttori sul modello wagneriano, se si esclude l’insistente ritornare del martellante inciso dello xilofono, che pare segnare l’implacabile scorrere del tempo, precisamente come l’incessante ruotare delle pale del mulino dei Buryja.

La strettissima aderenza, scientificamente studiata e perseguita in tutte le opere di Janáček, ai fonemi della sua lingua, anzi del dialetto moravo-slovacco, ci rendono questa musica – anche a causa dell’estraneità di quegli idiomi rispetto alle nostre consuetudini - piuttosto bizzarra, pur se istintivamente accattivante. Ci sentiamo qua e là echi mahleriani, ma anche pucciniani e una continua mutevolezza di tonalità e modalità; il tutto intrecciato a motivi di (apparente) origine folklorica, che il compositore raccoglieva meticolosamente dalle strade e poi ricostruiva secondo la propria sensibilità.

L’opera ebbe un’esistenza piuttosto travagliata, fin dalle prime apparizioni ad inizio ‘900, e solo negli ultimi decenni ha ritrovato uno spazio relativamente stabile nei repertori dei teatri, soprattutto grazie alla dedizione del compianto Charles Mackerras, che oltre a dirigerla più volte ed inciderla su CD ne ha avviato la ricostruzione della versione originale (portata a termine anni fa dal musicologo inglese Mark Audus).

Non esiste – e difficilmente potrà mai esistere – una versione critica ed autorevole della partitura, a causa dei mille interventi operati su di essa, a partire dalla prima esecuzione a Brno del 1904, dallo stesso Autore (che ne distrusse ogni schizzo o manoscritto) e da altri, primo dei quali il direttore Karel Kovařovic, che dopo un iniziale categorico rifiuto a prendere in considerazione l’opera si convertì ad una profonda stima per essa e per il fino allora disprezzato Janáček, insieme al quale curò una profonda revisione e riorchestrazione della partitura in vista della prima a Praga nel 1916.
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Questa produzione di Bologna viene dalla Monnaie di Bruxelles dove è già stata collaudata lo scorso anno. La messinscena è firmata da Alvis Hermanis (già visto all’opera pochi mesi orsono con la scaligera Die Soldaten) che ha creato uno spettacolo di indubbio fascino, pur con alcuni aspetti decisamente opinabili.

A cominciare dalla radicale differenziazione fra gli ambienti solari e quasi operettistici degli atti esterni e quello iper-verista dell’atto secondo: tutti rigonfi di colore e di arte floreale i primi, con bellissimi costumi (Anna Watkins) esageratamente modellati sul folklore moravo; calato in una realtà da comunismo reale il secondo, in una lurida stamberga immersa nel disordine più totale. Contrasto – per me – eccessivo, poiché distorce, ingigantendone arbitrariamente le distanze, le reali proporzioni fra le tre sezioni del dramma. Che anche nel primo atto ha la sua bella componente cruda e verista, con la sfregiante coltellata di Laca, che qui proprio non si vede, o quasi.

In compenso nel secondo atto tutto viene caricato di eccessiva crudezza, e persino si falsificano particolari importanti. Ne cito uno abbastanza macroscopico: nell’originale, Števa, pur invitato più volte dalla Kostelnička, non ha il coraggio di entrare nella camera dove dormono Jenůfa e suo figlio, e se ne va senza vederli. La matrigna subito dopo esterna il desiderio di gettare il piccolo ai piedi del padre, per convincerlo ad accettarlo. Bene, Hermanis ci mostra invece proprio il desiderio irrealizzato della matrigna, che prende il neonato e lo scaraventa in braccio al padre, che a sua volta si commuove cullandolo e sembrerebbe sul punto di tenerlo con sé… Guarda caso, nel finale dell’opera, il corpo del piccolo (contrariamente al testo originale) ricomparirà in braccio a Jenůfa che lo consegnerà alla matrigna nel momento in cui questa viene arrestata: cosa magari di grande effetto, ma credo proprio estranea allo scenario psicologico della conclusione della vicenda. Non parliamo poi della brutale crudezza della chiusura dell’atto secondo, dove vediamo la Kostelnička, in preda ad un’autentica crisi epilettica, stipare nel freezer i panni del piccolo che lei ha appena sepolto nel ghiaccio vicino alla roggia. Insomma, per me troppi contrasti: eccessivamente zuccherosi e stereotipati il primo e il terzo atto, truce assai più del dovuto il secondo.

Aggiungo infine di aver poco digerito la presenza delle 16 (pur bravissime!) danzatrici che accompagnano tutta l’azione nei due atti esterni (ma con una fugace apparizione anche nel secondo): sono a mio avviso elementi che finiscono col togliere, invece che aggiungere, valore alla messinscena. Che ha ovviamente tanti lati interessanti ed intelligenti: cito fra tutti la suddivisione orizzontale della scena, nella cui parte superiore prendono posto i cori del primo e terzo atto.
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Benissimo sono andate le cose sul piano musicale: Juraj Valčuha ha diretto con grande cura del dettaglio e sobrietà di gesto, valorizzando in pieno le doti dell’orchestra (lo xilofono era intelligentemente posto nel palco di barcaccia di sinistra) e soprattutto concertando alla perfezione le voci.

Fra le quali è emersa, per imponenza, piglio da grande soprano drammatico e impeccabile tecnica, quella di Angeles Blancas Gulìn, una stupefacente Kostelnička!

Alla sua altezza il Laca di Jan Vacik (tenore di stampo eroico) e la protagonista Ira Bertman, a suo agio in questa parte che ha caratteri solo apparentemente dimessi, ma comporta anche squarci di canto drammatico.

Ma tutti hanno contribuito al successo dello spettacolo, incluso ovviamente il coro di Andrea Faidutti, e così tutti alla fine hanno meritato lunghi applausi dal pubblico felsineo, accorso al Bibbiena in falangi non proprio foltissime ma evidentemente soddisfatte.

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