ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

30 gennaio, 2024

Un nuovo doge alla Scala: ripasso

In attesa di apprezzare (speriamo!) la nuova produzione di Simon Boccanegra che la Scala ha affidato alla coppia Viotti-Abbado, ho dato una ripassata al plot dell’opera, che è di certo fra i più contorti e indigesti fra quelli che popolano la sterminato terreno del melodramma. Ovviamente rinfrescando la memoria con l’aiuto di autorevoli addetti-ai-lavori (ne cito uno fra tutti: Julian Budden).  

Sappiamo che il libretto della prima versione (1857) dell’opera (di Francesco Maria Piave poi rinforzato da Giuseppe Montanelli) fu derivato con sufficiente fedeltà dal dramma di Antonio García-Gutiérrez (1843) un autore che Verdi già aveva sfruttato per il suo Trovatore. Poi arrivò Arrigo Boito (versione 1881) che apportò svariate e non banali variazioni al libretto di Piave.

Come detto, Piave mantenne quasi inalterata la macro-struttura dell’originale: un Prologo ambientato nella Genova del 1338 e tre Atti (contro i quattro di Gutièrrez) sempre nei pressi di, o in Genova, nel 1362 (Aristotele: ciaone!) Al proposito, e detto di passaggio: con quale realismo può uno stesso baritono impersonare uno stesso individuo a distanza di 25 anni, passando da giovane eroe/corsaro/conquistatore-di-mari (e di… ragazze di buona famiglia) ad austero e magnanimo rappresentante del Popolo, e padre premuroso quanto attempato? Ridendoci paradossalmente sopra: uno come il Topone (!) che poteva tornare quasi tenore nel Prologo e poi contrabbandarsi baritono per il resto dell’opera…

Ovviamente Piave fu costretto a sfrondare l’originale di Gutièrrez di tanti orpelli (personaggi e vicende di contorno) perfettamente ammissibili in un’opera da teatro di prosa ma che sarebbero stati deleteri per un melodramma. In questa sintetica tabella ho riassunto, su tre colonne, le differenze principali fra i testi di Gutièrrez, Piave e Boito (ho usato per tutti i nomi italiani). Che ora commento con qualche dettaglio.

Innanzitutto balza all’occhio come la costruzione del libretto di Piave già avesse comportato la cassazione dell’intero second’atto originale. E con esso quella di un personaggio, Lorenzino Buchetto, che nell’opera compare solo nel primo atto, senza mai cantare e del quale si sente solo parlare e quasi di sfuggita, mentre nel dramma occupa buona parte di quell’atto espunto. [Curioso come a questo meschino personaggio di contorno vengano riservate ben tre diverse uscite di scena: in Gutierrez dopo il second’atto di lui non si ha più traccia: in Piave e Boito scompare già dopo il primo atto: esiliato da Boccanegra (Piave); trucidato da Gabriele (Boito).]

In effetti, dopo il Prologo, non intatto, ma sostanzialmente rispettato, la prima significativa deviazione del libretto rispetto al dramma si presenta proprio alla fine del primo atto. Nel dramma di Gutièrrez esso si conclude con il rapimento di Amelia, dopodichè l’intero second’atto è occupato dalla lunga (e un po’ dispersiva…) trattazione delle complicate macchinazioni di Andrea-Gabriele e Pietro-Paolo-Lorenzino contro il Doge e ai danni della povera Amelia. Sta di fatto che, dopo l’agnizione Boccanegra-Maria (si veda più sotto qualche dettaglio) la ragazza, da povera vittima, rapita e sballottata qua e là, diventa invece – con la protezione del Doge, che ha di fatto già smascherato i colpevoli - il motore dell’azione, che si chiude con la resa di Paolo, Andrea e Gabriele e con Lorenzino che scorta personalmente Amelia al palazzo ducale! Sappiamo invece come Piave inventi l’ultima scena del prim’atto, con l’improvviso arrivo a palazzo di Gabriele che denuncia il rapimento accusandone il Doge, e poi di Amelia stessa; e come Boito ancora la modifichi con il potentissimo appello finale di Boccanegra e l’umiliazione di Paolo.        

Torniamo sull’importante differenza riguardo all’agnizione Boccanegra-Maria: Gutièrrez la spalma su due scene addirittura di due atti diversi (1 e 2) e limitando il numero di indizi. Piave invece la concentra mirabilmente in una sola scena del prim’atto, e con un crescendo davvero emozionante (e proprio melodrammatico!) di ricordi, scoperte e indizi.

Molto sommariamente ciò che accade negli atti 3 e 4 di Gutièrrez viene ripreso (con differenze non trascurabili, peraltro) negli atti 2 e 3 di Piave-Boito. Partiamo dal veleno che uccide il Doge. Piave segue diligentemente Gutièrrez, che solo nell’atto conclusivo ce ne notifica (parole di Pietro) la somministrazione al Doge in modo assai criptico e misterioso (l’ampolla palestinese in cui solo il Doge beve nelle grandi occasioni) limitandosi ad un unico verso (Fa cor, tutto disposi) col quale Pietro informa della messa in opera della trappola mortale il sodale Paolo, che a sua volta ne informerà Fiesco (Veleno ardente…)

Qui invece è Boito che cambia radicalmente le carte (e l’assassino materiale) in tavola: non è Pietro (che esce definitivamente di scena) ma proprio Paolo che, nel second’atto, versa personalmente il veleno nella caraffa dalla quale Simone sorseggia acqua prima di coricarsi. Quanto alla sua fine, in Gutièrrez verrà punito da… Fiesco, in Piave scompare prima della scena finale; in Boito viene trascinato in carcere.

Tutto sommato si deve riconoscere ai due librettisti italiani di aver fatto un lavoro più che positivo, nel sostanziale rispetto del soggetto originale. Poi sarà il Peppino a suggellare da par suo (in due tempi!) un’impresa che non sfigura affatto rispetto a più blasonati capolavori.

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