Dico subito che i miei
timori si sono materializzati: lo spettacolo è di alto livello, per carità, ma
è fatto per il cinema (compresa la
sorellina minore, la TV) e per i DVD. In teatro perde molto del suo
fascino ed anzi finisce quasi per deludere. Perchè l’attenzione del pubblico
viene catturata dall’opulenza della scenografia e distolta dalla componente
principale dell’opera, la musica!
La ripresa TV (se fatta
sapientemente, come accade abbastanza in questa occasione) riesce a coniugare
le esigenze visive con quelle uditive, poichè raramente, e solo nei frangenti
che lo richiedono, mostra - fissa - l’intera inquadratura dell’enorme
palcoscenico. Per il resto segue da vicino, o da vicinissimo, in primo piano, e
da prospettive insolite e precluse allo spettatore in sala, i protagonisti
dell’azione, permettendo così a chi assiste di focalizzarsi sull’essenziale,
immagine e suono. É precisamente il concetto-base del cinema, dove tutto deve congiurare a orientare l’attenzione dello
spettatore sull’essenza del soggetto rappresentato.
Caratteristica che è poi
stata fatta proprio dalle riprese televisive, come quelle di un incontro di
calcio, dove quasi mai viene mostrata l’inquadratura fissa dell’intero campo
(quella che vede lo spettatore dagli spalti) bensì la (piccola) parte del terreno,
quella dove si svolge l’azione, e magari con replay da mille diverse direzioni e angolazioni, per arricchire lo
spettatore di informazioni e dettagli invisibili ad occhio nudo. E il bello è
che le immagini televisive vengono oggi proiettate anche negli stadi, su
schermi giganti, in modo da fornire allo spettatore dal vivo ciò che altrimenti
sarebbe patrimonio solo di quello seduto in poltrona a casa sua.
Ma ora sorge la domanda:
vogliamo trasformare anche i teatri in stadi, dotandoli di schermi dove
proporre i close-up o i replay dell’azione (?!) Se la risposta è
sì, bene, allora si provi a farlo, se
ci si riesce... Se invece è no, allora
bisogna prendere atto che l’impiego di strumenti nati con altri scopi non è
compatibile con il teatro che si fa in
teatro (non sullo schermo, maxi o mini).
Altro problema. Purtroppo il
teatro-di-regìa non contempla alcuna staticità (siccome vuole appunto fare teatro prima che musica!) e quindi tende a movimentare
di continuo la scena, anche dove ciò sarebbe da evitarsi, finendo così per
disorientare lo spettatore, che fatalmente sposta l’attenzione dal contenuto essenziale (il principio attivo, direbbe il
farmacologo) all’invadente eccipiente.
Insomma, è l’esteriorità dello spettacolo (magari interessante e sontuoso in
sè) a prendere purtroppo il sopravvento.
Esempi relativi a questa
Tosca: la presenza ingiustificata e quasi continua di personaggi alieni (ma a
volte anche pertinenti!) al soggetto. Qui basta ricordare le suorine che nella
chiesa vanno e vengono, spostando trespoli porta-candele, da destra a sinistra
e da sinistra a destra; o la folla che occupa l’ufficio di Scarpia, comprese le
domestiche-religiose che gli apparecchiano e sparecchiano la tavola; il
continuo spostamento di parti della scenografia (colonne o affreschi che
salgono-scendono, oggetti d’arredamento o intere parti di edifici che si
spostano da sole o perchè spinte da figuranti, il torrione con l’alona del santangelone
che gira incessabilmente su se stesso, come una giostrina per bambini, tableau-vivant che si animano
impercettibilmente - ma solo per gli spettatori che entrano in Scala dal foyer
al piano terra, quelli che entrano da Largo Ghiringhelli vedono solo... i
piedi, o nemmeno quelli). Ma anche dettagli pertinenti al soggetto, ma che
dovrebbero restare invisibili all’occhio, proprio come lo sono ai personaggi in
scena: la sala della tortura di Cavaradossi, di un realismo davvero
controproducente!
Insomma, pare che
l’obiettivo della messinscena sia quello di mostrare le meraviglie dei potenti
mezzi di cui la Scala si è dotata dal 2005, in modo da stupire lo spettatore
(come accadeva nel barocco del ‘700 con l’impiego di strabilianti macchine ed
effetti speciali... ma lì erano parte integrante dell’opera!) e pazienza se
l’intimo contenuto del soggetto rischia di passare in secondo piano. Insomma:
la forma prevale sulla sostanza (leggi: la musica).
Non si è sempre criticato il grande Zeffirelli per l’ipertrofia, la
sovrabbondanza e l’eccesso di effetti scenografici? Ecco, questa Tosca sembra
inscenata da uno Zeffirelli_2.0!
La fedeltà alla partitura
(le indicazioni didascaliche) tanto sbandierata da Livermore/Chailly è un
concetto assai elastico: ne è lampante prova il finale dell’atto secondo, dove
l’intera sequenza dell’allestimento - da parte di Tosca - della camera ardente per Scarpia (è Kitsch solo se fatta in modo trasandato,
altrimenti è proprio parte integrante del quadro della personalità della
protagonista) viene tranquillamente rimossa, per lasciar spazio a Freud. Ironia
della sorte, la responsabilità è di Chailly, che ha ripristinato la posizione
del verso E avanti a lui tremava tutta
Roma, che comporterebbe che quell’esternazione venisse fatta da Tosca con
due candele in mano, una cosa da avanspettacolo. Ma anche il finale dell’atto
terzo, con la ridicola passeggiata nello spazio della controfigura di Tosca, è
opera di Chailly, che ha voluto esser da meglio di Puccini, ripristinando il
pleonastico finale (al posto di Livermore, avrei fatto abbassare il sipario
nero e lasciato Chailly da solo a menare il torrone sinfonico di questa
chiusura pacchiana).
Che dire poi di Tosca che entra in chiesa a mani vuote e poi ruba i fiori di qualcun altro per
omaggiare la Madonna (Bel rispetto -
per Puccini - direbbe Scarpia)? O delle tre coltellate a Scarpia, più strangolamento
(per sicurezza) dove Livermore ha rivaleggiato con l’orrendo Bondy? E della lugubre ambientazione del terz’atto,
con plumbeo cielo da temporale, che fa totalmente perdere allo spettatore il
lancinante contrasto fra l’idilliaco risveglio della natura e la catastrofe che
si materializzerà di lì a poco?
Insomma, una
sovrabbondanza di orpelli e trovate genialoidi che sembran fatte apposta per
catturare a buon mercato l’approvazione del pubblico. Di sicuro quella di
Livermore è però una regìa che ci racconta precisamente la storia di Tosca, e non
quella di Lulu, ed è già una gran consolazione, con i tempi che corrono...
___
Molto meglio che alla prima (personalmente seguita in TV) sono
andate le cose sul fronte dei suoni: evidentemente una prova (!) in più è servita. E non solo per evitare false partenze (seconda
uscita di Angelotti) o improvvise amnesie (Netrebko, atto secondo). Mi pare che
Chailly abbia rimediato all’approccio
eccessivamente sostenuto mostrato a SantAmbrogio
(anche qui, le prove servono...) e
abbia dato maggior fluidità alla sua direzione. L’orchestra si era già
comportata bene e ha fatto, se possibile, ancor meglio (memorabile il
dispiegarsi della melodia - richiama Ciajkovski e anticipa Mahler - che
accompagna lo scampanìo del risveglio della città). Inappuntabili i cori di Casoni e De Gaspari (che ha fornito anche il personaggio del Pastorello, il
bravissimo Gianluigi Sartori).
Anna Netrebko, a parte aver rimediato i
due erroracci (l’attacco del Vissi d’arte
e il secondo Chi m’assicura?) ha sciorinato
le sue grandi doti naturali, la splendida qualità della sua voce e la capacità
di esprimere sentimenti, atteggiamenti e pulsioni d’animo di questo complesso
personaggio che è Tosca. Il lato attoriale non è il suo forte, si sa, ma io (con
buona pace di chi mette il teatro
prima della musica) confermo di
preferire una cariatide che canta come si deve ad una Eleonora Duse che
gracchia e pigola.
Francesco Meli non è forse il Cavaradossi
ideale (altrimenti Pereira non avrebbe avuto esitazioni ad annunciarlo in
programma già lo scorso 27 maggio) ma si fa perdonare con la sua voce pulita e
accattivante, in aggiunta alle mezze-voci (preferisco i suoi falsettini alle
ingolature di tale Kaufmann). Lui è anche un ottimo attore, il che ovviamente
non guasta.
Luca Salsi mi pare il migliore del terzetto per
autorevolezza. E intendo autorevolezza vocale, timbro brunito, potenza in tutta
l’estensione, sfumature efficaci (l’Ebbene?
sussurrato a Tosca si è perfettamente sentito dal loggione). Se invece devo
giudicare il suo approccio alla personalità del Barone, allora mi vien da dire
che sia più lo Scarpia di Sardou che quello di Puccini... Cioè: un individuo
depravato sì (Sardou) ma non una vera bestia
quale lo scolpisce Puccini.
Efficacissimo il Sagrestano
di Alfonso Antoniozzi, una macchietta
che è stata interpretata con la giusta misura, senza mai scadere in volgare
avanspettacolo. Altrettando dicasi di Carlo
Bosi, la cui voce petulante ha reso al meglio il personaggio dello sbirro
di Scarpia. Anche Carlo Cigni mi è
parso più efficace e rinfrancato rispetto alla prima: deve rompere il ghiaccio
e questa non è mai una cosa facile, ma ieri il suo Angelotti ne è uscito assai
bene. Ernesto Panariello (lui è come
il prezzemolo, alla Scala) ha svolto con la consueta professionalità il suo
compitino di carceriere. Guido Mastrototaro
è stato un dignitoso Sciarrone.
Per tutti ovazioni ed
applausi (forse non si è battuto il record di durata del 7/12, ma ci si è avvicinati)
con punte per Netrebko e Salsi.
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