Ormai il fatidico d-day si avvicina (c’è già stata la generale e questa sera va in scena la primina) e quindi anche i massimi
protagonisti della Tosca del millennio
possono respirare un po’ e trovare qualche mezzoretta da dedicare alla
divulgazione.
Così dopodomani, proprio
alla vigilia, Chailly farà l’annuale chiacchierata
con l’Assessore alla Cultura del Comune (Filippo
Del Corno, che - detto di passaggio - di musica ne sa più di tanti musicisti
e musicologi) mentre ieri sera è stata la volta di Davide Livermore a fare una
chiacchierata - moderata da Gaia
Varon - con un altro Del Corno,
Nicola, storico dell’Università Statale.
Livermore ha cominciato
con una rivelazione, riguardante in realtà il suo Attila del 2018: lui aveva in mente un’ambientazione esplicita nei
giorni della caduta del fascismo, con esaltazione della lotta partigiana
(chissà se c’era anche piazza Loreto...) Ma qualcuno (non ha detto chi...) gli impedì di realizzare questa sua idea, e
così dovette ripiegare su un’ambientazione nell’Italia distopica della prima metà del ‘900, con riferimenti cinematografici
(Rossellini, Pasolini-Brass-Cavani) abbastanza annacquati al nazifascismo e
alla lotta di liberazione. Beh, un’ammissione non da poco: di interferenze sulla
sua libertà di espressione; ma anche di una sua, diciamo... capacità di adattamento,
che lo portò evidentemente a fare qualcosa, per lui, di insincero (!)
Tosca. Livermore ha ribadito quanto già espresso in
altre occasioni, cioè che lui considera Tosca un tipo e non un archetipo,
e come tale da rappresentarsi proprio come da lettera del libretto e delle
didascalie in partitura (pare di sentire Zeffirelli...) A differenza del suo
scaligero Tamerlano, che lui ha
tranquillamente trasferito nella Russia dei bolscevichi (con Stalin e Lenin a
contendersi una delle figlie dello zar... ndr).
Ma qui la simpatica Gaia lo ha però messo (di proposito?) in difficoltà,
ricordando l’allestimento di Jonathan
Miller a Firenze (1986) che guarda caso riambientava Tosca proprio come
Livermore avrebbe voluto riambientare Attila! E aggiungendo - in indiretta
polemica con il regista - come tale riambientazione (OVRA-partigiani = Scarpia-Angelotti&Cavaradossi)
fosse perfettamente plausibile. E qui Livermore ha dovuto abbozzare,
riconoscendo la maestrìa di Miller e non trovando di meglio, per difendere la
sua tesi, che citare l’incongruenza del riferimento di Marengo con il 1945...
Per il resto, ha
sottolineato le caratteristiche di cinematograficità
della musica di Puccini, che di per sè indica chiaramente al regista le
linee-guida della sua messinscena.
Quanto a Del Corno, ha
dottamente sottolineato alcuni paralleli fra l’Italia dell’anno 1800 e quella
dell’anno 1900: Scarpia e Beccaris, per dire... e gli scenari di rivolta verso regimi
assoluti o repressivi. Tuttavia, secondo Livermore, il tempo della politica-nel-melodramma era finito con Verdi, e il teatro
musicale aveva imboccato altre strade, che Puccini stava decisamente
percorrendo, quelle dello spettacolo
perfetto.
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