Mah, io mi
convinco sempre di più che debba essere salvata – nel senso di tenuta lontana!
- da registi cialtroni e da esegeti con la puzza al naso. Dichiaro subito: non considero assolutamente la Giovanna un capolavoro, chè altrimenti dovrei inventarmi qualche astruso
neologismo per apostrofare Otello… Ma
allo stesso tempo penso che sia sommamente sbagliato sostenere che tutto ciò
che capolavoro non è sia per definizione ciofeca.
In un’ipotetica piramide suddivisa orizzontalmente in tre sezioni, collocherei
Giovanna nella parte alta di quella mediana, ecco. Quindi: tutto salvo che brutta, come la catalogò il pur sommo Massimo Mila, assieme ad altre cinque sorelle derelitte, tra le
quali un’altra opera che si appresta ad aprire la stagione 2016 in uno dei
principali teatri italiani (Attila, a
Bologna).
Nel suo citato
testo (dove si riassumono le lezioni universitarie da lui tenute negli anni
’60) Mila affianca a benevoli apprezzamenti di tono paternalistico autentiche
stroncature di ferocia inaudita. Della cavatina Pondo è letal il nostro parla
come di crollo (estetico); poi di perfetto esempio di oziosa coniugazione
melodica a puro scopo edonistico, per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e
permettere al tenore l’esibizione delle sue facoltà; poi ancora di melodia sciocca e fatua; e infine pure… gaglioffa! Accipicchia: messa così si
dovrebbe allora buttare nel cesso mezzo Verdi, dalla pira alla donna mobile, ai bollenti spiriti (tanto per restare alla invece santificata trilogia): non sono altrettanti pretesti
per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere esibizioni delle facoltà
del tenore?
Dopo aver
liquidato di passaggio come poco
significante la melodia della cavatina Sempre all’alba, Mila apostrofa come un caso
di brutto-oltraggioso e come goffaggine e gagliofferia il coro dei demoni (al ritorno nel second’atto lo
definirà futile barcarola). È vero
che la bizzarra filastrocca di Solera è perenne oggetto di lazzi e sberleffi, ma
in realtà rappresenta perfettamente gli stereotipi radicati nelle usanze del
popolino, riassumibili nel concetto: ogni
lasciata è persa… Quindi il testo e la musichetta di walzer che lo sorregge sono (per me) un mirabile esempio di
equilibrio e di stile, mi verrebbe persino da spendere il termine poesia per definirli. Mila poi così si
esprime sul duetto Son guerriera: un’atroce cabaletta (…) su un accompagnamento dozzinale; che dopo
la parentesi del terzetto a cappella,
viene ripresa dai tre che si mettono a
berciare (…) sul suo sfacciato
accento giambico.
Le due sezioni
dell’aria doppia di Giacomo (atto II) sono (è sempre Mila) melense e oziose, melodicamente cincischiate. Cincischiata è anche la romanza di Giovanna (O fatidica foresta). Il duetto
Giovanna-Carlo è affetto dal più vieto e
superficiale dinamismo rossiniano (per Gino
Roncaglia è uno dei momenti più
stolidi dell’opera). Quanto al finale dell’atto II, esso mescola autentiche intuizioni drammatiche a
obbrobriose banalità. Qui Mila si lascia purtroppo andare ad una miserabile
considerazione di carattere ideologico: a proposito dell’ultimo intervento dei
diavoli che cantano vittoria, scrive di brutale
arpeggio, una specie di “Allarmi, siam fascisti!” Ora, che quell’inciso sia
stato impiegato da tale Mario Ruccione (o chi per lui, e coscientemente o per
pura combinazione) per supportare il testo dell’Inno fascista di Luigi Landi sarà pur vero, ma accadrà 90 anni dopo la composizione di
Giovanna: e da quando in qua le colpe dei pronipoti ricadono sui bisnonni?
La marcia che
apre l’atto III è da Mila benevolmente accreditata di essere un lontanissimo antefatto di quelle (…) del
DonCarlo o dell’Aida, ma forse meglio come documento delle attività municipali
del giovane Verdi per la banda comunale di Busseto (!) Più avanti affermerà
che Verdi non aveva neanche tentato uno
sforzo d’ambientazione storica (cioè, ndr:
la banda comunale di Reims?!? Ah no, la Messa
di Machaut!) Gli interventi di Giacomo (recitativo, romanza, declamato e
aria) vengono liquidati come privo di
interesse, con accompagnamenti
convenzionali, senza importanza
musicale, piuttosto banale
melodicamente… Il concertato finale ha una realizzazione men che modesta (…) senza reale consistenza di valori né musicali, né drammatici.
Il quarto atto è
considerato da Mila (con la prima parte del primo) la cosa migliore dell’opera.
E meno male! Perchè anche qui non mancano accuse di cadute nella banalità convenzionale, di incompatibilità stilistiche, di superficiale
ed edonistica ricerca della bella melodia. Ancora: recitativo banale… volgari
ritmi orchestrali di accordi ribattuti… progressione
volgare… brutale, di gusto
discutibile…
___
Mah, credo che
si possa tranquillamente negare alla Giovanna lo status di capolavoro
senza per questo abbassarsi a simili (abbastanza) gratuite denigrazioni, ecco.
E la più chiara risposta
alle denigrazioni dei critici alla Mila viene proprio dal fronte musicale di
questa produzione scaligera (ieri sera quinta recita - primina del 4 esclusa) e da chi ne è responsabile in-primis: Riccardo Chailly. La cui direzione ha
precisamente trasformato in pregi tutti i difetti attribuiti alla musica: nulla
di ciò che si ode qui è banale, cincischiato, volgare, brutale o discutibile, poiché
tutto ha un senso narrativo assolutamente coerente ed esteticamente nobile. A partire
dalla Sinfonia, che in sé concentra mirabilmente
sia i contenuti pubblici (storici, religiosi) del dramma, sia quelli legati
alla sfera privata ed alla psicologia dei protagonisti. Se devo proprio trovare
un pelo nell’uovo nella direzione del Maestro citerò due, massimo tre
circostanze in cui il fracasso orchestrale ha parzialmente coperto le voci (di
Meli, nella chiusa della cavatina d’esordio, e Álvarez, nelle arie del primo e second’atto). Per il resto, si merita alle mie orecchie un voto fra il buono e l’ottimo. Stesso voto
da attribuire all’Orchestra, che ha risposto proprio come un unico strumento
alle sollecitazioni di Chailly.
Anna Netrebko non avrà un
timbro di voce dei più gradevoli (quando sale agli acuti) ma la facilità con la
quale supera gli ostacoli di una tessitura massacrante (nell’estensione e nelle
perorazioni a voce piena, vedi finale terzo) e la potenza del suo strumento,
che invade anche gli spazi siderali di un Piermarini, fanno di lei una Pulzella di valore assoluto.
Francesco Meli si conferma
tenore di altissima qualità: non una sbavatura sul lato tecnico (intonazione e
aderenza al testo) e grande attenzione a tutte le sfaccettature che la parte di
Carlo presenta a livello di espressività. La voce non ha certo la potenza di decibel della Netrebko e ciò ha
comportato (complice Chailly, come detto) qualche circoscritto problema di
udibilità, ma parliamo di piccoli dettagli che nulla tolgono all’eccellenza
della prestazione complessiva. E qualche attenuante Meli la può vantare a
carico dei registi, che lo costringono a cantare spesso e volentieri sdraiato
per terra, appoggiato su un gomito.
Carlos Álvarez, alla sua seconda prova dopo i forfait iniziali, non ha mancato di portare
il suo contributo di grande esperienza e mestiere: anche per lui vale il
discorso sulla potenza dello strumento fatto per Meli. In ogni caso il suo è
stato un Giacomo più che convincente.
Bene i due comprimari: soprattutto Dmitry Beloselskiy, un efficace Talbot; e poi Michele Mauro, onesto Delil.
L’altro personaggio di importanza capitale è il Coro: e quello di Casoni ha mostrato ancora una volta la sua eccellenza in opere come
questa; sempre compatto e preciso, sia quando si deve far udire – in modo
arcano - cantando fuori scena, sia nelle irruzioni a tutta forza cui è chiamato da Verdi nelle grandi pagine di carattere
retorico.
Insomma, una Giovanna per la quale mi sento di sprecare l’attributo
di superlativa, ecco.
___
Superlativa sul
piano musicale. Quanto ai registi, ciò che compare sul programma di sala sulla
loro concezione dell’opera è talmente contorto e contraddittorio da farli
apparire come due pesci fuor d’acqua che hanno preteso di mettersi a correre in
un autodromo…
Raccontare la
storia di un certo personaggio facendola vivere ad un nuovo soggetto che nulla
ha a che fare con il personaggio in questione, ma che – causa turbe psichiche
assortite - immagina, vorrebbe, millanta, crede o sogna di esserlo, e di lui
(lei) veste i panni, è idea tanto geniale quanto frusta, ma soprattutto
estremamente rischiosa. Principalmente perché il nuovo protagonista, affinché
tutta l’operazione abbia un senso qualsivoglia, deve necessariamente comportarsi in modo difforme dall’originale, e
l’ambiente (materiale e umano) in cui esso si muove deve necessariamente essere diverso da quello in cui si muove l’originale.
In caso contrario l’idea registica va subito a meretrici, chè si riduce allora a
far scimmiottare ad alcune controfigure le stesse gesta del protagonista
originale e di chi gli stava attorno, dando luogo ad una semplice, banale,
stupida e soprattutto peggiorativa
imitazione, o al massimo ad una parodia.
Ed è proprio ciò
che succede con questa regìa, che invece di aggiungere valore ad un’opera che
ne avrebbe (secondo i registi e gli esegeti con la puzza al naso) assai poco,
finisce per sottrarre valore ad un’opera che non è assolutamente la ciofeca che
costoro vorrebbero dipingerci. Insomma: ai due registi non è parso vero di
poter sfruttare a proprio vantaggio tutte le facili stroncature di cui è fatto
oggetto da sempre l’originale (il testo di Solera, ma anche la musica di Verdi)
ed hanno quindi avuto buon gioco nel decidere – per loro stessa ammissione – di
cambiargli i connotati! Permettendosi
quindi di sbeffeggiare non solo il Solera, ma anche il Verdi, che il libretto
di Solera aveva evidentemente apprezzato (e sappiamo quanto il cigno di Busseto fosse esigente in
fatto di livello estetico dei testi da musicare.) Purtroppo per loro, non siamo
ancora arrivati ad accettare che il testo
e la musica
originali vengano anch’essi modificati in relazione al Konzept registico, cosicchè i poveri registi sono costretti
comunque con l’originale a farci i conti: e da qui nascono un’infinità di
incongruenze e di stupidaggini, che finiscono per rendere il soggetto da loro
manipolato ancor più criptico e paradossale di quanto l’originale non venga da
loro dipinto.
Nel soggetto di Solera-Verdi il privato dei personaggi (con tanto di rapporti conflittuali e/o amorosi, di sentimenti e ipocrisie, di egoismi e pregiudizi e di schizofrenie assortite) occupa di certo una posizione preminente, ma non esclusiva, dato che si inserisce in un pubblico rappresentato dallo scenario politico della guerra dei 100 anni. Certo, l’opera non vuole essere un testo di storia per le scuole medie, nondimeno la Storia (per quanto falsificata, proprio a partire dal dramma di Schiller cui si ispirò Solera) ne è parte integrante e irrinunciabile, coinvolgendo comportamenti di popoli, eserciti, sovrani e comandanti (quindi testo e musica di cori e singoli). Così come la Religione, che mette il naso sia nel privato che nel pubblico e condiziona credenze, costumi, giudizi, e quindi comportamenti (leggi sempre: testo e musica) degli individui e delle masse. Insomma, accanto a quelli di natura privata e personale, gli aspetti relativi a tematiche di natura pubblica (politica, religiosa) sono fondamentali nell’originale di Solera-Verdi, dove l’individuo (tutti i protagonisti) opera e si muove all’interno di una società di cui subisce i vincoli e con le regole (politiche, religiose) della quale si deve continuamente confrontare. (È vero o no che si parla di Giovanna come di un passaggio che avvicina Verdi al GrandOpéra meyerbeeriano? e ci sarà pure un motivo…)
Ebbene, tutti questi aspetti vengono distorti e ridotti a parodia dall’idea dei registi di mettere al centro della loro messinscena nemmeno più una persona, ma addirittura la sua patologia: ecco allora che tutto quanto ruota intorno a quella persona perde totalmente di pregnanza e persino di significato, essendo stato degradato a pura proiezione del subconscio di un individuo malato di mente: ciò che rimane allo spettatore è il racconto di un caso clinico più o meno interessante o disperato, ma nulla più.
Ecco, ciò che lo spettatore
fatica a comprendere sono le due trasformazioni della figura del padre (andata
e ritorno, fra realtà e sogno della figlia). La prima è appena-appena
percettibile allorquando si rialza il sipario (che durante la Sinfonia si era
già alzato e poi riabbassato per mostrarci l’ambiente ottocentesco dove
Giovanna malata è assistita dal padre): qui si odono i cori (nascosti in
penombra dietro una vetrata) e poi qui arriva il dorato Re Carlo. Ebbene, del
padre (vero) di Giovanna si intravede solo un braccio sporgente da una poltrona
che dà le spalle al pubblico e sulla quale lui è evidentemente addormentato, poiché
d’ora in avanti sarà anche lui parte delle allucinazioni di Giovanna. Ma mi
domando quanti abbiano potuto afferrare questo dettaglio fondamentale della concezione
registica. Peggio ancora la scena finale, dove si torna alla realtà di Giovanna
malata e morente: qui testo e musica costringono i registi a far convivere la
realtà (la poveretta assistita dal padre) con la fantasia: Re Carlo che assiste
di persona, dovendo cantare insieme
ai due e agli spiriti. Insomma, un bel… risotto.
Ebbene, tutti questi aspetti vengono distorti e ridotti a parodia dall’idea dei registi di mettere al centro della loro messinscena nemmeno più una persona, ma addirittura la sua patologia: ecco allora che tutto quanto ruota intorno a quella persona perde totalmente di pregnanza e persino di significato, essendo stato degradato a pura proiezione del subconscio di un individuo malato di mente: ciò che rimane allo spettatore è il racconto di un caso clinico più o meno interessante o disperato, ma nulla più.
Emblematica
della confusione generata nello spettatore dall’idea registica è la figura di
Giacomo. Al quale i registi sono costretti (dal libretto di Solera che loro non
si azzardano a modificare) a far assumere il magico ruolo di intermediario fra
la realtà - di metà ‘800, dove in questa produzione è ambientata l’opera - e le
fantasie della figlia (epoca 1429-31). Lui è infatti il padre sano della falsa
Giovanna, malata di mente, quindi è chiamato contemporaneamente a prendersi cura
della salute della povera figlia, ma anche a tenerle bordone diventando
protagonista delle sue allucinazioni: andando a trattare per consegnarla agli
inglesi di Enrico VI; poi accettando di svergognarla pubblicamente davanti a
Carlo VII a Reims; infine consentendole di compiere la sua ultima impresa
guerresca.
E poi la Madonnina (che te brilet dè luntan…): i registi ne mettono una statuetta di
cartapesta (o di legno o coccio) da giardino (o presepe-gigante) in braccio a
Giovanna, che se la porta dietro e poi la lascia al proscenio, sempre a portata
di… sguardi del pubblico. Ecco, questa sarebbe anche un’idea condivisibile (a
parte le dimensioni esagerate…) stante la devozione che la Giovanna di Solera
(così come quella di Schiller) ha per la Vergine Maria, dalla quale ha avuto
l’imbeccata per… arruolarsi. (Nella realtà la pulzella aveva invece ben tre sponsor, fra arcangeli e sante.)
Però attenzione: in Solera (non in
Schiller, ma qui chi fa testo, col
permesso dei registi, è di diritto il librettista!) la Madonna è anche
l’imbeccatrice di Re Carlo! Che si mostra a lei devoto altrettanto, se non più,
della pulzella. E allora ecco che i registi hanno dimenticato di mettere in
braccio al reuccio un’altra madonnina, un po’ diversa però da quella di
Giovanna. Sì perché avrebbe dovuto avere un manto recante la union-jack, visto che ha ordinato a
Carlo di arrendersi all’albionico invasore, cedendogli gentilmente il trono! La
madonnina di Giovanna andava a quel punto rivestita con il tricolore, avendo
manifestato invece patriottismo per la Francia. Poi, alla fine del primo atto,
Carlo avrebbe dovuto strappare il manto traditore alla sua madonnina, e
rivestire anche quella con il tricolore, oppure buttarla direttamente in un
cassonetto per trastullarsi anche lui con quell’altra, da lì in avanti. Sarebbe
stato un modo memorabile per spiegare al pubblico un aspetto della vicenda
(secondo Solera) che viene normalmente ignorato e che soprattutto i registi
hanno ignorato: una chiarissima allegoria dell’intreccio politica-religione,
una delle problematiche capitali di tutta la storia europea dal medioevo ai
giorni nostri…
Criticabili poi
alcuni dettagli della messinscena. Mi limito a citarne solamente uno per tutti:
mostrare scene cruente di battaglia contraddice
spirito e lettera del libretto e della musica, nei quali esse vengono relegate
a pochi accenni fatti da Giovanna alla fine del primo atto, o dagli inglesi
all’inizio del secondo, o ancora da Giacomo con la sua cronaca nel finale.
Tuttavia, quali che fossero le motivazioni (la censura magari, ma più verosimilmente
i canoni estetici che il melodramma si auto-imponeva a quei tempi) sta di fatto
che Solera-Verdi si guardarono bene dal mettere
in mostra la benchè minima violenza o crudeltà. Che qui invece ci vengono
propinate a piene mani alla fine del primo atto, compresa la vista di Giovanna
che dà il colpo di grazia - calandovi nel petto a due mani e in modo invero
orripilante il suo spadone - ad un soldato nemico già atterrato e indifeso.
___
Che dire? Che ancora
una volta si sono buttati soldi del contribuente per mettere in piedi un
allestimento tanto strampalato quanto pretenzioso. Una regìa di quelle che i
soliti con la puzza al naso chiamerebbero museale
avrebbe garantito alla produzione un price/performance
assai migliore.
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