Ieri sera quinta rappresentazione dell'opera che ha inaugurato la stagione della Scala, tornata – sul fronte musicale - in amministrazione controllata, dopo anni di allegra anarchia. Chissà se Barenboim, al momento di proporre (o decidere) l'apertura della stagione 11-12, già aveva in cuor suo maturato l'intendimento di accettare l'investitura formale a Direttore musicale del teatro… fatto sta che 4 delle 11 rappresentazioni del Don Giovanni, quelle di gennaio, saranno dirette da un ex-clarinettista dei Berliner, smile!
Il Daniel, che già non aveva digerito bene quel troppo lento piovutogli addosso a SantAmbrogio, ha se possibile rincarato la dose, allascando ancor più i tempi, in certi momenti fino a livelli insopportabili. Però il pubblico di ieri non ha fatto storie, buon per lui. L'orchestra non ha demeritato, ma se il Kapellmeister, alla fine dei due atti, si ferma per due minuti a discutere con la spalla come farebbe dopo o durante una prova… non mi pare un buon segno.
Quasi all'ultimo momento (molti lo scoprono dall'annuncio dei telefonini) si viene a sapere che la bella e famosa Anna non ci sarà, colpita da un'influenza che deve avere uno strano decorso pianificato: a letto il 20, a teatro il 23, di nuovo a letto il 28! Quindi due dei principali protagonisti del primo cast mancano (Mattei però era programmaticamente a riposo). Al loro posto Tamar Iveri e Ildebrando D'Arcangelo.
La prima non è la Netrebko ma, almeno rispetto a quanto udito in TV il 7, non l'ha fatta poi troppo rimpiangere (buona notizia per lei, o grama per la super-star?) Voce di buona profondità e gradevole timbro. D'Arcangelo mi è abbastanza piaciuto, peccato che la sua voce – assai cavernosa - sia molto più adatta al Commendatore che al Don (smile!) Anche lui, sempre rispetto alla ripresa TV, non mi ha fatto più di tanto rimpiangere Mattei. Per entrambi discreto successo e un paio di timidi applausi a scena aperta (in tutta la serata questi sono stati erogati con il contagocce e a volume ridottissimo).
Bryn Terfel si conferma (ai miei occhi-orecchi) un Leporello molto volgare. Il che è assai appropriato al personaggio, sul piano attoriale, un filino meno su quello del canto!
Barbara Frittoli è stata la trionfatrice della serata, anche se la voce, nella banda alta, ha più di un problema, soprattutto nei passaggi veloci, meglio sulle note tenute.
Di Giuseppe Filianoti mi vien da dire: senza infamia e senza lode. Rispetto al 7 in TV mi è parso meglio in forma e meno in difficoltà.
Anche Anna Prohaska deve aver fatto progressi: ieri non mi è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico alla fine l'ha accolta con calore.
Invece Štefan Kocán mi ha lasciato ancora perplesso, una prestazione piuttosto incolore, voce sgradevole e poco penetrante.
Kwangchul Youn mi era parso meglio in TV, ieri ha lasciato un pochino a desiderare, persino con qualche problemino di intonazione, m'è sembrato.
In definitiva, una serata che ha galleggiato sul livello di sufficienza, che per il teatro più importante d'Italia non è un gran merito, diciamolo.
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Ma prima che sul fronte musicale, questo DonGiovanni ha destato – e non si sono ancora sopite – un sacco di polemiche e diatribe sull'allestimento di Carsen (che per la verità a SantAmbrogio è stato buato sì, ma neanche troppo smaccatamente). Ormai ci manca solo che si indicano concorsi a premi (primo premio: una sua foto con dedica) per chi propone la migliore decriptazione delle intenzioni del regista, spiegando agli ingenui, nel modo più convincente, il significato dello specchio ondulante, o dell'uso delle quinte scaligere, o del colore rosso, o delle passeggiate di personaggi in platea, o dei continui cambi d'abito che sono disseminati in ogni scena. Chi sperasse di trovare qualche interessante indizio nelle Note di regìa - ben quattro pagine del programma di sala – rimarrebbe purtroppo deluso. Poiché lì si fa riferimento in modo particolare, per non dire esclusivo, a come interpretare la personalità dei diversi protagonisti (che è effettivamente uno degli aspetti principali di una messinscena) : così vien detto che DonnaAnna è sicuramente (e non solo probabilmente) una donna reprensibile e irresistibilmente attirata dal Don (però Carsen ammette che gli risulta difficile capire perché poi lo smascheri pubblicamente e racconti a DonOttavio i fatti di quella notte). Il quale DonOttavio, non già un fustigatore di costumi e paladino dell'onore e della rettitudine, sarebbe in realtà, secondo Carsen, un epigono un po' frustrato, e segreto ammiratore del Don. Di DonnaElvira leggiamo che, se il Don si macchia di qualche eccesso, lei… del doppio! Quanto al protagonista, sarebbe un tipo che non riconosce legge né religione, pronto a sfidare qualunque potere, persino la morte (che lui invita nientemeno che a cena) ma soprattutto un esistenzialista che non merita per questo l'inferno.
Insomma, più o meno ciò che Carsen ci fa vedere. Ma si sa che oggi la rappresentazione di un'opera – soprattutto se è un famosissimo capolavoro – mica può limitarsi a mettere in scena ciò che si legge su libretto e partitura: effettivamente i testi son quelli e le note anche, ma il gran divertimento del pubblico mica viene da lì (roba vecchia, vista e rivista in tutte le salse) no, viene dalle domande che la messinscena suscita nella testa dello spettatore, che sarà tanto più soddisfatto e gratificato, quanto più dovrà pensare - durante lo spettacolo e poi per interi giorni e notti insonni - al significato profondo che il regista ha magicamente saputo cavar fuori da quella storia trita e ritrita.
Ecco quindi che Carsen ci stupisce con trovate quali lo specchio gigante, i protagonisti che si aggirano fra il pubblico, ed entrano o escono dalla scena passando da platea e palchi, invece che dalle quinte, e una serie infinita di… quinte finte che paiono riprodursi per partenogenesi. E subito noi spettatori cominciamo a pensare, pensare, pensare… a problematiche e concetti legati ai rapporti fra realtà e finzione (anzi, fra realtà reale e virtuale!) fra teatro e società, fra artista e pubblico. E purtroppo nelle Note di regìa non troviamo suggerimento alcuno che ci guidi, chè il regista – un poco sadicamente - non vuol privarci del gusto e del bello della ricerca della spiegazione più centrata dei suoi messaggi subliminali. Peccato che, tutti impegnati a pensare, magari ci lasciamo sfuggire la bellezza di qualche passaggio musicale di un tal Mozart (o al contrario, scambiamo per canto e suono celestiali anche le stonature più macroscopiche di qualche cantante e i biascicamenti dell'orchestra)… pazienza, tanto siamo venuti a teatro per fare esercizi di pensiero filosofico, mica per goderci un'opera immortale!
Personalmente dichiaro il mio completo disinteresse per questo secondo piano di lettura delle opere, che trovo non solo estraneo alle finalità del teatro musicale, ma spesso addirittura deleterio, in quanto finisce per adulterarne e contraffarne i capolavori.
Torniamo ai personaggi di Mozart e DaPonte. Che da duecento anni ci si accapigli sulla figura di DonnaAnna (sgualdrina di buona famiglia o integerrima figlia di hidalgo) è una delle prove della genialità del librettista (ma anche del compositore, che ne perfezionò il testo). Massimo Mila, nelle sue lezioni sull'opera, raccolte in preziosissimo libricino, ci dà conto delle due diverse scuole di pensiero: quella colpevolista, che fa capo a E.T.A.Hoffmann, e quella innocentista, che ha il suo paladino in Hermann Abert. Mila sembra tiepidamente propendere per la tesi colpevolista, ma non è questo il punto. Ciò che lascia preoccupati è invece la conclusione che lui paventa, cioè che inevitabilmente il regista sia portato a fare una scelta secca fra le due ipotesi, e quindi ci presenti in modo chiaro e netto una delle due possibili DonnaAnna (cosa che puntualmente fa Carsen, colpevolista convinto, e per nulla innovativo nella sua scelta, peraltro).
Ecco, credo personalmente che questa sia la più grande sciocchezza che un regista possa fare (qualunque delle due versioni ci presenti). In realtà ciò che dovrebbe arrivare allo spettatore (secondo DaPonte-Mozart, attenzione, basta leggere il libretto e ascoltare la musica!) e permanervi nella mente, è precisamente il dubbio sulla vera natura della donna, poiché questo è uno degli aspetti che fanno dell'opera un capolavoro. È ancora Mila a concludere mirabilmente sul punto: (…) pensare che DonnaAnna sia stata in qualche modo bruciata dalla fiamma erotica di DonGiovanni (…) non è proibito: la musica lo sopporta, e certe situazioni del dramma sembrano quasi suggerirlo: la complessità del personaggio ha tutto da guadagnarci. Chiaro, Carsen? Allo spettatore dovrebbe arrivare la complessità del personaggio, non la sua brutale semplificazione!
Come è stato giustamente scritto, mentre Le Nozze di Figaro è un'opera solare, trasparente, dove tutto – oltre ai sentimenti, anche le burle, le trappole, le trame, i travestimenti - viene sciorinato al pubblico dalla A alla Z e dove allo spettatore non resta che pregustare il come andrà a finire, godendosi quella mirabile scena degli equivoci che è il finale dell'opera, invece il DonGiovanni è un'opera dove tutto è avvolto nell'incertezza e nella nebbia, dove ogni vicenda presenta aspetti equivoci e mille diverse possibili interpretazioni, e dove quindi anche i personaggi principali – che di quelle vicende indecifrabili sono protagonisti – ne escono con una caratterizzazione non univoca, o ambivalente, a sua volta indecifrabile. E questo - di lasciare lo spettatore nel dubbio, se non addirittura nell'ansia di quali siano la verità vera e la realtà reale – è ancora una volta il più gran pregio dell'opera (…sublimemente incompiuta, come ebbe a dire Gavazzeni) che si perde totalmente quando il Carsen di passaggio pretende di presentarci le sue personali certezze. (Analogamente al finale indecifrabile del Così, che purtroppo troppi registi che si reputano geni si ostinano a decifrare, privandolo di tutta la sua straordinaria carica di ambivalenza.)
Questo discorso non vale solo per DonnaAnna, ma principalmente per lo stesso protagonista. Nel tempo scenico dell'opera (comunque lo si calcoli, ore o giorni o settimane) il Don ha o prospetta rapporti, diciamo così, orientati alla conquista, o potenzialmente sfocianti in conoscenza biblica, con sei donne. Questo se si escludono le ben 10 (in lettere: una decina) di femmine che il Don preannuncia a Leporello per la messa in lista all'indomani (Ah! la mia lista doman mattina d'una decina devi aumentar) ma di cui null'altro veniamo a sapere. Per il momento escludiamo anche DonnaElvira, di cui il Don è diventato apparentemente preda, da predatore; negli altri cinque casi l'esito degli approcci del protagonista resta – per precisa volontà di DaPonte-Mozart – avvolto nella più totale incertezza. Si è già detto della vicenda riguardante DonnaAnna, di cui ci viene presentato soltanto l'epilogo, che si presta ad interpretazioni addirittura antipodiche. Poi abbiamo una misteriosa dama della quale il Don parla a Leporello nella quarta scena: Sappi ch'io sono innamorato (sic!) d'una bella dama; e son certo che m'ama. La vidi, le parlai; meco al casino questa notte verrà... Domanda: qualcuno sa come andò a finire? Nessuno, nemmeno Leporello e meno ancora DaPonte! Vediamo che accade con Zerlina: il Don la approccia per ben tre volte: dapprima pare aver facilmente partita vinta, dato che la ragazza – per leggerezza, vanità, o perché ben conscia della sopravvivenza dello jus primae noctis – si lascia facilmente trascinare verso il casinetto. Ma arriva DonnaElvira a rompere le uova nel paniere. Nel secondo caso il Don ha sottomano la ragazza nel giardino, ma scopre nei pressi Masetto, a cui la deve riconsegnare. Durante il ballo finalmente il Don prende Zerlina e se la porta via in qualche stanza, chiudendo a chiave! (come deduciamo dal fatto che gli altri dovranno abbattere la porta). Che succede là dentro? Possiamo fare mille ipotesi, una più gratuita dell'altra. In quei pochi (ma solo per i tempi musicali) istanti prima che la porta venga sfondata, che è accaduto? Abbiamo sentito Zerlina urlare, poi la vediamo fuggire (vestita? nuda? o in sottoveste, come ce la mostra Carsen?)… insomma siamo di fronte ad una scena non poi troppo diversa dalla prima (protagonista DonnaAnna): come la mettiamo? Ci sono invece altre due donne che non si vedono, non parlano e menchemeno cantano. La prima è la cameriera di DonnaElvira: dopo che ha sistemato Masetto per le feste, il Don scompare per ricomparire solo più tardi al… cimitero. Che ha fatto nel frattempo? La cameriera è scesa giù per soddisfare le di lui smanie (come sostiene Carsen, mostrandocela tutta nuda al fianco del Don) oppure lui è salito da lei? Oppure… oppure? Insomma, il Don ha consumato o no? Mai lo sapremo e mai lo dobbiamo sapere, questo è ciò che gli autori hanno deciso. Proprio nel cimitero il Don racconta gli ultimi avvenimenti a Leporello: non fa alcun cenno alla cameriera (ma come, Carsen: non dovrebbe subito notificarne l'avvenuta conquista al servo-contabile?) per conquistare la quale aveva pur messo in atto un'operazione di commando in piena regola, con il pesante coinvolgimento del servo medesimo e poi di tutti gli altri personaggi. Invece il Don racconta di una ragazza incontrata per strada che addirittura gli è saltata al collo, avendolo scambiato (dagli abiti) per Leporello. Lui (il Don) ci ha provato, lo afferma lui stesso, ma con quale esito? La ragazza ha chiamato gente e lui è scappato a nascondersi nel cimitero. Anche qui: consumazione o andata-in-bianco?
Per farla breve, nel tempo scenico non abbiamo evidenza certa (5 su 5) che il Don abbia raggiunto il suo obiettivo (cosa di cui pare invece certissimo – beato lui - Carsen, come minimo in 2 dei 5 casi). Nel sesto caso (DonnaElvira) il protagonista addirittura le inventa tutte per liberarsene, quando non gli sarebbe difficile approfittare della situazione per una… replica (ma Leporello che farebbe? aggiungerebbe una tacca, o mezza, o niente? smile!) Ma allora, attenzione, non è che il Don è un tale che parla e parla, ma solo millantando? E le 2065 prede poste in lista dal suo biografo, non saranno per caso tutte vanterie e millanterie anche quelle? Ohibò, vuoi vedere che DonGiovanni Tenorio è una checca? O come minimo un impotente? (Anche questa non me la sto inventando io, e qualcuno l'ha già anche messa in scena). E la cui apparente fame insaziabile di femmina nasconde l'ossessione e il senso di colpa per questa sua diversità? E quindi: l'atteggiamento degli altri personaggi nei suoi confronti non rappresenterebbe per caso l'ipocrita condanna di tutti i diversi – peccatori per definizione - da parte della società benpensante? Illazioni legittime, ma ancora una volta prive di supporti di evidenza, e costruirci sopra una messa-in-scena equivale a distruggere il capolavoro originale. E allora domandiamoci finalmente: qual è o quale dovrebbe essere il compito di una regìa seria ed efficace? Presentarci il prodotto della volontà e della vision degli autori, o la gratuita dietrologia del regista? Personalmente non ho dubbi sulla risposta.
A proposito di regista: si potrebbe immaginare che il Don di Carsen sia il regista (lo stesso Carsen, per caso?) dello spettacolo (teatro-nel-teatro) che ci viene presentato. E proprio ciò che vediamo nel secondo atto (il Don seduto con la sua sgualdrinella nuda fuori dal palcoscenico, ad osservare - e dirigere, e applaudire - ciò che gli altri personaggi recitano sulla scena) potrebbe rendere plausibile questa ipotesi. Che sembrerebbe confortata dallo stesso Carsen, nelle sue Note di regìa, dove scrive che il Don è uno (…) veloce di mente, che controlla tutti, precede tutti, che è sempre davanti a tutti. Tutto, insomma, gli gira attorno. Su quest'ultimo punto, come non concordare? Che tutti i personaggi siano contagiati dal Don è un fatto che la musica, più ancora che il libretto, ci chiarisce in modo inequivocabile, laddove i temi – e ritmi e stilemi musicali - di tutti i personaggi sono in qualche modo debitori di quelli del Don (ricordo al proposito un vecchio quanto fulminante saggio di Roman Vlad, pubblicato quasi 25 anni orsono sulla da tempo defunta Musica&Dossier, dove l'argomento veniva sviscerato in modo mirabile). Del resto già Fedele D'Amico ci scrisse cose acutissime: In tutti scorre qualcosa del sangue di DonGiovanni: anche se ognuno lo assimila ed elabora in senso diverso e, al limite, opposto. Qui è l'arcano supremo di quest'opera (…) di qui il suo fascino unico. Ma il Don come regista? Credo che questo sia un clamoroso fraintendimento della sua personalità: che non è quella del manager (colui che comanda e impone comportamenti ai suoi sottoposti, obbedienti per contratto) ma quella del leader (colui che trascina con il comportamento suo i suoi pari, provocando in loro emulazione o rifiuto).
Altro tasto dolente, il finale. Anzi, i due finali di Mozart-DaPonte. Nel primo abbiamo il confronto drammatico fra il mito - o la quintessenza, o l'archétipo - della dissolutezza, del libertinaggio, del rifiuto di ogni regola, e un altro mito - o quintessenza, o archétipo – dell'irreprensibilità, del rigore morale e del rispetto della legge. Il Don soccombe, ma è davvero condannato? Giustizia è fatta? Il dissoluto punito? Domanda: perché allora il cupo, infernale RE minore che caratterizza l'intera scena si trasforma, precisamente nelle ultime tre battute, nell'accordo perfetto di RE maggiore? E quella tonalità vuole indicarci il DNA del Don, o piuttosto la raggiunta pace della società, dopo che il virus che l'aveva contagiata è stato finalmente neutralizzato? Domanda che deve restare senza risposta, o meglio: a cui ciascuno di noi può dare la risposta che crede, ma non deve essere certo il regista a proporla esplicitamente, altrimenti toglie allo spettatore tutto il sapore di questa mirabile ambiguità. Nel secondo finale abbiamo i sei sopravvissuti che presentano la morale della favola. Ma che fine fanno, senza il Don? Monasteri, ritiri spirituali, prosaica vita coniugale e ricerca di un nuovo padrone da servire: è il trionfo del bene e della giustizia, o non è questo, forse, l'inferno, a dispetto del RE maggiore che chiude l'opera? Ancora una volta: ciascuno di noi può pensare ciò che crede, ma è ridicola la pretesa di Carsen di spiegarci tutto lui, facendo resuscitare il Don e precipitare gli altri nel fuoco. Così si distrugge tutto il fascino di questo capolavoro.
Ma la conseguenza più nefasta di regìe come quella proposta dalla Scala è la totale svalutazione del rapporto musica-testo, che geni come Mozart hanno tanto faticato a valorizzare. Per convincersene basta porsi una domandina semplice-semplice: se per caso, prima che scrivesse la musica, a Mozart fosse stata mostrata la messinscena di Carsen relativa all'apparire del Don e di DonnaAnna, chiedendogli di comporre musica coerente con essa, che avrebbe fatto il Teofilo? Ammesso che accettasse una simile proposta, che musica avrebbe scritto? Per me, non una sola nota di quelle che lui ha composto! La sua musica c'entra proprio come i cavoli a merenda con lo scenario post-coitum che ci presenta esplicitamente Carsen (avete presente – come possibile riferimento - l'apertura del Rosenkavalier, tanto per intenderci?) E allora, se c'è abissale incongruenza fra ciò che ascoltiamo (parole e soprattutto musica) e ciò che vediamo, che si fa? Diamo ragione a Carsen e concludiamo che DaPonte e Mozart erano dei coglioni? It's the music, stupid!
Persino l'Ouvertura sarebbe stata diversa. A parte il fatto che sarebbe tradizionalmente da eseguirsi a sipario rigorosamente chiuso, in modo che lo spettatore veda con l'orecchio – senza distrazioni o suggerimenti - ciò che lo aspetta nel seguito, all'inizio dell'esecuzione Carsen ci mostra il protagonista che arriva dal corridoio di platea, sale al proscenio e strappa il sipario, specchiandosi nel pubblico che affolla il teatro. Questa originale apertura si conclude con la calata di un altro sipario, di cartapesta, guarda caso sulla battuta 31, dove per l'appunto inizia il Molto allegro in RE maggiore, che ci presenta musicalmente DonGiovanni, con la sua esuberante personalità. Quindi il protagonista, che DaPonte-Mozart avevano deciso di far comparire materialmente in scena più tardi, e in modo non propriamente nobile, mentre fugge inseguito e preso ad ombrellate da una tizia che ha cercato di violentare, Carsen ce lo mostra subito in tutto il suo spavaldo splendore. Dimenticando che in quelle prime 30 misure dell'Ouvertura, in Andante, Mozart ha voluto dipingere musicalmente la fotografia del Commendatore, che in tutta l'opera rappresenta l'unica entità che si contrappone metafisicamente (e musicalmente!) più che materialmente, al Don. Peccato che Carsen abbia impiegato questa fotografia sonora come passerella calpestabile e calpestata dal Don, nella sua rincorsa verso il proscenio. E così il Commendatore – entità chiave dell'opera – qui passa praticamente inosservato (anzi, musicalmente avvilito e calpestato, sarebbe il caso di dire).
Un ultimo caso esemplare: la scena della festa (che oltretutto non è farina del sacco di Carsen). Come ci viene presentata sarà anche bella in sé da vedersi, ma distrugge alla radice il valore della strepitosa invenzione mozartiana – una delle cose più straordinarie di tutto il teatro musicale - delle tre diverse danze che si svolgono contemporaneamente: è vero che al centro della scena si balla la Contradanza, ai lati il Menuetto e al proscenio la Teitsch, ma in pochi sono in grado di distinguerli, dato che tutti – personaggi e comparse – sono vestiti coll'identico rosso-scala e per di più son tutti mascherati, compresi gli orchestrali (cosa invero gratuita, chè in maschera devono essere solo DonnaAnna, DonOttavio e DonnaElvira). Così ci perdiamo del tutto il significato (non solo estetico, ma addirittura politico!) degli accoppiamenti per le danze.
Insomma, una regìa genialoide quanto velleitaria, che potrà accontentare chi va a teatro per godere di qualche bizzarra trovata, o per meditare sulle profondità siderali del pensiero del regista. A Mozart rende di certo un pessimo servizio.
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2 commenti:
Buongiorno!
Ero alla Scala ieri sera dopo esserci stata il 16, quest'opera è tra le mie preferite e sono una lettrice e rilettrice del meraviglioso saggio di Mila. Parlando di regia, la sua analisi mi ha tolto le parole di bocca. Aggiungerei qualche dettaglio veramente buffo (in senso poco nobile), come ad esempio il vizio di far salire la gente in piedi sulle sedie e tutta quella circolazione del programma di sala sul palcoscenico. Mi è capitato di assistere a versioni registicamente ben più "estreme" ma allo stesso tempo, paradossalmente (o forse no), più rispettose di musica e libretto; e a versioni in forma di concerto più curate nel tratteggio dei singoli personaggi. Grazie, continuerò a leggere questo blog. Laura
@Laura
Intanto grazie per l'apprezzamento! Hai ragione: spesso ci sono allestimenti (apparentemente) pazzi che invece centrano l'obiettivo di farci divertire senza stravolgere la natura dell'opera rappresentata: il Ring della Fura ad esempio... Invece purtroppo ci sono messeinscena che magari sono pure dei capolavori in sè, ma a spese del totale stravolgimento dell'originale. Mi viene in mente, proprio di Carsen, l'Alcina vista tempo fa alla Scala: uno spettacolo eccellente... peccato che dell'opera di Händel non ci fosse nulla, nemmeno tutta la musica!
Ciao!
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