Datosi che il glorioso Teatro Smeraldo non ne propone più ormai da qualche lustro, La Scala ha pensato bene di offrire un po' di avanspettacolo, presentando il DonGiovanni di Mussbach.
Di Mozart! mi correggerete.
No no, di Peter Mussbach. Perché è della regìa che conviene subito dire. Il nostro è – attenzione – un uomo di cultura (ha insegnato o insegna regìa teatrale in diverse Università) mica un ciarlatano alla Calixto Bieito (tanto per intenderci). Ma anche lui, purtroppo, predica bene e razzola male. Oppure è vittima del dilemma fra due estremi: allestire uno spettacolo che sia facile da capire, da parte del supposto popolo-bue che frequenta i teatri, o invece cercare di far emergere il vero sostrato dell'Opera, quello che si cela sotto la sua crosta esteriore, ma così rischiando di non essere capito – sempre da quel popolo-bue - e di incappare in un flop. Orbene, il regista ha chiaramente deciso per la prima soluzione. E così ha messo in scena uno spettacolino piacevole, quanto quelli che si potevano vedere al vecchio Smeraldo.
Vieni avanti, cretino! Ecco, i non pochi recitativi con protagonisti DonGiovanni e Leporello sono tutti su questo stile. Compreso l'impiego di urlacci al posto del cantato nel quale Mozart aveva posto altrettanta cura che nelle arie.
Nel DonGiovanni aleggiano eros e sesso, giusto? Infatti ne vediamo parecchio, però tutta roba innocente, non vietabile ai minori di 14: strusciamenti, sbaciucchiamenti, qualche posizione copulativa, una mano infilata sotto una gonna… insomma nessuno scandalo (appunto, Mussbach non è Bieito). Così però non si capisce perché alla fine il povero Don debba andare all'inferno, e perché soltanto lui. Ma in questo tipo di varietà non si deve far caso al libretto e ai suoi reconditi significati, vero?
Nel DonGiovanni è rappresentata una società rigidamente divisa in classi? Come no, però ciò accadeva più di 200 anni fa, oggi siamo in democrazia. Così la simpatica DonnaElvira, che bisogna far capire essere una viaggiatrice, si fa un 800Km (da Burgos a Siviglia) in Vespa. E pensare che lei è una nobile! Come minimo, ai tempi nostri, viaggerebbe in Bentley o in Bugatti, o in Isotta-Fraschini. In Vespa, caso mai, dovremmo veder arrivare Masetto, con Zerlina seduta dietro, di traverso. Ma qui siamo allo Smeraldo, non dimentichiamolo! C'è una festa in casa di un nobile, dove sono invitati dei plebei? Perdinci, Mozart ci scrive un pezzo su cui sono stati scritti metri di enciclopedie, con tre orchestre che suonano contemporaneamente tre diverse danze, e con i ballerini meticolosamente accoppiati secondo le consuetudini, ma con qualche rivoluzionaria libertà! Ma non è roba da avanspettacolo, diciamolo pure, e qui basta mostrare un po' di confusione, che va tutto bene!
Bisogna comunque capirlo, il povero regista. Lui mica può – con qualche mossa degli interpreti – spiegarci tutto ciò che è scritto in quintalate di libri sul DonGiovanni. E poi, casomai, toccherebbe al Kapellmeister di rendere chiaro e visibile ciò che il DonGiovanni è, poiché è la musica, molto più che i gesti, a determinarlo. Ma anche lui, il povero direttore, non può mica premettere alla recita una lezione di due ore, leggendo ad esempio l'analisi di Roman Vlad, o capitoli e capitoli di Massimo Mila! Insomma, restiamo con i piedi per terra e accontentiamoci.
Quanto alle scene, è evidente – data la complessità del libretto – che un approccio minimalista rende la vita facile a tutti, compreso il pubblico che non si deve sorbire continue pause e rumori molesti dietro il sipario, per i mille cambi che si renderebbero necessari. Se poi così si perdono piccoli dettagli, quali la spiegazione della troncatura iniziale del minuetto (suonato dall'Orchestra sopra il teatro) chi se ne frega, tanto perché si devono offrire perle ai porci?
Dalla foggia dei costumi si deve dedurre che i responsabili della messinscena considerano il DonGiovanni precisamente un'opera buffa.
Adesso, la musica.
A chi deve esibirsi di fronte ad un uditorio viene insegnato che sono decisivi i primi 7 secondi: se si cattura subito l'attenzione e l'interesse del pubblico, si può sperare di avere qualche successo; se no, l'uditorio è perduto per sempre. Ecco, il nostro Louis Langrée ha clamorosamente ciccato le prime 4 battute dell'ouverture, attaccandole come un Allegro, e mancando del tutto il famoso effetto baratro determinato dalla semiminima che viole, celli e bassi tengono in più, rispetto a violini, fiati e timpano. Fatta la cappella (per giustificare il titolo di maestro di cappella, appunto) il nostro si è alienato per sempre le simpatie del loggione, che lo ha spietatamente buato alla fine.
Erwin Schrott è certamente un Don di grande statura. Sul piano fisico, nessun dubbio. Su quello del canto, io gli darei tranquillamente un bel 7+. Attenzione però: datosi che tutto è relativo, per uno come lui che ha fama (e marketing, e cachet) da 9, significa galleggiare sopra la mediocrità. Applaudito, solo alla fine, ma senza ovazioni, nonostante lui abbia sparato più di un bacio verso il loggione.
Ecco, il Leporello di Alex Esposito è uno dei pochi personaggi che – selon moi – la sufficienza se la è meritatamente sudata (gli darò 7-): discreta impostazione, esperta padronanza del ruolo, a dispetto di una voce troppo chiara. Per lui sì, un'ovazione, oltre all'applauso a scena aperta dopo il Catalogo.
Pure discreti il Masetto di Mirco Palazzi (6-7) e il Commendatore di Georg Zeppenfeld (6+).
L'invertebrato DonOttavio era Juan Francisco Gatell Abre, che ha persino avuto un timido applausetto a scena aperta, dopo la sua Il mio tesoro. E accoglienza discreta alla fine. Per me non troppo meritata (6--).
La DonnaAnna di Carmela Remigio non mi è dispiaciuta in generale (7-). Dopo il Non mi dir un battimano se lo sarebbe meritato, ma non è arrivato, così come freddina (ma non ostile) è stata l'accoglienza dedicatale all'uscita.
Sorpresa lei per prima la Emma Bell (DonnaElvira). A dispetto di una voce indisponente e di chiare manchevolezze, si è avuta un applaus(in)o a scena aperta (Mi tradì) e una calda accoglienza finale. Io invece le rifilo un bel 5.
La Zerlina di Veronica Cangemi senza infamia, né lode: dopo il Batti, batti qualcuno ha cercato di applaudire, ma subito sopraffatto da fischi e buh. Per me era meglio il silenzio e basta (5-6).
Bene il coro di Casoni, una sicurezza.
Al tirar delle somme, uno spettacolo appena appena mediocre, che è – se non proprio la dichiarazione di bancarotta di certi proclami (più che programmi) della sovrintendenza del Piermarini – testimonianza di gestione superficiale, o velleitaria.
E a proposito di programmi, visto che siamo ad un quarto del cartellone 2009-2010 (12 opere in tutto, poi ci sarà la Carmen2) è il momento – per me - di tirare un primo (parziale) bilancio. Che mi sento di giudicare più sul negativo che altro, se l'unica sufficienza complessiva ai miei occhi l'ha meritata un vecchio Rigoletto, dopo una Carmen-disastro e questo inconsistente Don.
Non ci resta che sperare in Janacek, Berg e nel …dio-Wagner!
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