È ancora il Direttore musicale a dirigere l’Orchestra Sinfonica di Milano in un concerto a struttura classica, che presenta tre composizioni che percorrono l’intero ‘800, spaziando da Paganini a Saint-Saëns e passando per Liszt, che fa da filo rosso a collegare gli altri due: poichè dedicò a Saint-Saëns il suo secondo Mephisto-Walzer, ricambiato con la dedica della Terza Sinfonia; fece del violino diabolico (à-la-Paganini) il protagonista del suo primo Mephisto-Walzer; e sul tema paganiniano della Campanella compose uno dei suoi Studi d’esecuzione trascendentale.
Ed
è appunto di Franz Liszt il primo brano in programma: si tratta della
versione originale per orchestra del primo Mephisto Walzer, in
realtà nato come il secondo dei Due episodi dal Faust di Nikolaus Lenau (1859-61)
titolato Der Tanz in der Dorfschenke (La danza nell'osteria del
villaggio).
Il
frontespizio della partitura riporta i versi del capitolo di Lenau. Ad una
festa di nozze Mefistofele, per far conquistare una bella ragazzotta all’arrapato
ma un po’ inibito Faust, si impadronisce del violino di un suonatore e improvvisa
una musica tanto ubriacante e seducente da provocare in tutti la visione di una
scena erotica (ehm, un mezzo stupro…) e, di conseguenza, un’autentica danza orgiastica,
con tanto di urla virili e gemiti femminili. Così anche Faust può godersi la
sua prosperosa brunetta, nei boschi, per l’intera notte…
Il brano presenta quindi, dopo l’introduzione che evoca l’accordatura del violino di Mefistofele, in sequenza e poi in contrappunto, le due componenti della scena: la travolgente e galeotta musica del diavolaccio e i romantici (?) approcci di Faust alla contadinella, fino al canto mattutino dell’usignolo.
Messa
così, si può assimilare questo brano ad uno dei tanti poemi sinfonici in
cui Liszt era maestro: musica ispirata ad un testo letterario (o filosofico).
Ma qui sorge la perenne domanda, cui ciascuno può dare la risposta che
preferisce: per gustarla al meglio, dovremmo aver ben presenti i dettagli dei
riferimenti extra-musicali? E quindi dovremmo conseguentemente aspettarci che
questa musica faccia a noi che la ascoltiamo oggi lo stesso effetto che fece ai
partecipanti alla festa evocata da Lenau-Liszt (?!) Oppure possiamo apprezzare
questa musica di per se stessa, applicandovi i canoni puramente estetici, così
cari ad Eduard Hanslick?
Personalmente tendo a propendere per questa seconda scelta, lasciando strettamente la prima all’ambito del teatro musicale, dove è il testo esplicito a consentire di valutare l’appropriatezza dei suoni di cui il compositore lo riveste.
Nel caso in questione faccio fatica ad attribuire al brano la patente di capolavoro, ecco. Detto ciò, va ancora una volta dato atto a Orchestra e Direttore di aver fatto del loro meglio per valorizzare questa musica, cosa di cui il pubblico ha dato materialmente atto, con meritati applausi.
E
il finale è proprio il movimento più ortodosso, a livello di forma: un Rondo
relativamente semplice: A-B-A-C-A, con ritornello e due strofe. L’iniziale Allegro
maestoso è invece il più distante dalla forma classica, presentando almeno
tre diverse sezioni con motivi che poi non vengono sviluppati in senso classico,
per far posto ad esibizioni virtuosistiche del solista. Il centrale Adagio
(con introduzione mutuata dal Concerto n°24 di Viotti) dopo una cupa introduzione
sfocia in un lungo Lied, caratterizzato da una melodia ripetuta con
sottili variazioni.
È
un violinista concittadino del Tjek, il 56enne Benjamin Schmid, che ce
lo ha porto con una prestazione sensazionale: grande maestria e tecnica
superlativa, arrivata al picco nella cadenza del primo movimento, al termine
della quale è scoppiato un autentico, lunghissimo uragano di applausi. Nulla
dei trucchi paganiniani ci è stato risparmiato: armonici e sovracuti, pizzicati
contemporanei all’arco… insomma una cosa davvero grande e indimenticabile,
coronata poi da un virtuosistico bis.
A parte
il velleitario (e rimasto isolato) tentativo di Berlioz, la Sinfonia era
rimasta per gran parte dell’800 esclusivo appannaggio del mondo musicale
tedesco: dopo l’inarrivabile Beethoven – erede di Mozart e Haydn
- ci avevano provato Mendelssohn e Schumann; poi – dopo mille
esitazioni – l’innovatore-conservatore Brahms (in bellicosa compagnia
del conservatore-innovatore Bruckner); quindi il suo epigono (non
tedesco, ma comunque austro-ungarico-boemo) Dvořák; e infine il russo Ciajkovski,
che portava un poco di Parigi in questo territorio teutonico.
Ecco, Saint-Saëns cercava – soprattutto dopo la batosta militare francese del ’70 - di riportare la Francia alla ribalta (musicale, almeno) proprio in quel campo dove i crucchi spadroneggiavano indisturbati da sempre.
Dopo due tentativi da lui stesso sepolti (e altrettanti nemmeno fatti nascere) arrivò questa Terza Sinfonia (1885) che in realtà, va detto, è rimasta come terza mosca bianca (dopo la Fantastica e quella, piccola e snobbata, di Bizet) nell’intera produzione sinfonica dei galletti d’oltralpe. [Olivier Messiaen, come epitaffio contro Hitler, pensò bene di prendersi una rivincita cumulativa sui tedeschi, con la sua Turangalila, una sesquipedale sinfonia in 10 (in lettere: dieci!) movimenti.]
Tornando a… bomba (!) si tratta di un’opera che personalmente definirei come molto fumo e poco arrosto, nel senso che ha fatto e fa parlare di sé per qualche (apparente) innovazione tecnica e formale: l’organo, ad esempio, appare più come un espediente per fare notizia, che non come strumento che porti un chiaro valore aggiunto alla composizione.
Le
due sole parti in cui formalmente si articola la Sinfonia, in realtà nascondono
a malapena – data la loro interna sdoppiatura – la struttura in quattro,
assolutamente classica, se pur con qualche bizzarria: la mancanza di
ricapitolazione nell’Allegro moderato, con passaggio diretto al Poco adagio
(unico squarcio di vera ispirazione, con l’esordio dell’organo) e la
giustapposizione del finale (Maestoso, dove torna l’organo) all’Allegro
moderato che è di fatto uno Scherzo-con-Trio.
Ma è soprattutto il programma interno dell’opera che ricalca un clichè già visto e rivisto e che ancora si rivedrà in futuro (Strauss e Mahler, tanto per dire…) Quello della luce dopo le tenebre, del paradiso dopo l’inferno, da DO minore a maggiore, come nella Quinta beethoveniana: della morte-e-resurrezione, insomma. E la chiave di questo programma è nientemeno – novità assoluta (!?) - che il Dies irae!
Del quale si ode l’incipit (le prime note) già a battuta 12 dell’iniziale Allegro moderato, esposto dai primi violini, in DO minore:
Poi, dopo numerosi ritorni in sembianze sempre cangianti lungo l’arco della Sinfonia, si ripresenterà alla fine, in un DO maggiore persino grossolano, nell’organo:
[È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata - ma guarda un po' - da Franz Liszt.]
Ancora: prima della pomposa, retorica ed enfatica conclusione dell’opera, ecco il tema riapparire negli archi in forma davvero eroica, nella relativa MIb maggiore:
Insomma, una grandeur francamente degna di miglior causa! Che però l’Orchestra, trascinata dal sempre più entusiasta (ed entusiasmante) Tjek, ci ha permesso comunque di apprezzare per poi ricambiare Direttore e strumentisti con lunghi e ripetuti applausi ritmati. Il Maestro ha infine doverosamente portato alla ribalta l’impeccabile Alberto Gaspardo, protagonista alla tastiera dell’organo elettronico. [A proposito di organi, anni fa la Fondazione aveva lanciato l’idea di farne costruire uno vero per l’Auditorium… ma la cosa si dev’esser persa nella nebbia.]
Nessun commento:
Posta un commento