Ieri pomeriggio
la rivoluzionaria Venezia-di-centro-destra (stra-smile!)
ha ospitato (seconda recita) un altro tipo di trionfo, quello della vivaldiana Juditha.
Questi
spettacoli della Fenice si
inquadrano, insieme a molti altri eventi culturali, nella manifestazione Lo Spirito della Musica di
Venezia 2015 (15/6-26/7) che ha come sottotitolo: Venezia porta d’Oriente: dialogo fra culture. Dialogo? Accipicchia,
quello che succede in questi giorni alle porte di casa nostra pare molto peggio
di ciò che si viveva ai tempi della Juditha. Però una cosa è certa: non risulta
che i levantini (sultani o califfi che fossero) abbiano mai prodotto (per
celebrare vittorie o sconfitte contro l’occidente) opere d’arte paragonabili a
questa di Vivaldi.
E così
abbiamo sistemato la coscienza: perciò tanto vale cominciare dal… sodo. Ecco qua
come il Prete rosso – nel recitativo
accompagnato che apre con Impii, indigni Tyranni - evoca l’attimo fatidico della
decollazione di Oloferne, dopo che Giuditta ha proclamato: Nel tuo nome, o Dio, tronco
la testa. (Oggi
va di moda sostenere che non si può ammazzare in nome di Dio… quando a farlo
sono loro e non noi.) È un furioso
quanto fulminante SOL minore degli archi, che precipita per due ottave piene e
in cui trova posto addirittura - ed appropriatamente, date le circostanze - il Dies-Irae!
Restiamo alla
musica, cominciando con… la Sinfonia! È noto che nessun brano del genere si è
mai trovato (ammesso che Vivaldi ne avesse composto uno) per la Juditha, che
apre invece con il bellicoso coro degli oloferniani, in RE maggiore. Ecco, Alessandro De Marchi, seguendo le orme
di altri prima di lui (ma soprattutto se sue proprie !) ha deciso di aggiungere
in testa all’Oratorio una specie di Sinfonia. Ora, nella produzione di Vivaldi
brani di tal genere abbondano, ma hanno tipicamente una struttura in tre
movimenti (Allegro-Largo-Allegro) e ciò fa subito insorgere il problema di un
evidente pleonasmo fra l’ultima parte della Sinfonia e il coro iniziale
dell’Oratorio, pure in Allegro. Come ha risolto la cosa il Direttore? Riproponendo
ciò che già ha immortalato in disco: ha preso il Concerto RV 562
(che è pure in RE
maggiore) ma escludendo l’Allegro
finale, in modo da ottenere, anteponendolo all’incipit dell’Oratorio, una
specie di Sinfonia. Operazione legittima? Beh, certo non vietata da alcuna
Legge, ma abbastanza gratuita e di efficacia francamente discutibile,
oltretutto non essendo escluso che Vivaldi avesse avuto proprio l’intenzione di
aprire l’Oratorio con il Coro, rinunciando alla Sinfonia.
Per il resto,
De Marchi ha diretto con l’autorevolezza che gli deriva dalla sua lunga
esperienza in questo repertorio. Personalmente giudico fin troppo sostenuti i
suoi tempi, che hanno finito per aggravare i problemi legati alla congenita staticità dell’opera e al suono
particolare degli strumenti, legato al diapason
a 415. Comunque benissimo i Professori della Fenice, con gli strumenti d’epoca
(salmoè in testa) in grande evidenza.
La protagonista Juditha è Manuela Custer,
veterana del ruolo che conosce evidentemente come le proprie tasche. E non ha
tradito la sua fama con un’interpretazione intensa; l’unico appunto che
personalmente le muovo riguarda il volume della sua voce, che non è dei più
robusti e che ne penalizza l’ottava bassa. Potente invece la voce di Teresa Iervolino, un Holofernes tanto
duro guerriero come sdolcinato amante. Vagaus è impersonato da Paola Gardina, un soprano dalla voce piuttosto corposa (lei è di fatto un mezzo…) e
quindi adatta al ruolo: ha interpretato in modo efficace le sue cinque arie e
in particolare l’ultima, davvero indemoniata, che richiede grandissima agilità.
Discreta anche la prestazione di Francesca
Ascioti nel ruolo di Ozia. Però chi, per me, ha svettato su tutte è Giulia Semenzato, una più che
convincente Abra, che ha anche impreziosito con acuti da soprano (la tessitura
è da mezzo…) la sua prestazione. Benissimo anche il coro di Claudio Marino Moretti.
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Vengo
ora alla parte più… ostica (per chi ne è responsabile) dello spettacolo: l’allestimento
registico. A differenza delle cantate
(che hanno sì un soggetto, ma non
hanno una storia da raccontare) gli oratori, oltre che un soggetto presentano
anche una storia, una trama, e ciò spiega perché possano legittimamente
aspirare ad essere allestiti in forma scenica. Per dire: come si potrebbe
inscenare Ein Deutsches Requiem? In nessun
modo, certamente. Mentre invece il Messiah,
per dire, si presta benissimo alla rappresentazione poiché racconta una storia
(e che storia, mezzo Antico testamento!)
Orbene, la
Juditha ha una storia francamente così circoscritta (l’impresa personale della
vedova betuliana) e un’azione così povera (come testimonia la stringatezza dei recitativi, che dovrebbero proprio
servire ad alimentarla) da rappresentare il limite inferiore della possibilità
di messa in scena. Va quindi ascritto a merito dell’equipe di Elena Barbalich l’aver saputo proporre uno
spettacolo intelligente e coinvolgente.
Massimo
Checchetto ha ideato delle scene… vuote (!) Bella fatica, direte voi… no, perché erano
sì vuote (o quasi) ma per essere occupate ora dai cori, ora da elementari
suppellettili (vedi il tavolone da ultima
cena del second’atto) ma soprattutto dalle luci di Fabio Barettin, che riproducevano di volta in volta delle grate,
degli apparati bellici, supportando atmosfere di festa o di dolore. Il piano
dell’orchestra era alzato al livello sala (come in occasione di concerti) e il
palco era a sua volta rialzato di nemmeno un paio di metri; due scale assai
larghe e di moderata pendenza consentivano ai cantanti di scendere fino a
contatto con il pubblico. I costumi di Tommaso Lagattola erano di epoca
indefinita, tranne quelli del secondo atto, che parevano ispirati da quadri
rinascimentali e barocchi.
Elena
Barbalich ha curato i movimenti di singoli e masse con grande equilibrio e
sensibilità, trovando una giusta via di mezzo fra eccessiva ieraticità (tipo
Wilson, per intenderci) ed eccessi di verismo. Insomma: una regìa, la sua,
degna di encomio.
E il pubblico (non proprio oceanico e
smagritosi ulteriormente all’intervallo) ha comunque mostrato di apprezzare
assai questa proposta: frequenti applausi a scena aperta dopo le arie principali e calorosissima
accoglienza finale. Viva Venezia, viva Vivaldi!
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