Ieri il Regio ha
ospitato la terza del Faust di Gounod, nell’allestimento
curato da Stefano Poda con la
concertazione di Gianandrea Noseda. Evidentemente
la berlinese disfatta (peraltro onorevole) dei bianconeri di fronte al Messistofele argentino non deve aver
pesato molto sulle propensioni melodrammatiche dei torinesi, inducendoli a
lasciare pochi spazi vuoti nel loro grande anfiteatro. Oppure è il caldo
infernale che gli ha consigliato un pomeriggio con l’aria condizionata compresa
nel prezzo del biglietto.
Si sa che Faust
fu a più riprese rivisto e corretto dall’Autore, che era sempre disponibile ai
più prosaici compromessi pur di avere le sue opere eseguite. E così non ci si
deve scandalizzare più di tanto per tagli o varianti apportate per la
messinscena di turno. Nel nostro caso Noseda, in combutta con Poda (per sua
stessa ammissione in un’intervista a Susanna
Franchi, trasmessa mercoledì da Radio3 in un intervallo della diretta) ha
preso le seguenti decisioni (o si è preso le relative libertà…): ha tagliato (ma
lo si fa spessissimo, quanto proditoriamente) l’aria di Siebel del quart’atto (Si le bonheur) e il Baccanale di
Walpurgis (che non è nemmeno di mano di Gounod,
ma di un tale wagneriano a nome Ludwig Alexander Balthasar Schindelmeißer e viene talora eseguito nella versione tedesca dell’opera);
sempre in Walpurgis ha invece ripescato - e discutibilmente, poiché furono un
cedimento alle stupide esigenze de l’Opéra
- due dei sette ballabili (1 e 7) su
richiesta specifica di Poda, tagliando quindi il canto bacchico. Ancora su
sollecitazione del regista ha spostato alla fine dell’atto (IV) la scena nel
Duomo, in pratica ripristinando la sequenza di scene dell’originale di Goethe, che
Gounod aveva mutato non senza ottime ragioni. Insomma, la solita costruzione
del meccano, più o meno plausibile,
tanto per conferire caratteristiche di uniqueness
(nel caso specifico: di jamais vu) alla
produzione…
Da parte sua Poda ha però messo su uno spettacolo intelligente, limitando
le stranezze a pochi dettagli tutto sommato innocui. Scena perennemente
occupata da un gigantesco anello: 10m e più di diametro, 2m di altezza e 50cm
di spessore; un martinetto fissato al centro della piattaforma rotante e al
bordo superiore dell’anello consente di inclinare questo da angolo zero (quindi
adagiato sulla piattaforma e creante un ambiente chiuso) a 90°, facendolo agire
da sfondo (più o meno) aperto della scena. Dentro o sotto l’anello troviamo nel
primo atto una catasta di libri e riviste (tutta la scienza, enciclopedica
quanto non gratificante, del Dottore); che viene coperta nel secondo atto da
oggetti di esiguo valore scientifico, ma di alto contenuto esistenziale: bacco
(teste di vitello), tabacco (no, questo mancava) e venere (rosse scarpe da
donna con tacco 13) tutta roba portata lì da studenti e borghesi in perenne
caciara godereccia. Poi ci troviamo una sfera con scritte in tedesco dal Faust
autentico e poco più. A proposito di Faust autentico, Méphistophélès alla fine
del second’atto s’infila una tunica con l’eloquente scritta Man hat Gewalt, so hat man Recht (Faust
II, atto V, Palast). Nell’atto IV sull’anello cala un coperchio con intagliata
una enorme croce che poi, con l’anello alzato in verticale e retro-illuminato,
crea un grande effetto con la silhouette di Méphistophélès che vi si staglia mentre
maledice Marguerite. Nel finale, dopo che l’anello è servito come gabbia per la
prigione della protagonista, ne compare un altro sullo sfondo, mentre l’opera
si chiude. Insomma, c’è un po’ anche di signore
degi anelli (smile!)
Altri simboli da ricordare sono una serie di clessidre che all’inizio
circondano la piattaforma, ad indicare a Faust e a noi che tutti si invecchia
senza scampo: due clessidre vengono anche recapitate al protagonista e al
diavolo tentatore proprio alla fine, da un gruppo di bianchi angioletti, come a
dire: credevate di aver raggiunto l’immortalità, fregando il tempo, ma adesso
ve lo dovete risorbire, ecco.
Nell’atto III tutti i 4 protagonisti sono a piedi nudi: no, per la verità
in un primo momento Marthe ha scarpe con tacco a spillo, poiché ci appare come
una classica segretaria un po’ racchia che però vuol far colpo sul capufficio,
e infatti subito il diavolaccio le mette le mani sulle tette… e così anche lei
si leva le scarpe! Prima però avevamo apprezzato il mazzolino di fiori di
Siebel, che per Poda è un cappotto ricoperto di fioroni dai colori sgargianti;
così, per non esser da meno, ecco che Méphistophélès, oltre ai gioielli, porta
anche un cappotto tutto tempestato di diamanti (ma sì, come diceva Totò,
facciamo vedere che siamo ricchi…) e poi i gioielli mica sono in una
cassettina, ma in un autentico comò a doppia anta e cassetti! Come potrebbe la
povera Marguerite non cedere di fronte a tanto ben di dio? L’atto si chiude con
i due protagonisti in posizione… ehm… avete capito, mentre il diavolo se la
ride.
L’atto IV comincia lì dove il terzo è finito, ma con Faust che se la
svigna, dopo aver evidentemente compromesso la poveraccia, che si vede costretta
a scambiare il cappotto prezioso con uno imbottito di fiori secchi e
crisantemi! Tagliato l’intervento del povero Siebel, si passa direttamente al
ritorno dei reduci dal fronte (la scena nel duomo è spostata alla fine atto).
Uomini e donne che nell’atto II vestivano in sgargiante rosso vivo qui son
tutti in profondo… nero: si sa, la guerra esige il suo prezzo in vittime e crea
vedove in quantità. La serenata del diavolo viene cantata a una fila di 8 donne
incinte di… palloncini gonfiabili, che il nostro fa scoppiare uno dopo l’altro
mentre canta alla bella Catherine! Poi fra Valentin e Faust c’è un normalissimo
duello alla pistola, e così si perde del tutto il determinante intervento del
diavolo a consegnare a Faust una vittoria truccata! Come detto, la scena nel
Duomo è spostata a fine atto, proprio seguendo la sequenza originale di Goethe
(ma anche la prima idea di Gounod). Cosicchè l’incipit dell’organo qui serve
per accompagnare, direi appropriatamente, il funerale del povero Valentin. La
cui sorellina, appena da lui maledetta, viene quindi ri-maledetta dal
diavolaccio e dai suoi accoliti. Va riconosciuto che questa scena è di grande
impatto: come detto, la croce entro la quale si staglia la figura di
Méphistophélès è proprio da brividi. Qui il regista aggiunge anche – in
penombra - un nudo femminile integrale, immagino a simboleggiare tentazioni,
peccati e quant’altro.
Sempre a piedi nudi troviamo Faust e sodale nella scena di Walpurgis, dove
compare uno stuolo di danzatori spalmati di cerone bruno (faranno i nubiani nel
primo dei due balletti e resteranno lì anche nella scena della prigione, così,
per ammortizzarne il costo, smile!) e
pure completamente nudi (salvo tanga e perizomi per non dover vietare lo
spettacolo ai minori di anni 12, ari-smile!)
simulando le orge delle grandi cortigiane antiche. Ho già anticipato della
scena finale, con la beatificazione di Marguerite e le clessidre consegnate a
Faust e sodale.
Ora però non si deve pensare che a me lo spettacolo sia parso un…
avanspettacolo, tutt’altro: a parte questi pochi dettagli che vanno presi tutto
sommato con simpatia, devo dire che il risultato complessivo di questa
proprosta di Poda sia da giudicare completamente positivo. E così l’ha
giudicato il pubblico, che ha acclamato il regista e tutta la sua troupe.
Ma consensi calorosi sono andati anche ai protagonisti della parte
musicale (che poi è o dovrebbe essere quella che conta). Applausi a scena
aperta dopo le principali arie e – questi son stati i più lunghi, e temo che la
cosa sia da considerare con sospetto… – dopo i due balletti di Walpurgis. Alle
singole, ovazioni e bravo! a non
finire.
Irina Lungu mi aveva fatto una buona impressione già anni fa alla Scala e anche ieri è stata una più che convincente Marguerite,
che ha ben sopportato anche l’impervio crescendo finale (Anges purs).
Faust era Charles Castronovo, cui
forse manca qualche decibel per
essere buono e non solo discreto: ha sfoderato i due acuti (SI nell’atto
secondo e DO nel terzo) con grande appropriatezza e senza sguaiataggini,
risultando un po’ meno efficace nella parte più bassa della tessitura. Ma è
giovane e può solo migliorare ancora.
Il Méphistophélès di Ildar
Abdrazakov ha mostrato grande presenza scenica e apprezzabile vocalità:
cioè ha sempre cantato e mai vociferato o schiamazzato. Personalmente ho
gradito di più (palloncini a parte…) la serenata
del quarto atto che non il vitello
del secondo.
Valentin era Vasilij Ladjuk e convintamente
gli assegno un bel voto, su tutta la linea: nella cavatina del second’atto,
come nella scena del duello e della morte-con-maledizione del quarto. Bella
voce, bene impostata, quasi da baritenore, direi appropriata per il
personaggio.
Il Siebel di Ketevan Kemoklidze
ha un solo demerito, ma da attribuire alla coppia Noseda-Poda: non aver potuto
cantare l’aria del quart’atto! Perché per il resto lei mi è parsa più che
efficace in questo ruolo en-travesti,
tutt’altro che facile ad interpretarsi come si deve.
Marthe era Samantha Korbey, che
qui al Regio non ne perde una (un po’ come Panariello alla Scala, per dire): se
l’è cavata discretamente, tenuto conto che la parte non è proprio proibitiva.
Anche il Wagner di Paolo Maria
Orecchia ha fatto con onore la sua parte. Sempre all’altezza il coro di Claudio Fenoglio.
Gianadrea Noseda ha ancora una volta guidato i suoi con grande rigore,
rispettando quella distaccata nobiltà di scrittura che Verdi rimproverava (credo proprio
ingiustamente) a Gounod. Ottima la sua concertazione delle voci e quindi
meritate le ovazioni che l’hanno accolto all’uscita.
Bene, ci fosse stata anche una… coppa,
sarebbe stata una giornata irripetibile!
2 commenti:
Ciao Daland, intervengo solo per esprimere modestamente l'opinione che la Lungu, tra tante cantanti sovraesposte, diciamo così, meriterebbe maggiore attenzione per le sue qualità artistiche.
Ciao!
@Amfortas
Ecco, non sovraesponiamola (smile!)
Ciao e grazie!
Posta un commento