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24 giugno, 2015

Dopo Brugnaro, anche Giuditta si prepara a trionfare in laguna

 

Domani la Fenice ospita la prima della vivaldiana Juditha. Trionfatrice sullo sbifido Oloferne (il capo dell’ISIS di quei tempi) impiegando precisamente la stessa sbrigativa quanto infallibile tecnica mozza-collo dei di lui simpatici nipotini di oggi. Della serie: chi di spada ferisce… o anche: chi la fa l’aspetti… o anche: se sei dalla parte dei nostri, allora sei un eroe (o eroina) altrimenti sei un criminale.

Politica? Eh sì, perché la Juditha fu in realtà un manifesto politico/propagandistico, auspicante/celebrante una prima vittoria (dopo una serie di disfatte) di Venezia (appoggiata dal Papa e dal Sacro Romano Impero) sugli Ottomani, nell’estate del 1716 a Corfù. Non a caso l’ultimo verso dell’Oratorio recita Adria vivat, et regnet in pace. E che c’entra mai Adria con la vicenda di Giuditta e Oloferne, ambientata in Palestina, alle porte di Betulia, città ebraica (dalle parti dell’odierna Jenin, nella West-Bank) assediata dagli Assiri di Nabucodonosor? Ce lo spiega lo stesso librettista Giacomo Cassetti, che aggiunse in coda al testo musicato da Vivaldi un Carmen allegoricum in cui chiarisce gli apparentamenti dei cinque ruoli (più il luogo) dell’Oratorio: Giuditta è Adria (cioè Venezia); la sua compagna Abra è la Fede cristiana; Betulia è la Chiesa e Ozia ne è il Pontefice; Oloferne è il Sultano e Vagao il suo Generale.

Quindi Giuditta rappresenta Venezia che sconfigge il nemico venuto dall’oriente e con ciò salva anche la Chiesa di Roma dalla minaccia islamica. E questo riferimento religioso ben si addice alla figura del reverendo Antonio Vivaldi, insegnante di violino, viola all’inglese e maestro di coro dell’Istituto veneziano (La Pietà) che mise a disposizione tutte le risorse (umane, prima ancora che materiali) per la rappresentazione dell’Oratorio.  

Oratorio che finì per quasi 200 anni nel dimenticatoio e venne riesumato solo 90 anni fa a Torino, dove la Biblioteca Nazionale aveva acquisito i manoscritti vivaldiani della collezione Foà. Da allora si sono susseguite diverse edizioni, la prima del 1940 (riveduta nel 1949) a cura di Vito Frazzi, poi quella benemerita (1970) di Alberto Zedda (stampata presso Ricordi). In questi ultimi anni (2008) abbiamo avuto ben due nuove edizioni che hanno come curatori dei musicologi anglosassoni, o yankee. La prima è di Ricordi ed è stata curata dal britannico Michael Talbot; l’altra è quella americana, curata principalmente da Eleanor Selfridge-Field e prodotta dalla CCARH, che è stata impiegata da Andrea Marcon in questa esecuzione ad Amsterdam con la Venice Baroque, dove la protagonista è la stessa che ascolteremo in questo allestimento veneziano. Per la verità la locandina della Fenice indica l’impiego di un’altra edizione, quella della Carus-Verlag, Stuttgart: dovrebbe quindi trattarsi di quella curata (nell’ormai lontano 1979) da Günter Graulich, fondatore della Carus, con il ruolo di Abra affidato ad un soprano a dispetto della sua estensione da mezzo (ma nel rispetto del manoscritto originale).

L’Oratorio è in lingua latina (magari un filino… artefatta) come imponevano le consuetudini di Venezia (città davvero internazionale) del tempo ed è interpretato da sole voci femminili (4 mezzosoprani – contralti per Talbot - e un soprano, o 3-2 come qui a Venezia, più il classico coro S-A-T-B, ma tutto di gentil sesso). In origine erano solo ed esclusivamente donne anche le strumentiste dell’orchestra, tutte ospiti dell’Antico Spedale della Pietà e dotate degli strumenti più diversi ed anche (per noi moderni) piuttosto strani, come i flauti dritti contralti, lo chalumeau (salmoè in venexiano) la viola d’amore e le viole da gamba (all’inglese) oltre alle tiorbe e al violone, violoncello e organo per l’accompagnamento. Ma ci sono anche un mandolino e due claren (clarinetti in SIb) oltre ad oboi, timpani, trombe e a violini e viola. Uno specialista, Alessandro De Marchi, cura la concertazione di queste recite veneziane.

L’Oratorio ha la struttura classica, dove si alternano recitativi e arie (più i cori) e dove la arie hanno invariabilmente la forma A-B-A, quindi con il da-capo. Essendo la struttura simile a quella delle opere del tempo, non è infrequente che se ne proponga (come qui a Venezia) una rappresentazione in forma scenica e non semplicemente concertante (come accadde alle recite originali alla Pietà, dove addirittura le cantanti erano poste dietro grate che le rendevano quasi invisibili al pubblico). Ecco come la regista Elena Barbalich spiega il suo approccio per la messinscena.

Come al solito informazioni e dotte analisi sulla Juditha sono già disponibili sul prezioso programma di sala del Teatro.

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