Domani la Fenice ospita la prima della vivaldiana Juditha. Trionfatrice sullo sbifido Oloferne
(il capo dell’ISIS di quei tempi) impiegando precisamente la stessa sbrigativa
quanto infallibile tecnica mozza-collo dei di lui simpatici nipotini di oggi.
Della serie: chi di spada ferisce… o anche: chi la fa l’aspetti… o anche: se
sei dalla parte dei nostri, allora
sei un eroe (o eroina) altrimenti sei un criminale.
Politica? Eh sì, perché la Juditha fu in realtà un manifesto politico/propagandistico, auspicante/celebrante
una prima vittoria (dopo una serie di disfatte) di Venezia (appoggiata dal Papa
e dal Sacro Romano Impero) sugli Ottomani, nell’estate del 1716 a Corfù. Non a caso
l’ultimo verso dell’Oratorio recita Adria vivat, et regnet in pace. E che c’entra mai Adria con la vicenda di
Giuditta e Oloferne, ambientata in Palestina, alle porte di Betulia, città
ebraica (dalle parti dell’odierna Jenin, nella West-Bank) assediata dagli
Assiri di Nabucodonosor? Ce lo spiega lo stesso
librettista Giacomo Cassetti, che
aggiunse in coda al testo musicato da Vivaldi un Carmen allegoricum in cui chiarisce gli apparentamenti dei cinque ruoli (più il luogo) dell’Oratorio: Giuditta è Adria
(cioè Venezia); la sua compagna Abra è la Fede
cristiana; Betulia è la Chiesa e Ozia
ne è il Pontefice; Oloferne è il Sultano e Vagao il suo Generale.
Quindi Giuditta rappresenta
Venezia che sconfigge il nemico venuto dall’oriente e con ciò salva anche la Chiesa di Roma dalla minaccia islamica. E questo riferimento
religioso ben si addice alla figura del reverendo Antonio Vivaldi, insegnante di violino, viola all’inglese e maestro
di coro dell’Istituto veneziano (La Pietà) che mise a disposizione tutte le risorse (umane, prima ancora che
materiali) per la rappresentazione dell’Oratorio.
Oratorio che finì
per quasi 200 anni nel dimenticatoio e venne riesumato solo 90 anni fa a
Torino, dove la Biblioteca Nazionale aveva acquisito i manoscritti vivaldiani
della collezione Foà. Da allora si
sono susseguite diverse edizioni, la prima del 1940 (riveduta nel 1949) a cura
di Vito Frazzi, poi quella benemerita
(1970) di Alberto Zedda (stampata
presso Ricordi). In questi ultimi anni (2008) abbiamo avuto ben due nuove
edizioni che hanno come curatori dei musicologi anglosassoni, o yankee. La
prima è di Ricordi ed è stata curata dal britannico Michael
Talbot; l’altra è quella americana, curata principalmente da
Eleanor Selfridge-Field e prodotta
dalla CCARH, che è
stata impiegata da Andrea Marcon in questa esecuzione ad Amsterdam
con la Venice Baroque, dove la
protagonista è la stessa che ascolteremo in questo allestimento veneziano. Per
la verità la locandina della Fenice indica l’impiego di un’altra edizione, quella della Carus-Verlag, Stuttgart: dovrebbe quindi trattarsi
di quella curata (nell’ormai lontano 1979) da Günter Graulich, fondatore
della Carus, con il ruolo di Abra affidato ad un soprano a dispetto della sua
estensione da mezzo (ma nel rispetto del manoscritto originale).
L’Oratorio è in lingua latina (magari un
filino… artefatta) come imponevano le consuetudini di Venezia (città davvero
internazionale) del tempo ed è interpretato da sole voci femminili (4 mezzosoprani – contralti per Talbot - e un soprano, o 3-2 come qui a
Venezia, più il classico coro S-A-T-B, ma tutto di gentil sesso). In origine
erano solo ed esclusivamente donne anche le strumentiste dell’orchestra, tutte
ospiti dell’Antico Spedale della Pietà e
dotate degli strumenti più diversi ed anche (per noi moderni) piuttosto strani,
come i flauti dritti contralti, lo chalumeau
(salmoè in venexiano) la viola
d’amore e le viole da gamba (all’inglese)
oltre alle tiorbe e al violone, violoncello e organo per l’accompagnamento. Ma
ci sono anche un mandolino e due claren
(clarinetti in SIb) oltre ad oboi, timpani, trombe e a violini e viola. Uno
specialista, Alessandro De Marchi,
cura la concertazione di queste recite veneziane.
L’Oratorio ha la
struttura classica, dove si alternano recitativi e arie (più i cori) e
dove la arie hanno invariabilmente la forma A-B-A, quindi con il da-capo. Essendo la struttura simile a
quella delle opere del tempo, non è
infrequente che se ne proponga (come qui a Venezia) una rappresentazione in forma scenica e non semplicemente
concertante (come accadde alle recite originali alla Pietà, dove addirittura le
cantanti erano poste dietro grate che le rendevano quasi invisibili al pubblico).
Ecco come la regista Elena Barbalich spiega il suo approccio per la messinscena.
Come al solito
informazioni e dotte analisi sulla Juditha sono già disponibili sul prezioso programma di sala
del Teatro.
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