Ieri sera la
Scala ha ospitato la seconda recita de Il trionfo del tempo e del disinganno, l’oratorio di Händel
rappresentato in forma scenica da Jürgen
Flimm. Teatro abbastanza gremito e pochissimi (ad occhio) abbandoni
nell’intervallo, segno che lo spettacolo ha tenuto alta l’attenzione fino
all’ultimo.
Ovviamente il
merito maggiore va alla musica dell’imparruccato sassone e a chi l’ha mirabilmente
diretta, suonata e cantata. Ma devo dire che anche l’allestimento ha dato il
suo bel contributo al successo dello spettacolo.
Diego Fasolis è uno dei
maggiori interpreti (ma anche promotori) del barocco e lo conferma, guidando (e
cooperandoci lui stesso ad uno dei tre clavicembali) una compagine di
professori scaligeri che hanno accolto con favore l’idea di cimentarsi con
questo repertorio, impiegando strumenti d’epoca (quasi...) e con accordatura a
415. Pur nell’immenso spazio del Piermarini, l’ensemble che è di soli 28 esecutori, di cui 20 dell’orchestra di
casa (tutti archi meno una tastiera) rinforzati da 8 barocchisti della Radio Svizzera Italiana (fra cui Gianluca
Capuano, ben noto ai seguaci de laVERDI BAROCCA, protagonista all’organo) ha
saputo farci sentire ed apprezzare ogni minima sfumatura del suono che esce da
quel gioiello che è la partitura di Händel. Un suono (corde di budello e poco
vibrato) mai stridulo o vetroso, al contrario sempre leggero ed etereo, come si
conviene a rendere al meglio simili capolavori.
Lodevoli tutte
le quattro voci, a partire dal Disinganno di Sara Mingardo, davvero impeccabile nel sostenere la parte – come
dire – più filosofica dell’Oratorio:
portamento severo e autorevolezza assoluta.
Martina Janková è una protagonista ideale, per sensibilità, accenti e capacità di
rendere la lenta ma progressiva maturazione del personaggio: dall’edonismo fine
a se stesso alla contemplazione di un piacere
che non è di questa terra...
Piacere che è
impersonato da una solida Lucia Cirillo,
sempre brava nelle ammiccanti adulazioni alla Bellezza come nelle fiere
contestazioni ai due pipistrelli che la vogliono... convertire. Si può opinare
la scelta di affidare la parte ad un mezzo
invece che a un soprano, ma i
risultati hanno giustificato in pieno tale scelta, che si è accompagnata anche
ad un accredito di un’aria (Un pensiero
nemico di pace) che spetterebbe alla sua sodale.
Oltre che dal
Disinganno-Mingardo, le severe forze della ragione-religione sono rappresentate
da Leonardo Cortellazzi che veste efficacemente
i panni del Tempo.
In poche parole,
un’esecuzione di prim’ordine che fa onore al Teatro e che il pubblico ha mostrato
di apprezzare riservando calorosi applausi a tutti i protagonisti. L’avventura
della creazione di un ensemble barocco
alla Scala mi pare iniziata sotto i migliori auspici.
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Ispirandosi
probabilmente al platonico Simposio,
dove un gruppo di amiconi, dopo
abbondanti mangiate e libagioni, si
imbarca in alate discussioni
filosofiche (sull’amore) ecco che Jürgen Flimm e lo scenografo Erich Wonder hanno pensato bene di
ambientare l’incontro dei quattro personaggi-concetto
dell’austero Oratorio del Cardinal Pamphilj
in un moderno ristorante (che richiama programmaticamente, ma solo nell’idea,
la famosa Cupole parigina anni ’30) con
annessa passerella per esibizioni di un
particolare tipo di... Bellezza, impegnata
in attività di Disinganno del Tempo per il Piacere dei convenuti (!) Certo, il porporato avrebbe forse qualcosina
da obiettare, ma se lo facesse si prenderebbe come minimo dell’ipocrita!
Quindi: va bene così, ecco.
Mettere
in scena un Oratorio che ha come unico sviluppo narrativo la conversione di
un... approccio esistenziale dal
terreno al contemplativo non dev’essere semplice nè facile, ma Flimm e compagnia hanno trovato un plausibile
equilibrio limitando per quanto possibile eccessi che avrebbero avuto l’unico
risultato di distrarre l’ascoltatore dalla meravigliosa musica che sgorgava da
buca e palco.
Un simpatico
riferimento a quanto narrano le cronache della prima (1707) è stata la comparsa sulla scena di... Händel in
persona a strimpellare sull’organo (i cui suoni però eseguiva Capuano in buca)
la Sonata che precede l’aria Un leggiadro giovinetto, accompagnato però
da un violinista, abbigliato alla ‘700, staccatosi all’uopo dall’ensemble.
Alcune trovate (lo
smembramento di una bambola come biglietto da visita del Tempo, l’esplosione di un
avventore ubriaco, le ragazze che sfilano sulla passerella, alcuni andirivieni
di bizzarri avventori, che sicuramente nasconderanno qualche simbologia nota solo
al regista...) possono sembrare gratuite, ma per fortuna non guastano più di
tanto. La metamorfosi finale della Bellezza, che sveste i panni mondani per
indossare il classico abito da monaca e si toglie la vistosa parrucca bionda
per restare con i capelli rasati da penitente è forse eccessivamente didascalica
e troppo... curiale, ecco: ad evocare assai bene la presa di coscienza della caducità
di ciò che è puro edonismo terreno bastava il progressivo impoverimento (e
oscuramento) della scena, che ha caratterizzato la parte finale dell’Oratorio.
Ma insomma, uno
spettacolo godibilissimo, dove le tre ore filano via quasi senza che uno se ne accorga.
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