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26 settembre, 2017

Il Tamerlan-baffone di Livermore


Ier sera la Scala ha ospitato la quarta delle sette recite di Tamerlano. Per le considerazioni legate alle scelte dei contenuti musicali rimando alla mia breve nota scritta dopo la prima radiofonica del 12 scorso: ribadisco qui le perplessità rispetto ad alcune di tali scelte. Come anche la critica all’orario d’inizio dello spettacolo, che andava tassativamente anticipato, come  minimo, alle 19:30, se non alle 19.

Parlo invece subito dell’allestimento di Davide Livermore. Spettacolo di alto livello, molto ben curato nelle scene e nella recitazione dei protagonisti; si può certo dire che sia – nel suo complesso – uno spettacolo precisamente modellato sul teatro musicale barocco (e londinese in particolare): che privilegiava grandi spiegamenti di mezzi tecnologici a supportare drammi-per-musica aventi come oggetto tipiche vicende umane (il potere, l’amore, l’odio, la vendetta, ...) attribuite a personaggi fantastici o pseudo-storici, vicende come questa versificata da Nicola Haym e musicata da par suo dal grande Georg Friedrich.

Come osserva giustamente il regista nelle note allegate al programmma di sala (titolate L’Antistoria) nessuno all’inizio del ‘700 si sognava nè pretendeva, assistendo all’opera, di approfondire la conoscenza di un pezzo di storia vecchio di (più di 3, nel caso) secoli: quel pubblico (e a maggior ragione noi che arriviamo dopo quasi altri 3 secoli) voleva godersi senza problemi il teatro del dramma umano su cui si basa il libretto. Dove i personaggi storici come Tamerlano&C vengono impiegati dagli autori dell’opera quasi come degli archétipi, prescindendo completamente dalle loro reali vicende vissute, per presentarne di totalmente inventate: sono in sostanza poco più che un pretesto onde costruirci sopra un mirabile spettacolo e della grande musica. E la cosa funziona proprio in quanto la storia autentica di tali personaggi e delle relative relazioni si perde in un passato quasi mitologico, dove realtà e finzione si possono facilmente confondere, o mescolare, o scambiare. Ecco quindi fiorire i Giulio Cesare, gli Orlando, i Rinaldo, come più tardi - in Mozart - troveremo Idomeneo, Silla, Mitridate, Tito e poi - in Rossini - Ciro, Tancredi, Elisabetta, e ancora - in Verdi – Nabucco, Attila, Macbeth, Boccanegra... e giù giù fino alla Lucretia di Britten, tanto per chiudere il ciclo e tornare a Londra.   

Livermore, per questo suo esordio scaligero, sceglie di ri-ambientare l’opera ai tempi della Rivoluzione dell’ottobre 1917 (di cui siamo proprio in piena ricorrenza centenaria) e forse, se si può muovere un appunto alla sua scelta, è di essersi troppo, e pericolosamente, avvicinato all’attualità, calando il soggetto originale su personaggi e vicende a noi ancora troppo vicini e vividi nella memoria per non avvertire l’assurdità di tale accostamento. Poichè, grazie a Livermore, ci troviamo di fronte a Nicola II (che non si suicidò affatto, ma sappiamo bene come venne orrendamente passato per le armi con l’intera famiglia); a sua figlia (ma quale poi delle quattro?); a Stalin, a Lenin e a Rasputin, personaggi dei quali conosciamo a menadito vita-morte-e-miracoli, a partire dai loro volti per finire alle vicende umane e alle loro reciproche relazioni.   

Ecco che, allora, mostrare Stalin che bistratta Lenin e cerca di sottrargli la figlia dello Zar, sua promessa sposa, rischia di farci sorridere, invece che emozionare, così come scoprire che Rasputin è stato resuscitato per essere posto al servizio non già del suo Zar, ma del povero Lenin, del quale si adopera per facilitare le nozze con una rappresentante dell’alta nobiltà (la figlia dello Zar, nientemeno!) 

Insomma, qui con l’antistoria mi pare si sia un filino esagerato. Proviamo ad immaginare come avrebbero reagito i londinesi di metà ‘700 se un regista avesse ambientato l’opera un secolo prima, protagonisti Carlo I e Oliver Cromwell (?!?)   

Strettamente legati all’ambientazione che il regista ha scelto per la sua messinscena sono poi – dichiaratamente – alcuni accorgimenti (registici e scenici) del grande Eisenstein, aedo della Rivoluzione bolscevica. Che funzionano assai bene, allo scopo di dare un po’ di sapore ad un soggetto dove di azione non v’è quasi nulla e dove le classiche arie-col-da-capo sono sempre micidiali da gestire scenicamente.

E devo dire che anche le trovate di Livermore non sempre riescono ad evitare momenti di stagnazione o ripetitività. Che ad esempio si manifestano nel primo atto, con il vagone ferroviario in cui i protagonisti si muovono sempre scendendo da una porta e risalendo dall’altra o viceversa, oppure compaiono e scompaiono al centro della carrozza, la cui fiancata si apre e richiude per scorrimento. Altre volte il regista, per animare la scena, ricorre ad ammiccamenti a-luci-rosse, come all’inizio del second’atto, ma anche per lui è difficile inventarsi qualcosa, sempre nell’atto centrale, per accorciare (nella percezione dello spettatore) l’interminabile recitativo che precede il trio Asteria-Tamerlano-Bajazet, e che d’altra parte è essenziale per preparare lo sviluppo della vicenda.

Ma tutto sommato si tratta di uno spettacolo eccellente, cui il pubblico non oceanico del Piermarini ha riservato un’accoglienza assai calorosa.  

Che è stata riservata anche ai protagonisti della parte musicale, Fasolis in-primis, che come suo solito si è sdoppiato nelle vesti di direttore ed accompagnatore al cembalo (uno dei tre dislocati in buca).

Rispetto all’audizione via etere, confermo le perplessità su Domingo, che al di là della voce fatalmente usurata fatica a proporsi come interprete squisitamente barocco: troppe incrostazioni verdiane ne caratterizzano il canto; come attore nulla da eccepire, e non è escluso che lui abbia scelto questo ruolo (di tenore... non spinto) perchè si avvicina, per molti aspetti, a quelli di baritoni che lui ha impersonato di recente, come Simone e Rigoletto, che comportano scene finali di alta drammaticità che lui sa gestire come pochi.

I due controtenori (Mehta e Fagioli) hanno sciorinato tecnica sopraffina e, a differenza del Topone, alta specializzazione (per così dire) in questo genere di opera. Peccato che le loro vocine fatichino assai a percorrere le decine di metri che separano palco da loggione... La vecchia, cara e mai abbastanza rimpianta Piccola Scala sarebbe stato l’ambiente ideale per valorizzare le loro qualità.

Discrete le prestazioni delle due nobildonne, alle quali scambierei gli elogi fatti dopo l’ascolto radio: brave entrambe, ma un filino sopra (per me) la Crebassa rispetto alla Schiavo. Non più che dignitoso (anche qui gli abbasso il voto) l’apporto di Senn, che ho trovato un po’ troppo vociferante (forse anche lui preoccupato dai grandi spazi da... perforare) e non sempre perfettamente intonato.

Ma il pubblico non ha mancato di applaudire tutti, Domingo in testa.

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