22 giugno, 2024

Arriva alla Scala la Principessa congelata di Livermore.


Introduco l’argomento in modo semiserio con il segnalare un concettuoso contorto intervento su Puccini di tale Giovanni Giammarino, Direttore d'orchestra poi datosi all’ippica alla gastronomia.
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Il redivivo Davide Livermore guida una nuova produzione scaligera: Turandot, che ritorna in Scala dopo 9 anni dalla precedente, che presentava come novità – voluta da Chailly - il finale di Luciano Beriouno dei cinque (almeno) esistenti.

Oggi, con Michele Gamba sul podio, si ripropone l’antico – quanto controverso - finale di Franco Alfano(-Toscanini). Quindi, questa sarà una Turandot tradizionale, nel senso di statisticamente più eseguita. Gli altri finali sono di rara proposta: a parte la Scala, si va da qualche intraprendente Festival a iniziative più o meno estemporanee.

Che si continui a presentare prevalentemente il finale posticcio e abborracciato di Alfano-Toscanini (conseguenza, del resto, della totale inconsistenza del libretto) è cosa spiegabile soltanto con il degrado della nostra civiltà: il pubblico pagante – oggi cinese in quota rilevante, guarda caso - pretende il lieto fine (ma sarebbe altrettanto contento di un finale macabro, con Calaf decapitato dalla glaciale principessa) e va perciò accontentato, a costo di rigirare per la millesima volta il coltello nella polvere del povero Giacomo. E dire che ci sarebbe invece una versione che metterebbe tutti (o quasi…) d’accordo!   

Le versioni (ad oggi esistenti) del finale.

Oltre a quella presentata qui oggi (la Alfano-II, rivista e soprattutto barbaramente tagliata da Toscanini) esiste la Alfano-I, l’originale proposta del compositore partenopeo, di circa 6’ più lunga.

Poi ci sono due versioni straniere: quella della zelante americana Janet Maguire (mai registrata, per quanto se ne sa) e quella più recente del cinese Hao Weiya, che fa solo piccole modifiche al libretto di Adami-Simoni.

Infine - in fiduciosa attesa di una nuova commissione aggiudicata al nostro grande Mozart contemporaneo (Giovanni Allevi) o, più seriamente, a qualcuno che provi almeno a mettersi nei panni (postumi) di uno Zandonai o di un Ravel, da molte parti indicati come i musicisti più adeguati a compiere l’impresa – esiste appunto la versione commissionata da Ricordi (copyright owner…) a Luciano Berio (2000) inaugurata da Chailly nel 2001 e dallo stesso incisa con laVerdi nel 2004 (da 7’33”) e infine portata qui al Piermarini nel 2015. Versione che comporta interventi non da poco sul testo originale.

Alla base di tutte queste versioni esiste un materiale autenticamente pucciniano, consistente in 30 schizzi/appunti lasciati dal compositore sul comodino del letto di morte, a Bruxelles (Institut du Radium). E sul foglio n°17 Puccini vergò due criptiche parole: …poi Tristano…

Cosa è accaduto prima del finale.

Riassumo brevemente i fatti succedutisi fino alla morte di Liù.

Dunque: Turandot, per 2 atti e mezzo su 3 (i 5/6 dell’opera!) ci appare come una donna (anzi, una ragazzina) fondamentalmente e congenitamente cattiva. Nel primo atto non canta una sola sillaba, ma il suo pollice verso nei confronti del principino di Persia ci basta ed avanza per inquadrarne la sbifida personalità.

Nel second’atto perde la tenzone di sapienza con Calaf e, invece di accettarne il verdetto e le relative conseguenze, magari adducendo la solita, ipocrita scusa: lo faccio per dio, non per piacer mio, va a piagnucolare dal padre, reclamando l’annullamento della prova! Sbeffeggia a tal punto il vincitore Calaf da ottenerne, perso per perso, una prova d’appello (la scoperta della di lui identità).

Nel terzo atto la carognaggine della principessa rasenta addirittura l’efferatezza, allorquando Turandot emana un editto che impone a tutti i suoi sudditi – pena la morte, quisquilie! - di scoprire per lei il nome del principe. E come alternativa i tre porcellini offrono a Calaf escort in quantità industriale, per cercare (inutilmente) di convincerlo a rinunciare al meritato trofeo.

Ebbene, dopo che ha dovuto constatare il proprio completo fallimento, la nostra simpaticona assiste al sacrificio di Liù (scena che muoverebbe a pietà persino un tagliagole dell’ISIS!) e invece di aprire gli occhi sulla realtà e sulla forza dell’Amore (col che il quadro finale avrebbe sì, allora, una sua piena e nobile giustificazione) rimane ancora e sempre impassibile e sprezzante (statuaria, senza un gesto né un movimento) al punto tale che lo stesso innamorato pazzo Calaf le si avventa contro apostrofandola con Principessa di morte! Principessa di gelo!

Però, attenzione: non è che l’attitudine del maschio Calaf verso di lei sia tanto più commendevole. Lui, di fatto, gioca ad una particolare specie di riffa, dove in palio non c’è un oggetto, ma appunto una donna-oggetto (succede ancora oggi in qualche quartiere del vizio che il palio di una riffa sia una prostituta…) Avendo vinto, esige il possesso dell’oggetto in palio, come testimoniano le sue reiterate pretese: ti voglio mia! sei mia! (perché ti ho vinto ad una scommessa, non perché ti ho con-vinto con l’Amore!) [Julian Budden scrive di approccio ormonale…] 

Ora ricapitoliamo, manca solo un sesto di opera da completare – tutto il resto è già perfettamente strumentato, e da mo’ - ma ancora non si vede il benché minimo spiraglio che possa plausibilmente giustificare il voltafaccia della principessa e il suo miracoloso finale scongelamento: tutt’altro, lei è sempre più ibernata e incarognita!

Che fare, una volta scartata la possibilità offerta dal sacrificio di Liù? Inventarsi un filtro magico à la Tristan (era forse questo cui voleva alludere l’appunto di Puccini?) oppure far comparire lo spettro dell’ava Lo-u-Ling che convinca Turandot che non tutti i maschi sono poi così vomitevoli come quel pipistrello che l’aveva violata?   

Ecco, in questa situazione, i librettisti del sempre più insofferente Puccini non sanno che pesci pigliare né proporgli - di scongelante - nulla di più e di meglio che una bella ingroppata (!) Con la frigida cattivona che – praticamente fatta segno di un mezzo-stupro da parte di Calaf - sbrodola un ridicolo Che è mai di me? e pare convincersi a cedere, arrivando ad ammettere (Del primo pianto, spesso tagliata!che lei, in fondo, si era già un pochino innamorata fin dal primo incontro. [Tristan, è lei?]

Ma poi torna a rinchiudersi a riccio e ordina a Calaf di andarsene, visto che ha ottenuto – fare sesso con lei? - ciò che desiderava. E così abbiamo questa ulteriore strampalata manfrina, con lui che le rivela il nome, lei che pare volerlo carognescamente buggerare coram-populo, come avesse vinto una gara regolare, e infine la sorpresa (ma per favore…) della dichiarazione d’amore che consente la chiusa in gloria e magna pompa.       

E Puccini, secondo voi, era uno disposto ad accettare questo farsesco guazzabuglio, oltretutto dopo il poco onorevole precedente della Fanciulla? E infatti fino all’ultimo – pur avendo buttato giù tutti quegli schizzi – il compositore non fece che cincischiare, e con infinita pena, attorno ad un finale che non gli veniva proprio, fra continui rimpalli di responsabilità con i suoi librettisti e laceranti dubbi sulla consistenza drammatica ed estetica del lieto fine e soprattutto della sua necessaria premessa: l’inopinata, improvvisa e inverosimile, totalmente gratuita virata di 180° nell’atteggiamento di Turandot.    

Alfano, Berio e… Wagner.

L’enigmatico riferimento a Wagner nel foglio n°17 degli schizzi può aver indotto Alfano (imitato da Weiya molti anni dopo) ad interpretare la scena finale come fosse quella non del Tristan, ma del Siegfried: dove Brünnhilde inizialmente si nega al ragazzo, per poi cedere ai suoi focosi assalti e unirsi anche carnalmente a lui.

Peccato però che in Wagner le premesse stiano precisamente agli antipodi rispetto alla Turandot! Brünnhilde ha apprezzato l’amore di Siegmund e Sieglinde fino al punto da perderci la… divinità; ha poi amato Siegfried fin dal suo concepimento; ha implorato Wotan di farla risvegliare dal Wälso; e ha subito manifestato la sua gioia nel riaprire gli occhi proprio su Siegfried. La sua iniziale ritrosia ad accoppiarsi con lui è tutta e solo freudiana: la paura - o meglio la tristezza, squisitamente femminile - legata alla prospettiva della perdita della verginità; non certo un pregiudizio idiota legato ad un fatto di cronaca nera di cui fu vittima un’ava nemmeno conosciuta. E alla fine è lei, liberamente e coscientemente, a concedersi al Wälso.

Turandot invece è da sempre un pezzo di ghiaccio venefico; e tale rimane anche dopo aver assistito alla morte della povera Liù; il suo cedimento a Calaf è tutt’altro che spontaneo e convinto, anzi appare come conseguenza di un atto di molestia sessuale, per non chiamarlo di violenza carnale bella e buona!

Scena finale che Berio cerca invece di Tristan-izzare, in ciò supportato da una testimonianza indiretta (perché riferita da Leonardo Pinzauti) di Salvatore Orlando, cui il Maestro avrebbe suonato – occhio alla data – nel 1923 un finale dell’opera dal sapore tristaniano. Però risulta che Puccini – a settembre 1924, due mesi prima di morire – avesse suonato alcune idee del finale anche a Toscanini, che poi però avallò quello, tutt’altro che tristaniano, di Alfano! (Insomma, ce n’è per tutti i gusti…)

Nell’Appendice I del saggio di Marco Uvietta È l’ora della prova: un finale Puccini/Berio per Turandot (accessibile in rete – in lingua inglese - previa registrazione) originariamente pubblicato nel 2002 in Studi Musicali, si riportano in dettaglio tutti gli interventi di Berio, che si caratterizzano per: tagli al testo e alle didascalie (corposi); aggiunte o modifiche al testo (minime); impiego di molti (23 su 30) degli schizzi lasciati da Puccini; utilizzo di frammenti musicali prelevati da altre parti dell’opera; inserimento di frammenti musicali alieni (Wagner, Mahler, Schönberg, oltre a Berio medesimo).

Nel suo saggio, Uvietta presenta ed analizza poi i razionali che sono stati posti da Berio alla base della sua proposta. Lo scopo principale degli sforzi del completatore è di riuscire là dove l’Autore non aveva avuto modo (e/o tempo?) di arrivare: aggirare in sostanza lo scoglio insormontabile legato alla prosaica (per non dire… criminosa) modalità di scongelamento della Principessa.

Il cuore di tale tentativo è rappresentato proprio dall’Interludio orchestrale (dove compaiono anche le citazioni aliene) che Berio ha predisposto come colonna sonora alla scena (Il bacio tuo…) dell’abbraccio di Calaf al corpo di (così la nuova didascalia!) Turandot. Orbene, mentre in Alfano-II quella scena passa alla velocità della luce (quando in Alfano-I e in Weiya occupa almeno 30”), in Berio abbiamo ben 2’30” (scusate la battuta sconcia: il tempo per una sveltina?) di musica che dovrebbe evocare la trasformazione della Principessa da sbifida carogna in angelica creatura (!?)

E per rendere la cosa plausibile, evitandole il successivo clamoroso voltafaccia, dopo che Calaf ha rivelato il suo nome, i versi di Turandot (So il tuo nome! Arbitra sono ormai del tuo destino! e fino a …la mia fronte ricinta di corona!) sono stati abilmente ma bellamente cassati.

Ma alla fine i nodi vengono al pettine… Eh sì, anche Berio (e prima di lui Puccini, se davvero pensava in questi termini al Tristan) ha preso una bella cantonata: come spiegare tristanianamente l’esternazione di Calaf (che permane nella versione beriana) È l’alba! E amor nasce col sole! [??? Ribadisco: l’amore che nasce all’alba e si compie in pieno sole meridiano è quello di Siegfried, non di Tristan.]

Insomma, come la si voglia prendere, siamo sempre lì, accanto all’infastidito Puccini sul lettino dell’ospedale belga dove morirà: la personalità della protagonista, come emersa e consolidatasi fino a quel momento dell’opera (parole e musica) rende irrimediabilmente vano ogni tentativo di giustificarne la repentina conversione.

E così anche Berio – del quale va incondizionatamente apprezzato lo spirito, oltre che il livello assoluto del contenuto musicale del suo completamento - purtroppo pretende l’impossibile, finendo con il contrabbandarci per Verklärung una volgare Vergewaltigung! 

Al proposito mi pare fulminante questa considerazione che Michele Girardi ha proposto nella sua introduzione all’Opera, comparsa sul programma di sala de LaFenice, pochi anni orsono: …un compositore che non voleva morire artisticamente, per non morire fisicamente, avendo scelto una principessa frigida per comunicarlo a tutto il mondo.

E infatti fu proprio la frigidità della principessa a creare l’ultimo problema – irresolubile, e perciò fatale - della sua vita. Ma per ragioni di bassa cassetta ci si continua invece a propinare il finale da avanspettacolo, della serie: dì la verità che hai goduto, zoccola!

Morale della favola?

Dopo la morte di Liù, nella storica edizione Ricordi abbiamo esattamente 60 pagine (402-461) che sono invenzione di Alfano, oltretutto depurate (da Toscanini) di molti improbabili wagnerismi che l’autore di Sakuntala ci aveva infilato, credendo così di interpretare la volontà di Puccini.

In realtà, la verità è una e dovrebbe ormai essere chiara a tutti, e prenderne atto risolverebbe alla radice il problema del finale: la Turandot è opera che finisce con Liù perché Puccini – o più probabilmente il suo subconscio – aveva preso atto che così dovesse ineluttabilmente accadere.

Ecco perché, esalato il MIb minore di archi e ottavino, personalmente preferirei che il Direttore posasse la bacchetta, come fece alla prima assoluta proprio Toscanini, pentitosi (per poi contro-pentirsi il giorno dopo) di aver avallato un misfatto.

A.T.: Qui finisce l’opera, rimasta incompiuta per la morte del Maestro.

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