Daniel Harding torna alla Scala per dirigervi -
invece del tradizionale dittico Cavalleria-Pagliacci come fece pochi anni
orsono (per la verità fu un Pagliacci-Cavalleria…) – un miscuglio di balletto e teatro, assortito con chissà quale
criterio, sia di struttura che di contenuti. (O forse più che di un criterio si
è trattato di un semplice default
pagliaccesco, quando si trattò per Lissner di annunciare la stagione?)
In effetti i due movimenti di ballo e Cavalleria si
accompagnano proprio come i classici cavoli a merenda. Per par-condicio
bisognerebbe infliggere agli abbonati della stagione di balletto una serata,
che so, con Coppelia introdotta da Erwartung (smile!)
Sia come sia, ieri sera il teatro era desolatamente semivuoto,
persino nei loggioni…
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Le spectre de
la rose
(anno domini 1911, esordio a Montecarlo) ha in sottofondo un curioso intreccio
di rimandi a catena, graficamente rappresentato nella figura seguente:
L’ispiratore
del balletto della compagnia di Djaghilev
(coreografo Fokin e star Nijinsky) fu lo scrittore Jean-Louis Vaudoyer, grande amante della
danza, che pensò di festeggiare il 100° anniversario della nascita – 1911 - di Théophile Gautier (del quale era pure
ammiratore) con la proposta di un soggetto ballettistico incentrato su una
lirica del poeta: si trattava per l’appunto di Le spectre de la rose, poesia pubblicata all’interno della collana
intitolata La Comédie de la Mort et poésies diverses,
finita di comporre giovedi 25 gennaio 1838 all’una di pomeriggio (come scrisse
il poeta in calce al testo, aggiungendovi anche Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volonta’…)
Quel
testo, probabilmente noto a Hector
Berlioz (amicissimo di Gautier) assai prima della pubblicazione, fu
musicato, insieme ad altri cinque della stessa origine, dall’autore della Fantastique all’interno della collana di
sei Lieder intitolata Nuits d’été e
pubblicata nel 1841 per voce e pianoforte (e più avanti orchestrata). I sei
titoli sono (tra parentesi gli originali di Gautier):
1. Villanelle (La villanelle rhythmique)
2. Le spectre de la
rose
3. Sur les lagunes (La chanson du pêcheur)
4. Absence
5. Au cemetière (Lamento)
6. L’ile inconnue (Barcarolle)
Chi però si
aspettasse che il legame con il balletto immaginato da Vaudoyer passi da qui
resterebbe deluso, chè quel legame passa sì attraverso Berlioz, ma un altro
Berlioz, quello che poco dopo le Nuits orchestrerà una composizione per
pianoforte di Carl Maria von Weber,
vecchia di 22 anni: si tratta del walzer Aufforderung
zum Tanz, che il futuro autore del Freischütz
aveva composto nel 1819 come Rondò
brillante (in RE bemolle maggiore) e che Berlioz, incaricato di una
rappresentazione della celebre opera romantica nel 1841 a Parigi e dovendo a
tutti i costi (come da disciplinare tecnico
del Teatro) infilarci un balletto, aveva all’uopo trascritto per orchestra,
trasponendolo nella più facile tonalità di RE maggiore. Qui un’interpretazione
del venerabile Kna, che peraltro
sembrerebbe una parodia in tono leggero della marcia funebre di Titurel
(stra-smile!)
Proviamo ora a
chiederci se esista (e se sì, quale sia) un qualunque nesso fra la trama (per così dire) del poema di
Gautier e la musica di Weber-Berlioz.
Dunque:
Gautier fa parlare in prima persona una rosa (meglio, il
suo spettro…) che si rivolge alla ragazza che la recava sul seno la sera prima,
ad una festa da ballo. Una rosa, colta ancora imperlata di rugiada, che per
tutta la serata ha avuto il privilegio, invidiato persino da sovrani, di avere
come tomba il solco intermammario (! gorge …Berlioz userà più pudicamente il termine
seno) di una bella donna. E il suo
spettro – sembra una minaccia, o è una dolce promessa? – avverte che tornerà
ogni notte a danzare per colei che fu causa della sua morte. Ma a cui non
chiede in riparazione né messe, né de-profundis… perchè viene direttamente dal
paradiso.
Weber? Beh,
anche lui ci spiega qualcosa del suo Rondò brillante: in particolare commenta
battuta per battuta l’Introduzione (Moderato):
1-5: il cavaliere invita la dama al ballo
5-9: la dama risponde evasivamente
9-13: il cavaliere rinnova più
pressantemente l’invito
13-16: la dama accetta
17-19: il cavaliere inizia una conversazione
19-21: la dama interloquisce
21-23: il cavaliere parla con maggior
calore
23-25: i due si intendono
25-27: il cavaliere le si rivolge
riguardo al ballo
27-29: la dama risponde
29-31: i due prendono il loro posto
31-35: si mettono in attesa dell’inizio
della danza.
Qui inizia la danza, il rondò vero e proprio: Allegro vivace A – B-B1-B2 – A – C-C1 – D(Vivace)-D1 – B(A tempo)-B3
– A – B-B1-B4 – A(Coda).
Al termine della danza (Moderato)
il cavaliere ringrazia la dama, lei ricambia e infine i due ritornano ai rispettivi
posti.
Beh, difficile
davvero trovare un nesso puntuale fra la poesia
di Gautier e il programma di Weber,
se si esclude il generico riferimento ad una festa danzante.
Evidentemente
Vaudoyer, con un procedimento mentale che gli esperti del ramo definirebbero di
lateral thinking, deve essere partito
da Gautier per risalire a Berlioz e da qui, dopo aver scartato il Lied delle
Nuits come manifestamente inadatto ad una scena di balletto, deve essere
approdato alla trascrizione berlioz-iana del ballo di Weber.
In ogni caso,
a parte la quasi totale gratuità del nesso testo-musica, la coreografia di
Fokin (o Michel Fokine, come da sua
francesizzazione) è davvero intrigante: ecco qui una sua moderna realizzazione, del tutto
fedele all’originale, incluso il finale… balzo nel vuoto (da 8’40”) con cui più
di un secolo fa il grande Nijinsky aveva
lasciato letteralmente di stucco gli spettatori monegaschi.
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Appena-appena
più lineare fu il percorso di gestazione de La rose malade, la cui
ispirazione venne a Roland Petit all’inizio
degli anni ‘70 (1973 per la precisione) dalla poesia The sick rose
di William Blake.
Nelle due
strofette si narra di una rosa che nottetempo è stata attaccata da un virus, un
microscopico verme che con il suo oscuro
e segreto amore la corrode irrimediabilmente, fino a distruggerne la vita.
Dietro ci si può leggere l’allegoria del rapporto fra amore carnale e morte della
purezza, o addirittura la condanna puritana (siamo a fine ‘700 in Gran
Bretagna…) dell’amore sessuale tout-court, che porta con sé i rischi di gravi e
mortali (ed ereditarie) malattie: la sifilide, nientemeno! (beh, se è
per quello anche oggi c’è qualche simpaticone che minaccia AIDS persino da un bacetto
innocente…)
La musica si era
già interessata a questo testo nel 1943, allorquando Benjamin Britten lo aveva impiegato per il terzo dei sei brani (incapsulati
fra un Prologo ed un Epilogo strumentali) della sua Serenade per tenore, corno solista ed archi, precisamente col titolo
di Elegy, un Andante appassionato in MI
minore-maggiore.
Evidentemente Roland
Petit, che non poteva certo ignorare Britten, deve aver rinunciato ad impiegarne
la musica per diverse ragioni: la presenza del canto ed anche la brevità (appena
poco più di 4 minuti) oltre che la problematica adattabilità a farci sopra un balletto.
Così si indirizzò sull’Adagietto della
Quinta mahleriana, che grazie a Visconti proprio allora spopolava con il
suo rimandare al morboso soggetto erotico-epidemico (sì, vabbè, colera invece di
sifilide…) di Thomas Mann. Qui un’edizione
del 1978 con la leggendaria Maya
Plisetskaya.
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Gli spettatori,
come detto, erano pochini, ma son bastati a rovinare i due finali dei balletti,
con applausi abbondantemente anticipati: la chiusura dell’Aufforderung si è quasi
totalmente persa, così come è… morto anzitempo il morendo mahleriano, che il povero Harding ha continuato pietosamente
a dirigere fino in fondo.
Saldato il
debito col balletto e pagato il pedaggio
(erano ambientati sullo svincolo di un’autostrada!) ai latitanti Pagliacci… eccoci
a Cavalleria.
Nell’ormai lontano gennaio 2011 lo spettacolo
non (mi) era dispiaciuto, a dispetto di qualche genialata di troppo di Martone. Il quale per
questa ripresa mi pare abbia cambiato poco o nulla, quindi mantenendo anche quei
particolari che francamente mi avevano lasciato perplesso, come la sequenza delle tappe
percorse da Alfio la mattina del giorno di Pasqua: uscita di casa di buon’ora, sosta
al bordello e quindi toilette dal barbiere (!?)
Avrei definito
encomiabile la direzione di Harding
se non si fosse lasciato prendere la mano in un paio di momenti topici, girando
al massimo la manopola del volume, col risultato di coprire le voci (colpa
anche delle voci? sì, ma ciò non scagiona il Kapellmeister…)
Santuzza
è Liudmyla Monastyrska: che ha sfoggiato il suo vocione enorme, già udito tempo
fa, ma con migliori risultati, in Abigaille.
Jorge De León ha
la parte di Turiddu e direi che non se la cava per nulla male. Però,
accipicchia, perché lo stornello in siculo glielo fanno cantare in Largo
Cairoli?
Valeria Tornatore
impersona una Lola senza infamia e senza lode: la sua canzoncina almeno si
sente: evidentemente, a differenza di Turiddu, era appena dietro le quinte a
cantarla.
Vitaliy Bilyy è
un Alfio così e così, mi è parso anche un filino stonato, in certi passaggi del
suo cavallo scalpitante.
Unica supersite del cast
del 2011, la Lucia di Elena Zilio: il pubblico l’ha gratificata forse più degli altri.
Bene il coro di Casoni, che ha
dato il suo contributo ad una serata tutto sommato – fatte salve le riserve sul
palinsesto – abbastanza godibile… diciamo come tante altre di tanti teatri di provincia.
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