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15 gennaio, 2014

La cavalleria della rosa alla Scala

 

Daniel Harding torna alla Scala per dirigervi - invece del tradizionale dittico Cavalleria-Pagliacci come fece pochi anni orsono (per la verità fu un Pagliacci-Cavalleria…) – un miscuglio di balletto e teatro, assortito con chissà quale criterio, sia di struttura che di contenuti. (O forse più che di un criterio si è trattato di un semplice default pagliaccesco, quando si trattò per Lissner di annunciare la stagione?) 

 

In effetti i due movimenti di ballo e Cavalleria si accompagnano proprio come i classici cavoli a merenda. Per par-condicio bisognerebbe infliggere agli abbonati della stagione di balletto una serata, che so, con Coppelia introdotta da Erwartung (smile!)  

 

Sia come sia, ieri sera il teatro era desolatamente semivuoto, persino nei loggioni…   

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Le spectre de la rose (anno domini 1911, esordio a Montecarlo) ha in sottofondo un curioso intreccio di rimandi a catena, graficamente rappresentato nella figura seguente:



L’ispiratore del balletto della compagnia di Djaghilev (coreografo Fokin e star Nijinsky) fu lo scrittore Jean-Louis Vaudoyer, grande amante della danza, che pensò di festeggiare il 100° anniversario della nascita – 1911 - di Théophile Gautier (del quale era pure ammiratore) con la proposta di un soggetto ballettistico incentrato su una lirica del poeta: si trattava per l’appunto di Le spectre de la rose, poesia pubblicata all’interno della collana intitolata La Comédie de la Mort et poésies diverses, finita di comporre giovedi 25 gennaio 1838 all’una di pomeriggio (come scrisse il poeta in calce al testo, aggiungendovi anche Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volonta’…)

Quel testo, probabilmente noto a Hector Berlioz (amicissimo di Gautier) assai prima della pubblicazione, fu musicato, insieme ad altri cinque della stessa origine, dall’autore della Fantastique all’interno della collana di sei Lieder intitolata Nuits d’été e pubblicata nel 1841 per voce e pianoforte (e più avanti orchestrata). I sei titoli sono (tra parentesi gli originali di Gautier):    

1. Villanelle (La villanelle rhythmique)   
2. Le spectre de la rose
3. Sur les lagunes (La chanson du pêcheur)
4. Absence
5. Au cemetière (Lamento)
6. L’ile inconnue (Barcarolle)

Chi però si aspettasse che il legame con il balletto immaginato da Vaudoyer passi da qui resterebbe deluso, chè quel legame passa sì attraverso Berlioz, ma un altro Berlioz, quello che poco dopo le Nuits orchestrerà una composizione per pianoforte di Carl Maria von Weber, vecchia di 22 anni: si tratta del walzer Aufforderung zum Tanz, che il futuro autore del Freischütz aveva composto nel 1819 come Rondò brillante (in RE bemolle maggiore) e che Berlioz, incaricato di una rappresentazione della celebre opera romantica nel 1841 a Parigi e dovendo a tutti i costi (come da disciplinare tecnico del Teatro) infilarci un balletto, aveva all’uopo trascritto per orchestra, trasponendolo nella più facile tonalità di RE maggiore. Qui un’interpretazione del venerabile Kna, che peraltro sembrerebbe una parodia in tono leggero della marcia funebre di Titurel (stra-smile!)

Proviamo ora a chiederci se esista (e se sì, quale sia) un qualunque nesso fra la trama (per così dire) del poema di Gautier e la musica di Weber-Berlioz.

Dunque: Gautier fa parlare in prima persona una rosa (meglio, il suo spettro…) che si rivolge alla ragazza che la recava sul seno la sera prima, ad una festa da ballo. Una rosa, colta ancora imperlata di rugiada, che per tutta la serata ha avuto il privilegio, invidiato persino da sovrani, di avere come tomba il solco intermammario (! gorge …Berlioz userà più pudicamente il termine seno) di una bella donna. E il suo spettro – sembra una minaccia, o è una dolce promessa? – avverte che tornerà ogni notte a danzare per colei che fu causa della sua morte. Ma a cui non chiede in riparazione né messe, né de-profundis… perchè viene direttamente dal paradiso.

Weber? Beh, anche lui ci spiega qualcosa del suo Rondò brillante: in particolare commenta battuta per battuta l’Introduzione (Moderato):

1-5: il cavaliere invita la dama al ballo
5-9: la dama risponde evasivamente
9-13: il cavaliere rinnova più pressantemente l’invito
13-16: la dama accetta
17-19: il cavaliere inizia una conversazione
19-21: la dama interloquisce
21-23: il cavaliere parla con maggior calore
23-25: i due si intendono
25-27: il cavaliere le si rivolge riguardo al ballo
27-29: la dama risponde
29-31: i due prendono il loro posto
31-35: si mettono in attesa dell’inizio della danza.

Qui inizia la danza, il rondò vero e proprio: Allegro vivace A – B-B1-B2 – A – C-C1 – D(Vivace)-D1 – B(A tempo)-B3 – A – B-B1-B4 – A(Coda).

Al termine della danza (Moderato) il cavaliere ringrazia la dama, lei ricambia e infine i due ritornano ai rispettivi posti.

Beh, difficile davvero trovare un nesso puntuale fra la poesia di Gautier e il programma di Weber, se si esclude il generico riferimento ad una festa danzante.

Evidentemente Vaudoyer, con un procedimento mentale che gli esperti del ramo definirebbero di lateral thinking, deve essere partito da Gautier per risalire a Berlioz e da qui, dopo aver scartato il Lied delle Nuits come manifestamente inadatto ad una scena di balletto, deve essere approdato alla trascrizione berlioz-iana del ballo di Weber.

In ogni caso, a parte la quasi totale gratuità del nesso testo-musica, la coreografia di Fokin (o Michel Fokine, come da sua francesizzazione) è davvero intrigante: ecco qui una sua moderna realizzazione, del tutto fedele all’originale, incluso il finale… balzo nel vuoto (da 8’40”) con cui più di un secolo fa il grande Nijinsky aveva lasciato letteralmente di stucco gli spettatori monegaschi.   
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Appena-appena più lineare fu il percorso di gestazione de La rose malade, la cui ispirazione venne a Roland Petit all’inizio degli anni ‘70 (1973 per la precisione) dalla poesia The sick rose di William Blake.

Nelle due strofette si narra di una rosa che nottetempo è stata attaccata da un virus, un microscopico verme che con il suo oscuro e segreto amore la corrode irrimediabilmente, fino a distruggerne la vita. Dietro ci si può leggere l’allegoria del rapporto fra amore carnale e morte della purezza, o addirittura la condanna puritana (siamo a fine ‘700 in Gran Bretagna…) dell’amore sessuale tout-court, che porta con sé i rischi di gravi e mortali (ed ereditarie) malattie: la sifilide, nientemeno! (beh, se è per quello anche oggi c’è qualche simpaticone che minaccia AIDS persino da un bacetto innocente…)     

La musica si era già interessata a questo testo nel 1943, allorquando Benjamin Britten lo aveva impiegato per il terzo dei sei brani (incapsulati fra un Prologo ed un Epilogo strumentali) della sua Serenade per tenore, corno solista ed archi, precisamente col titolo di Elegy, un Andante appassionato in MI minore-maggiore.

Evidentemente Roland Petit, che non poteva certo ignorare Britten, deve aver rinunciato ad impiegarne la musica per diverse ragioni: la presenza del canto ed anche la brevità (appena poco più di 4 minuti) oltre che la problematica adattabilità a farci sopra un balletto. Così si indirizzò sull’Adagietto della Quinta mahleriana, che grazie a Visconti proprio allora spopolava con il suo rimandare al morboso soggetto erotico-epidemico (sì, vabbè, colera invece di sifilide…) di Thomas MannQui un’edizione del 1978 con la leggendaria Maya Plisetskaya.
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Gli spettatori, come detto, erano pochini, ma son bastati a rovinare i due finali dei balletti, con applausi abbondantemente anticipati: la chiusura dell’Aufforderung si è quasi totalmente persa, così come è… morto anzitempo il morendo mahleriano, che il povero Harding ha continuato pietosamente a dirigere fino in fondo.  

Saldato il debito col balletto e pagato il pedaggio (erano ambientati sullo svincolo di un’autostrada!) ai latitanti Pagliacci… eccoci a Cavalleria. Nell’ormai lontano gennaio 2011 lo spettacolo non (mi) era dispiaciuto, a dispetto di qualche genialata di troppo di Martone. Il quale per questa ripresa mi pare abbia cambiato poco o nulla, quindi mantenendo anche quei particolari che francamente mi avevano lasciato perplesso, come la sequenza delle tappe percorse da Alfio la mattina del giorno di Pasqua: uscita di casa di buon’ora, sosta al bordello e quindi toilette dal barbiere (!?)

Avrei definito encomiabile la direzione di Harding se non si fosse lasciato prendere la mano in un paio di momenti topici, girando al massimo la manopola del volume, col risultato di coprire le voci (colpa anche delle voci? sì, ma ciò non scagiona il Kapellmeister…)

Santuzza è Liudmyla Monastyrska: che ha sfoggiato il suo vocione enorme, già udito tempo fa, ma con migliori risultati, in Abigaille.

Jorge De León ha la parte di Turiddu e direi che non se la cava per nulla male. Però, accipicchia, perché lo stornello in siculo glielo fanno cantare in Largo Cairoli?

Valeria Tornatore impersona una Lola senza infamia e senza lode: la sua canzoncina almeno si sente: evidentemente, a differenza di Turiddu, era appena dietro le quinte a cantarla.

Vitaliy Bilyy è un Alfio così e così, mi è parso anche un filino stonato, in certi passaggi del suo cavallo scalpitante.

Unica supersite del cast del 2011, la Lucia di Elena Zilio: il pubblico l’ha gratificata forse più degli altri.

Bene il coro di Casoni, che ha dato il suo contributo ad una serata tutto sommato – fatte salve le riserve sul palinsesto – abbastanza godibile… diciamo come tante altre di tanti teatri di provincia.

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