Dopo il Bach
de laBarocca all’Epifania, è di ritorno Zhang
Xian per aprire il 2014 della stagione principale, salendo sul podio
dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione particolare, dove si mescolano e
si alternano il moderno, il moderno-ma-non-troppo-quasi-tradizionale
e il tradizionale-che-di-più-non-si-può:
infatti nella prima parte abbiamo un Bartók che si può
ormai definire classico, messo in sandwich fra due contemporanei, Witold Lutosławski (che ci ha lasciato da una ventina
d’anni) e Rolf Martinsson (oggi non
ancora sessantenne) di cui ascoltiamo composizioni che impegnano la
sola sezione degli archi; chiude il concerto Dvořák con la sua composizione più inflazionata.
Di Lutosławski viene eseguita
una cosa abbastanza bizzarra, come molta, diciamolo pure, della musica del
compositore polacco, sempre preso dalla fregola delle sperimentazioni più
cervellotiche e poi regolarmente insoddisfatto dei risultati: la Uwertura
Smyczkova (Ouverture per archi)
del 1949, un periodo particolare per l’evoluzione estetica del compositore,
oltre che per i rivolgimenti politici che si producevano in una Polonia ormai rinchiusa
inesorabilmente nella gabbia del comunismo reale (la Conferenza di Łagów importava proprio in quei giorni
dall’Unione Sovietica i princìpi e i dettami, in fatto di arte, della premiata
ditta Stalin-Ždanov).
Meglio e più di ogni altra critica, sono le parole stesse
dell’Autore a gettare una luce piuttosto… obliqua su questa composizione:
Il lavoro è assolutamente
poco pratico, dato che richiede un sacco di fatica, ma dura solo cinque minuti.
Per la gran parte, dopo averlo ascoltato, l’uditorio rimane completamente
disorientato, a dispetto del lungo accordo finale che incorona il brano. Evidentemente
la gente si aspetta che duri di più. Quando Wisłocki lo diresse alla
Filarmonica di Varsavia, alla fine non ci fu il benché minimo applauso. Lui non
sapeva che fare, così fece alzare l’orchestra e se ne andò via…
Mah… giudicate voi: che qualcuno si aspetti che duri di più è tutto da vedere, a meno
di non sostituire il verbo aspettarsi
con il più verosimile paventare (smile!)
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Si, perché
anche se uno si prende la briga di scoprire cosa
c’è dietro (o dentro) quest’opera non è che per questo il fascino del brano
aumenti sostanzialmente di livello. Possiamo scoprire o verificare che vi
vengono impiegate delle scale ottofoniche, inventate con speciali criteri. Una
è costituita da due tetracordi (s-t-t) separati da un semitono: LA-SIb-DO-RE/RE#-MI-FA#-SOL#;
una seconda dalla successione cromatica da DO a SOL (DO-DO#-RE-RE#-MI-FA-FA#-SOL).
Si vedano questi due esempi di temi costruiti con tali scale:
Possiamo anche
contare (qualcuno l’ha fatto, non certo io…) ivl numero delle ricorrenze di un frammento,
esposto proprio all’inizio dalle viole come SI-LA#-SOL#-LA, che torna 132 volte
(in 188 battute!) a viso aperto o variamente camuffato (ad esempio partendo da
altezze diverse oppure travestendosi a mezzo inversione):
Quanto ai
cambi di tempo, questi li ho personalmente contati: sono 99, mediamente uno
ogni 2 battute! Possiamo anche stupirci (!?) nel sentire i temi riproposti
nella ripresa in ordine inverso
rispetto all’esposizione e anche
restare a bocca aperta davanti all’accordo finale, una politonalità di due
triadi di RE e SOL maggiore, FA# nei primi violini, RE nei secondi, RE e LA
nelle viole, RE e SI nei violoncelli e SOL grave nei contrabbassi:
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Mah, pur con tutta la buona volontà, è davvero difficile
entusiasmarsi per questo pezzo (che nemmeno il grande Alex Ross si degna di citare!) e ai ragazzi de laVerdi si può soltanto riconoscere
l’abnegazione con cui hanno affrontato la prova. A loro e alla Xian comunque è
andata meglio rispetto ai colleghi della Filarmonica di Varsavia e al povero
Wisłocki: sì, perchè loro almeno qualche applauso (di cortesia?) l’hanno
comunque portato a casa (smile!)
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Béla
Bartók compose la sua Tanc-szvit (Suite di sei danze) nell’agosto
1923, in occasione delle celebrazioni del mezzo secolo di vita di Budapest (vita del nome, intendo, non
certo delle chiese e dei ponti della città). Celebrazioni che compresero, a novembre di quell’anno, un
concerto di musiche (nuove e non) di sapore magiaro. Le nuove composizioni
furono commissionate, oltre che a Bartók, a Zoltan Kodály (lo Psalmus hungaricus) e al
direttore del concerto, Ernő Dohnányi
(la Festival Overture). Inoltre si
eseguirono le due marce di Racoczy
(di Liszt e Berlioz).
Il nome
dell’opera deriva evidentemente dalle classiche Suite barocche, dove però
all’Allemanda, Corrente, Sarabanda e Giga si sostituiscono danze popolari (peraltro
inventate dall’Autore, sia pure a simiglianza di quelle originali) di diversa
provenienza: Europa orientale (Ungheria, Slovacchia, Romania) e mondo arabo
(prima e dopo la Grande Guerra Bartók aveva visitato l’Africa settentrionale
proprio per acquisire impressioni di prima mano sulla musica araba).
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La
Suite consta di sei brani, con un Ritornello
(di ascendenza magiara) che si presenta, in varianti diverse, al termine del
primo, secondo e quarto brano e all’interno del Finale:
1. Moderato. Percorso da temi derivati da
musica araba primitiva, come questo esposto dal fagotto subito dopo il rullo di
apertura del tamburo:
Invece
i ritmi, scanditi tipicamente dagli archi, ricordano abbastanza quelli
dell’Europa orientale.
Il
tema arabeggiante passa dai fagotti al corno inglese, poi anche all’oboe e
infine al clarinetto. Una sezione centrale (Vivo)
impegna l’intera orchestra, poi un progressivo allargamento del tempo ed una
rarefazione dei suoni conducono alla prima apparizione del Ritornello
(protagonisti violini e clarinetto) che chiude languidamente questa danza
d’apertura.
2. Allegro molto. Un unico motivo di sapore
chiaramente magiaro (continui intervalli di terza minore) che poi sfocia in
pesanti glissando, proprio come a ricordare il tema del Mandarino (miracoloso) che Bartók aveva composto per pianoforte
anni addietro, ma che stava orchestrando proprio nello stesso periodo di
composizione della Suite:
Dopo
diverse ripetizioni di questi squarci, fa la sua seconda comparsa il
Ritornello, questa volta prima nel clarinetto, poi nei violini e infine chiuso con
una breve cadenza dell’oboe.
3. Allegro vivace. In forma ABACA, con un
motivo – anzi un gruppo tematico - di danza di origine ungherese con cui si
inseriscono spunti di danze dal piglio tipicamente romeno, come questo:
La
presentazione del tema B si conclude con una sezione molto lenta,
caratterizzata da un trillo sul SOL sovracuto del flauto accompagnato da
arabeschi della celesta e chiuso da un glissando dell’arpa, che contrasta assai
con ciò che precedeva e con il tema principale che segue. La chiusura del brano
è magistralmente condotta da
Bartók, che propone il primo tema Vivacissimo,
poi allarga molto il tempo, e quindi, dopo una corona puntata, riprende il Vivacissimo per le due battute
conclusive!
4. Molto tranquillo. È una melodia di
sapore arabo, che emerge in unisono nei legni (corno inglese e clarinetto basso,
all’inizio) alternandosi ad un tappeto di accordi vagamente dissonanti di archi,
pianoforte e fiati (RE-DO-LA-SOL):
Questa
alternanza si protrae per più volte, sempre con minore lunghezza, fino a
sfociare, nelle ultime battute, nel tema del Ritornello.
5. Comodo. È la più breve delle sei danze,
una specie di intermezzo prima del finale (che è la danza più lunga) costruita
su un inciso dal ritmo assai spiccato, ripetuto prima dalla viole e poi dai
violini a distanza di quarte (MI-LA,
RE-SOL) e seguito da una cadenza sincopata dove archi e fiati dapprima si
alternano per poi riunirsi in vista dell’attacco della danza conclusiva.
6. Finale, Allegro. Ricapitola i movimenti
precedenti, con una struttura che prevede Introduzione
(dove si riprendono temi della quinta, prima e seconda danza), Esposizione (con temi della prima,
terza e seconda danza), Trio (che ricapitola
le due forme del Ritornello) e Ripresa.
___
Come
l’Uwertura di Lutosławski, anche quest’opera
non fu propriamente accolta alla prima
da deliranti entusiasmi, anche a causa della mediocrità dell’esecuzione,
raffazzonata con pochissime prove. Però il tempo ha finito per renderle
ragione: non sarà certo un capolavoro, ma forse aveva torto Adorno a snobbarla come musica
d’occasione (quante sono le musiche d’occasione che sono divenute immortali?) Insomma,
l’estro (per non dire il genio) di Bartók vi si sente e come.
Nervosa e vibrante la lettura che ne ha dato la
Xian, il che ha consentito ai ragazzi – percussioni in testa - di mettere in mostra
tutta la loro bravura tecnica.
___
Lo
svedese Rolf Martinsson è un
contemporaneo ammiratore di Schönberg,
se è vero che gli ha dedicato ben tre versioni (predisposte in tempi diversi)
dal suo A.S. in Memoriam (A.S. sono appunto le iniziali dell’inventore
– o millantato tale – della dodecafonia).
In realtà l’Autore è abbastanza alieno da certi gratuiti estremismi divenuti di
moda nel ‘900 – anche grazie a Schönberg, e ahinoi, dico io - tanto è vero che
si è ispirato, componendo la prima versione del brano nel 1999, al tonalissimo Verklärte Nacht, che quell’anno compiva
giusto un secolo.
Qui
ascoltiamo la seconda versione (2001) per orchestra d’archi (la prima è per
ensemble di 15 archi e pianoforte e la terza del 2007 è per pianoforte solo).
Beh, Lutoslawski mi perdonerà, ma questo ggiovane
(classe 1956) almeno nel pezzo qui in programma si fa assai più rispettare.
Dimostrando anche che la tonalità – per
superare la quale Schönberg, dopo una buona partenza, aveva finito per
arenarsi, vedendosi costretto per… sopravvivere a inventare un sistema talebano
di regole di composizione che, ai miei orecchi perlomeno, farà più danni che altro – poteva e può ancor
oggi dare frutti del tutto apprezzabili.
E non
per nulla il brano di Martinsson, pur presentando diverse e frequenti modulazioni
fino a sfiorare l’atonalità, ha un chiaro
centro di gravitazione tonale sul SOL, e apre e chiude con accordi in minore in
questa tonalità! Mirabile anche l’uso dei pianissimo e delle pause
di silenzio, che impreziosiscono la parte finale del brano.
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Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia
dal Nuovo Mondo, altro cavallo di battaglia de laVerdi, che ce la ripropone di frequente.
Xian si permette qualche preziosismo oltre i… righi, soprattutto nel movimento
iniziale, poi cava fuori un Largo
letteralmente da sogno, quindi scatena i suoi nei due conclusivi movimenti
veloci. Successo strepitoso. Che mi fa
tornare, chissà perché, da Lutosławski per riportarne un concetto da lui espresso nel 1965, a proposito
dell’evoluzione della musica:
Finche perdurerà una situazione che
non favorisce la nascita di nuovi dettami stilistici, di nuove convenzioni
artistiche, non cambierà nulla. Possiamo, comunque, restare fiduciosi che arriverà
il momento in cui perfino i maestri più grandi dei tre secoli precedenti
potranno condividere il destino dei loro predecessori e la loro produzione
musicale lentamente comincerà a trasformarsi nei reperti musicali, oggetto di
interesse dei soli specialisti. Solo in quel momento assisteremo al vero
fiorire della musica scritta ogni giorno.
Bene, non sapete quanto io sia entusiasta della certezza
che ho di non campare abbastanza per vivere quel momento prefigurato dal compositore
polacco… (amen)
1 commento:
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Grazie della gentile attenzione e rimango nell'attesa di un vostro ceno per approfondire l'argomento.
Rubén Costanzo
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“La musica degli altri”, entriamo nel mondo della musica Etnica, Folk, Jazz. Musiche lontane da noi nel tempo e nello spazio, che sembrano appartenere ad altri e che vogliamo condivider con tutti per cancellare i luoghi comuni e le “trovate” commerciali che non ci permettono di apprezzarle pienamente.
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Il venerdì con il programma: “Musica per lo spirito” la nostra finestra si apre per lasciar entrare la musica che solleva lo spirito verso il Divino. Autori ed interpreti di tutti i tempi s'incontrano per testimoniare della loro fede attraverso la musica
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Rubén Costanzo
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