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scrivere pescivendola

11 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°16

 

Dopo il Bach de laBarocca all’Epifania, è di ritorno Zhang Xian per aprire il 2014 della stagione principale, salendo sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione particolare, dove si mescolano e si alternano il moderno, il moderno-ma-non-troppo-quasi-tradizionale e il tradizionale-che-di-più-non-si-può: infatti nella prima parte abbiamo un Bartók che si può ormai definire classico, messo in sandwich fra due contemporanei, Witold  Lutosławski (che ci ha lasciato da una ventina d’anni) e Rolf Martinsson (oggi non ancora sessantenne) di cui ascoltiamo composizioni che impegnano la sola sezione degli archi; chiude il concerto Dvořák con la sua composizione più inflazionata.  

Di Lutosławski viene eseguita una cosa abbastanza bizzarra, come molta, diciamolo pure, della musica del compositore polacco, sempre preso dalla fregola delle sperimentazioni più cervellotiche e poi regolarmente insoddisfatto dei risultati: la Uwertura Smyczkova (Ouverture per archi) del 1949, un periodo particolare per l’evoluzione estetica del compositore, oltre che per i rivolgimenti politici che si producevano in una Polonia ormai rinchiusa inesorabilmente nella gabbia del comunismo reale (la Conferenza di Łagów importava proprio in quei giorni dall’Unione Sovietica i princìpi e i dettami, in fatto di arte, della premiata ditta Stalin-Ždanov). 

Meglio e più di ogni altra critica, sono le parole stesse dell’Autore a gettare una luce piuttosto… obliqua su questa composizione:

Il lavoro è assolutamente poco pratico, dato che richiede un sacco di fatica, ma dura solo cinque minuti. Per la gran parte, dopo averlo ascoltato, l’uditorio rimane completamente disorientato, a dispetto del lungo accordo finale che incorona il brano. Evidentemente la gente si aspetta che duri di più. Quando Wisłocki lo diresse alla Filarmonica di Varsavia, alla fine non ci fu il benché minimo applauso. Lui non sapeva che fare, così fece alzare l’orchestra e se ne andò via…

Mah… giudicate voi: che qualcuno si aspetti che duri di più è tutto da vedere, a meno di non sostituire il verbo aspettarsi con il più verosimile paventare (smile!)
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Si, perché anche se uno si prende la briga di scoprire cosa c’è dietro (o dentro) quest’opera non è che per questo il fascino del brano aumenti sostanzialmente di livello. Possiamo scoprire o verificare che vi vengono impiegate delle scale ottofoniche, inventate con speciali criteri. Una è costituita da due tetracordi (s-t-t) separati da un semitono: LA-SIb-DO-RE/RE#-MI-FA#-SOL#; una seconda dalla successione cromatica da DO a SOL (DO-DO#-RE-RE#-MI-FA-FA#-SOL). Si vedano questi due esempi di temi costruiti con tali scale:


Possiamo anche contare (qualcuno l’ha fatto, non certo io…) ivl numero delle ricorrenze di un frammento, esposto proprio all’inizio dalle viole come SI-LA#-SOL#-LA, che torna 132 volte (in 188 battute!) a viso aperto o variamente camuffato (ad esempio partendo da altezze diverse oppure travestendosi a mezzo inversione):


Quanto ai cambi di tempo, questi li ho personalmente contati: sono 99, mediamente uno ogni 2 battute! Possiamo anche stupirci (!?) nel sentire i temi riproposti nella ripresa in ordine inverso rispetto all’esposizione e anche restare a bocca aperta davanti all’accordo finale, una politonalità di due triadi di RE e SOL maggiore, FA# nei primi violini, RE nei secondi, RE e LA nelle viole, RE e SI nei violoncelli e SOL grave nei contrabbassi:
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Mah, pur con tutta la buona volontà, è davvero difficile entusiasmarsi per questo pezzo (che nemmeno il grande Alex Ross si degna di citare!) e ai ragazzi de laVerdi si può soltanto riconoscere l’abnegazione con cui hanno affrontato la prova. A loro e alla Xian comunque è andata meglio rispetto ai colleghi della Filarmonica di Varsavia e al povero Wisłocki: sì, perchè loro almeno qualche applauso (di cortesia?) l’hanno comunque portato a casa (smile!)
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Béla Bartók compose la sua Tanc-szvit (Suite di sei danze) nell’agosto 1923, in occasione delle celebrazioni del mezzo secolo di vita di Budapest (vita del nome, intendo, non certo delle chiese e dei ponti della città). Celebrazioni  che compresero, a novembre di quell’anno, un concerto di musiche (nuove e non) di sapore magiaro. Le nuove composizioni furono commissionate, oltre che a Bartók, a Zoltan Kodály (lo Psalmus hungaricus) e al direttore del concerto, Ernő Dohnányi (la Festival Overture). Inoltre si eseguirono le due marce di Racoczy (di Liszt e Berlioz).

Il nome dell’opera deriva evidentemente dalle classiche Suite barocche, dove però all’Allemanda, Corrente, Sarabanda e Giga si sostituiscono danze popolari (peraltro inventate dall’Autore, sia pure a simiglianza di quelle originali) di diversa provenienza: Europa orientale (Ungheria, Slovacchia, Romania) e mondo arabo (prima e dopo la Grande Guerra Bartók aveva visitato l’Africa settentrionale proprio per acquisire impressioni di prima mano sulla musica araba).
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La Suite consta di sei brani, con un Ritornello (di ascendenza magiara) che si presenta, in varianti diverse, al termine del primo, secondo e quarto brano e all’interno del Finale:


1. Moderato. Percorso da temi derivati da musica araba primitiva, come questo esposto dal fagotto subito dopo il rullo di apertura del tamburo:


Invece i ritmi, scanditi tipicamente dagli archi, ricordano abbastanza quelli dell’Europa orientale.

Il tema arabeggiante passa dai fagotti al corno inglese, poi anche all’oboe e infine al clarinetto. Una sezione centrale (Vivo) impegna l’intera orchestra, poi un progressivo allargamento del tempo ed una rarefazione dei suoni conducono alla prima apparizione del Ritornello (protagonisti violini e clarinetto) che chiude languidamente questa danza d’apertura.

2. Allegro molto. Un unico motivo di sapore chiaramente magiaro (continui intervalli di terza minore) che poi sfocia in pesanti glissando, proprio come a ricordare il tema del Mandarino (miracoloso) che Bartók aveva composto per pianoforte anni addietro, ma che stava orchestrando proprio nello stesso periodo di composizione della Suite:


Dopo diverse ripetizioni di questi squarci, fa la sua seconda comparsa il Ritornello, questa volta prima nel clarinetto, poi nei violini e infine chiuso con una breve cadenza dell’oboe.

3. Allegro vivace. In forma ABACA, con un motivo – anzi un gruppo tematico - di danza di origine ungherese con cui si inseriscono spunti di danze dal piglio tipicamente romeno, come questo:

La presentazione del tema B si conclude con una sezione molto lenta, caratterizzata da un trillo sul SOL sovracuto del flauto accompagnato da arabeschi della celesta e chiuso da un glissando dell’arpa, che contrasta assai con ciò che precedeva e con il tema principale che segue. La chiusura del brano è magistralmente condotta da Bartók, che propone il primo tema Vivacissimo, poi allarga molto il tempo, e quindi, dopo una corona puntata, riprende il Vivacissimo per le due battute conclusive!

4. Molto tranquillo. È una melodia di sapore arabo, che emerge in unisono nei legni (corno inglese e clarinetto basso, all’inizio) alternandosi ad un tappeto di accordi vagamente dissonanti di archi, pianoforte e fiati (RE-DO-LA-SOL):

Questa alternanza si protrae per più volte, sempre con minore lunghezza, fino a sfociare, nelle ultime battute, nel tema del Ritornello.

5. Comodo. È la più breve delle sei danze, una specie di intermezzo prima del finale (che è la danza più lunga) costruita su un inciso dal ritmo assai spiccato, ripetuto prima dalla viole e poi dai violini a distanza di quarte (MI-LA, RE-SOL) e seguito da una cadenza sincopata dove archi e fiati dapprima si alternano per poi riunirsi in vista dell’attacco della danza conclusiva.

6. Finale, Allegro. Ricapitola i movimenti precedenti, con una struttura che prevede Introduzione (dove si riprendono temi della quinta, prima e seconda danza), Esposizione (con temi della prima, terza e seconda danza), Trio (che ricapitola le due forme del Ritornello) e Ripresa.
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Come l’Uwertura di Lutosławski, anche quest’opera non fu propriamente accolta alla prima da deliranti entusiasmi, anche a causa della mediocrità dell’esecuzione, raffazzonata con pochissime prove. Però il tempo ha finito per renderle ragione: non sarà certo un capolavoro, ma forse aveva torto Adorno a snobbarla come musica d’occasione (quante sono le musiche d’occasione che sono divenute immortali?) Insomma, l’estro (per non dire il genio) di Bartók vi si sente e come.

Nervosa e vibrante la lettura che ne ha dato la Xian, il che ha consentito ai ragazzi – percussioni in testa - di mettere in mostra tutta la loro bravura tecnica.
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Lo svedese Rolf Martinsson è un contemporaneo ammiratore di Schönberg, se è vero che gli ha dedicato ben tre versioni (predisposte in tempi diversi) dal suo A.S. in Memoriam (A.S. sono appunto le iniziali dell’inventore – o millantato tale – della dodecafonia). In realtà l’Autore è abbastanza alieno da certi gratuiti estremismi divenuti di moda nel ‘900 – anche grazie a Schönberg, e ahinoi, dico io - tanto è vero che si è ispirato, componendo la prima versione del brano nel 1999, al tonalissimo Verklärte Nacht, che quell’anno compiva giusto un secolo.

Qui ascoltiamo la seconda versione (2001) per orchestra d’archi (la prima è per ensemble di 15 archi e pianoforte e la terza del 2007 è per pianoforte solo). Beh, Lutoslawski mi perdonerà, ma questo ggiovane (classe 1956) almeno nel pezzo qui in programma si fa assai più rispettare. Dimostrando anche che la tonalità – per superare la quale Schönberg, dopo una buona partenza, aveva finito per arenarsi, vedendosi costretto per… sopravvivere a inventare un sistema talebano di regole di composizione che, ai miei orecchi perlomeno, farà più danni che altro – poteva e può ancor oggi dare frutti del tutto apprezzabili.  

E non per nulla il brano di Martinsson, pur presentando diverse e frequenti modulazioni fino a sfiorare l’atonalità, ha un chiaro centro di gravitazione tonale sul SOL, e apre e chiude con accordi in minore in questa tonalità! Mirabile anche l’uso dei pianissimo e delle pause di silenzio, che impreziosiscono la parte finale del brano.

Grande successo per gli archi de laVerdi, per Xian e per l’Autore, presente per l’occasione della prima esecuzione italiana della sua opera, ulteriore indice della caratura internazionale dell'Orchestra.
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Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia dal Nuovo Mondo, altro cavallo di battaglia de laVerdi, che ce la ripropone di frequente.

Xian si permette qualche preziosismo oltre i… righi, soprattutto nel movimento iniziale, poi cava fuori un Largo letteralmente da sogno, quindi scatena i suoi nei due conclusivi movimenti veloci. Successo strepitoso. Che mi fa tornare, chissà perché, da Lutosławski per riportarne un concetto da lui espresso nel 1965, a proposito dell’evoluzione della musica:

Finche perdurerà  una situazione che non favorisce la nascita di nuovi dettami stilistici, di nuove convenzioni artistiche, non cambierà nulla. Possiamo, comunque, restare fiduciosi che arriverà il momento in cui perfino i maestri più grandi dei tre secoli precedenti potranno condividere il destino dei loro predecessori e la loro produzione musicale lentamente comincerà a trasformarsi nei reperti musicali, oggetto di interesse dei soli specialisti. Solo in quel momento assisteremo al vero fiorire della musica scritta ogni giorno.

Bene, non sapete quanto io sia entusiasta della certezza che ho di non campare abbastanza per vivere quel momento prefigurato dal compositore polacco… (amen)

1 commento:

Rubèn ha detto...

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