intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

22 gennaio, 2014

A Bologna il Parsifal truccato da Castellucci


Eccomi a raccontare del Parsifal bolognese. Visto la sera successiva al giorno della dipartita di quel bolognese d’adozione che rispondeva al nome di Claudio Abbado.



Prima dell’inizio, Nicola Sani ha ricordato il Maestro e annunciato un desiderio del nipote, Concertatore di questo Parsifal: un minuto di silenzio prima dell’inizio e nessun applauso nei due intervalli (come del resto si faceva nella Bayreuth dei tempi d’oro).

Lo spazio e il tempo

È davvero deprimente constatare il livello di ignoranza distribuita che caratterizza la nostra civiltà. Ignoranza che si manifesta sotto forma di leggerezza, approssimazione e in sostanza menefreghismo rispetto agli oggetti di cui si deve trattare.

Zum Raum wird hier die Zeit (Il tempo qui si fa spazio). Un verso topico del Parsifal, cantato da Gurnemanz nel primo atto al momento, per lui e per il ragazzo folle, di avviarsi verso il tempio del Gral.

Un verso impiegato proprio da Claudio Abbado a fondamento di un ciclo di rappresentazioni di Parsifal alla Philharmonie di Berlino nel 2001-02 e ripreso sul blog dei suoi fedelissimi. E usato dal Teatro Comunale di Bologna come sottotilolo al volantino elettronico (e anche del libriccino stampato) di annuncio della stagione. Un verso richiamato dal protagonista bolognese di Parsifal sul suo blog, dove ha dedicato a questa produzione una lunghissima e per certi versi illuminante serie di post già in occasione delle recite a Bruxelles).

Notato nulla di strano nella traduzione italiana (e inglese, per Richards) dei tre riferimenti? Il puro e semplice capovolgimento del concetto! Ecco, i traduttori e soprattutto i responsabili delle pubblicazioni di quella scellerata traduzione sono la testimonianza palese della suddetta ignoranza distribuita.  
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Può darsi che Wagner, per la sua allegoria, si sia ispirato ad Eraclito e Parmenide, per cui l’entrata nel Tempio del Gral rappresenta il passaggio dal tempo (il divenire di Eraclito) cioè il mondo sensibile, materiale, prosaico, caduco, allo spazio (l’essere di Parmenide) uno stato definitivo, immobile e ineffabile, dove il tempo si dilata fino a scomparire; in altre parole l’eternità, la trascendenza, il metafisico.

Ma possiamo anche pensare che Wagner abbia anticipato di un quarto di secolo… Albert Einstein!

Kein Weg führt zu ihm durch das Land, und niemand könnte ihn beschreiten, den er nicht selber möcht' geleiten (Al Gral via non è, che conduca attraverso il paese: nessuno mai percorrerla potrebbe, che egli stesso non volesse guidare). Cioè: non ci si muove verso il Gral, ma vi si è risucchiati! E infatti così osserva lo stupefatto Parsifal: Ich schreite kaum, doch wähn' ich mich schon weit (Cammino appena, eppur mi sembra già d'esser lontano). E qui Gurnemanz gli aveva dato quell’apparentemente criptica risposta sul tempo che si fa spazio.

Oggi noi conosciamo il Paradosso dei gemelli (qui, da 4’55”, spiegato anche da Crozza-Zichichi): quello dei due che viaggia ad altissima velocità nello spazio e poi torna sulla Terra è invecchiato meno di quello che se ne è stato in poltrona a casa sua. Perché la teoria della relatività ci spiega che il tempo è una variabile dipendente (dal sistema di riferimento) e che quello del gemello viaggiante rallenta, si dilata. In un certo qual modo si potrebbe dire che per lui – come per Gurnemanz e Parsifal, risucchiati dalla potenza del Gral - il tempo diventa spazio

Ecco un bello spunto per un regista che volesse davvero mostrarci un Parsifal innovativo!
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Invece qui abbiamo a che fare con un Parsifal di cui, per la verità, già si sapeva tutto (a mezzo DVD) a livello di allestimento, ormai… stagionato per ben tre anni, dal debutto nel 2011 a La Monnaie di Bruxelles, accolto mediamente da peana per il regista e da osanna per la direzione musicale. Qui a Bologna il regista è sempre lui, mentre è quasi tutta nuova la compagine dei Musikanten, tranne (per la verità) proprio i due protagonisti.

A leggere come Castellucci ha approcciato Parsifal (lo scritto compare anche sul programma di sala) vengono… i brividi (smile!) Illuminante – ancor più delle Note di regìa - è questa intervista in cui Castellucci racconta la sua vision del dramma. Un put-pourri di banalità, tipo l’opera preferita di Hitler e di idee ardite, tipo il sangue è quello mestruale (certo Wagner in materia era assai più ferrato di Nietzsche, smile!) Poi: Parsifal non è un eroe, perché non fa niente (dimenticando le imprese che il ragazzo compie prima di arrivare a Monsalvat - abbattere giganti, nientemeno! - e soprattutto l’autentica carneficina che il nostro provoca sulle mura del castello di Klingsor!) Poi ecco che il pitone bianco si è mangiato la colomba, con elencazione di tutti i significati del pitone albino nella storia e nell’arte… (peccato davvero che Wagner non ci abbia fatto mente locale – e sì che ha messo una cintura di pelle di serpente addosso a Kundry - ma Castellucci è qui apposta per rimediare alla svista). E poi comico velleitarismo (ho studiato l’opera troppo a fondo…) seguito da involontarie ammissioni (…poi l’ho rivoltata come un calzino). Interpretazioni cervellotiche (Kundry è in grado di guarire Amfortas) e palesi contraddizioni (Kundry cerca sinceramente l’amore di Parsifal e per averlo… lo inganna).

Insomma, eccone un altro che ti dice: Oh, mica vorrai sorbirti per l’ennesima volta quella boiata pazzesca del Parsifal di Wagner! Vieni mo’ qua, che te lo do io il Parsifal giusto! (stra-smile!) Naturalmente nell’intervista ci sono anche considerazioni del tutto condivisibili (e ci mancherebbe anche!) che però all’atto pratico (ciò che si vede in scena) vengono più che altro sconfessate.

Più organiche e strutturate, anche se criptiche la loro parte, oltre che fondamentalmente irrispettose della lettera (come minimo) del dramma wagneriano, sono le considerazioni esposte, sempre sul medesimo documento, dalla drammaturga Piersandra Di Matteo. L’impressione che se ne ricava – e sarà in pieno confermata dai fatti – è di una ossessiva ricerca di un’interpretazione innovativa e, per lo spettatore, stupefacente, del dramma di Wagner. Il che porta ad una fatale sovraesposizione di concetti, idee e persino di simboli, qui introdotti in gran dovizia, dopo aver buttato nel cesso (avendone dottamente teorizzato e giustificato la rimozione!) il Gral e la Lancia, il Cigno e la Colomba: Nietzsche, il pitone, il cerchio-specchio, la bacchetta da Kapellmeister di Klingsor e gli ingredienti venefici da lui impiegati, i kalashnikov imbracciati dalle fanciulle-fiore, le scritte sul muro, le funi rosse (o bianche), l’arbustello del terzo atto, tanto per citarne solo alcuni.

I cardini essenziali del dramma, così come fissati da Wagner, vengono bellamente rimossi se non addirittura sconfessati. Magari per dare il massimo risalto – con trovate spettacolari e intelligenti di per sé – ad aspetti che poco hanno a che fare con l’essenza del dramma medesimo. Siamo sempre lì: il regista, pensando in buona fede di arrecarle valore aggiunto, costruisce una sua personale visione dell’opera, sulla quale poi crea uno spettacolo che magari sarà anche intelligente, coinvolgente, profondo, attuale fin che si vuole.

Peccato che non abbia più nulla a che fare con l’originale. E ciò che viene matematicamente penalizzato in questi casi è in primo luogo la musica. Poiché è musica – oh, parlo ovviamente di Wagner, mica del Rossini degli imprestiti, con tutto il rispetto - composta per il (e cucita su misura del) soggetto originale; e non calza più sul soggetto derivato, anzi spesso e volentieri stride maledettamente con esso. E quando in scena si vede qualcosa che fa a pugni con ciò che si sente, è la rovina. Per quanto bella, affascinante, interessante, intelligente e coinvolgente sia quella vista.

Cerco ora di esemplificare.   
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Comincio dal fondo, perché è l’aspetto più importante della questione, di una semplicità proprio cristallina. Dico: qualunque lettura del testo, anche la più strampalata e ardita, e soprattutto qualunque interpretazione della musica (quelle celestiali 54 battute tutte in maggiore, accuratamente depurate - si noti bene! - da ogni e qualsivoglia precedente traccia di dolore, su cui cala il sipario) indipendentemente da voli di colombe o di cigni o di… pitoni, non può non farci concludere che si tratti di un finale – i cui presupposti sono evidentemente gettati da tutto ciò che precede – di redenzione.  

Dopodichè dietro a quel termine ognuno ci metta pure tutto quel che gli passa per la testa: redenzione dal peccato originale, dal vaticano dello ior, dall’arte degenerata, dal maschilismo o dalla pedofilia, dal capitalismo selvaggio o dal comunismo reale o da alqaeda, dall’alienazione o dal consumismo, da hitler o stalin o berlusconi o... castellucci, o da tutto quer che je pare ar reggista… Ma lo scenario è quello, inequivocabilmente, tassativamente.

Ecco ciò che Wagner scrive (testo, didascalie) da vedersi mentre si odono quelle 54 battute: Raggio luminoso; abbagliante fulgore del "Gral". Dalla cupola scende a volo aperto una bianca colomba, arrestandosi sul capo di Parsifal. - Kundry, lo sguardo levato verso di lui, cade lentamente a terra esanime davanti a Parsifal. Amfortas e Gurnemanz, in ginocchio, rendono omaggio a Parsifal, il quale traccia col Gral un gesto di benedizione sui cavalieri adoranti.

Ora, diciamone pure tutto il male possibile o ridiamoci sopra a crepapelle, ma questa è la conclusione che Wagner dà al suo dramma, punto. Se non ci piace, possiamo benissimo far a meno di ascoltarla, di vederla e di… metterla in scena. Castellucci, che ha sciorinato per quattro ore e passa una magistrale sapienza nell’uso delle luci, ci fa vedere qui l’esatto contrario (a proposito di calzini rivoltati!) di ciò che Wagner prescrive. E non parlo certo della mancanza della colomba (possiamo davvero fare a meno di simboli materiali – pitone compreso! - che generano più equivoci che altro) ma qui abbiamo il palcoscenico che si svuota progressivamente delle moltitudini che lo avevano invaso e piomba nell’oscurità mentre le luci piene si accendono in sala…
  
Parsifal? Lui resta solo come un cane, abbandonato da tutti, per ultima da Kundry: cioè resta lì precisamente come alla fine del primo atto - quando nulla aveva capito di ciò che era accaduto dinanzi ai suoi occhi e Gurnemanz gli aveva dato dell’oco - proprio come se nulla sia accaduto nel frattempo! E ciò mentre dall’orchestra sale quella musica che invece ci dice, con la forza espressiva che solo Wagner sapeva infonderle, che tutto è cambiato, per Parsifal e per l’Umanità! Musica quindi mirabilmente funzionale alla scena così come immaginata da Wagner, musica che diventa invece del tutto incomprensibile se associata a ciò che ci mostra Castellucci.

E quindi chiunque – si chiami pure Castellucci o Bieito o Schlingensief o Konwitschny o Berghaus, tanto per andare un po’ a ritroso nel tempo – mi mostri una conclusione del dramma in termini pessimisti, o addirittura nichilisti, o anche semplicemente qualunquisti o agnostici, ai miei occhi fa la figura dell’emerito ciarlatano. Che pretende di presentarmi, magari ammantandole con ampie dosi di filo-psico-sociologia-un-tanto-al–chilo, le sue concezioni o le sue fisime, o le sue ardite seghe (toh, a proposito di Nietzsche, smile!) mentali. Impiegando alla bisogna – e adulterandola (ops, scusate: de-strutturandola, per rispetto del gergo del moderno Regietheater) – la materia originale che ci ha lasciato il più grande Artista di teatro musicale che la nostra civiltà abbia finora prodotto.   
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Altro esempio illuminante degli abbagli che prende il regista, nella sua smania di mostrarci quelli che per lui (non per Wagner!) sono aspetti del dramma della massima rilevanza, quindi da portare in primissimo piano, è ciò che vediamo nel secondo atto, in particolare in tutta la prima parte.

Anche un ingenuo fa presto a capire che le fanciulle-fiore, e Kundry con loro, rappresentano la mercificazione del sesso e lo sfruttamento delle qualità libido-eccitanti della donna da parte di Klingsor, il mago che le ospita nel suo castello (di menzogne) per usarle a suo profitto. E che per sottometterle possiamo certo immaginare impieghi tutti i mezzi disponibili nel suo laboratorio di mago-alchimista, che Wagner ci descrive sommariamente ad inizio d’atto. Ma domandiamoci: è proprio questa fase, diciamo così, di sadica preparazione delle ragazze al compito che le aspetta ciò di cui Wagner ci vuol parlare qui? È questa l’allegoria sottesa alla prima scena dell'atto? Prima di rispondere leggiamo il libretto ed ascoltiamo la musica. 

Allora: le ragazze-fiore sono sicuramente agli ordini di Klingsor, ma per svolgere un ben preciso lavoro. Quello di adescare e sedurre i concorrenti del loro padrone (i cavalieri del Gral) portandoli a disertare e ad ingrossare le fila del suo esercito, così da indebolire le difese di Monsalvat e consentire al mago di conquistarlo e di divenirne finalmente il signore assoluto. Per questo Klingsor le ricopre di vesti preziose e di inebrianti profumi; e per questo Wagner le riveste di una musica celestiale.

Sono sfruttate da un padrone? Sì, ma in una prigione dorata, dove possono persino godere di una vita affettiva, legate proprio a quei cavalieri da loro sedotti e che adesso sono, come loro, al servizio del loro stesso padrone. Non altrimenti si spiega il loro dolore al vedere i compagni massacrati da Parsifal lungo la sua scalata alle mura del castello; e non altrimenti si spiega il loro iniziale risentimento contro quel ragazzo che ha loro rovinato la… famiglia.

Insomma, qui ci troviamo in una specie di azienda, guidata sì da un pazzoide, il quale però non ha come obiettivo primario ed esclusivo, cioè come fine ultimo, la riduzione della donna in schiavitù, ma la conquista del mercato (comunque lo si voglia filosoficamente intendere) e che a tale fine (demolire la concorrenza) impiega come mezzo un’organizzazione di cui fanno parte (in qualità di sfruttate e sfruttati, certo, come lo sono tutti i lavoratori dipendenti in tutte le aziende di questo mondo) sia femmine che maschi.

Ecco perché Castellucci sbaglia clamorosamente (per me) quando invece pone al centro della sua interpretazione della scena l’esposizione smaccata degli atti di volgare schiavizzazione della donna e lo scempio sado-maso del corpo femminile, sostituendo alle fanciulle-fiore le fanciulle-salsiccia, che lui ci presenta mentre Klingsor - evidentemente dopo averle imbottite di tutte le sostanze venefiche che il regista ci ha elencato (patologie indotte comprese) sul sipario fra primo e secondo atto - le lega e le appende al soffitto della sua macelleria, per organizzarne l’esposizione. Così facendo, Castellucci finisce per perdere di vista il concetto fondamentale che è alla base dell’allegoria wagneriana: la posizione e il ruolo di Klingsor rispetto a Monsalvat e le profonde motivazioni che ne informano le scellerate iniziative. Insomma, vien da pensare che qui il sadico non sia Klingsor, ma… il regista (mega-smile!)

La sua, di Castellucci dico, è una scelta che lo porta contemporaneamente anche a stravolgere in modo intollerabile le caratteristiche estetiche del second’atto: sì, perché affinchè l’azione ammaliatrice e seduttrice di quelle donne possa aver successo è assolutamente necessario che tali femmine vengano appunto vestite e profumate come fossero fiori, proprio come ammaliante e seducente è la musica che le accompagna. Quello in cui Parsifal si avventura deve apparire a lui – e anche a noi spettatori, che pure, a differenza sua, siamo già edotti dell’inganno che vi si nasconde – come un ambiente idilliaco, pervaso da bellezza e amore.  (Solo più tardi anche Parsifal scoprirà che in realtà quella è una trappola gestita da un lestofante, un nemico mortale che si serve anche di donne a lui assoggettate per corromperlo e condurlo a perdizione.) Ma insomma, non è un caso se Wagner pensava ai giardini di Ravello – non ad una sala di macellazione - mentre ambientava questa scena!

Invece Castellucci ci mostra un Parsifal che è sul punto di farsi ammaliare e sedurre dalle orripilanti fanciulle-salsiccia, poi trasformate in marionette nude! Col che la scena scade addirittura nel ridicolo. Peggio ancora quando le fanciulle ritornano armate di mitra! Insomma, ciò che il (vero) mago Wagner ha immaginato e mirabilmente realizzato (soprattutto in musica, lo ripeto!) cioè la presentazione della fallacia del mondo di Klingsor, dove la contraffazione più subdola e l’inganno più bieco si nascondono dietro le apparenze più accattivanti, tutto ciò il regista lo butta nel cesso, presentandoci una scena di iper-realismo tanto crudo e ributtante quanto fuori luogo. Scena che reclamerebbe – e questo è sempre il punto fondamentale, accidenti - il supporto di una musica totalmente diversa

(A merito del regista invece va riconosciuto, e sembra paradossale, che l’immagine più iconoclasta di questa scena - la vagina esposta in primo piano - è proprio quella più pertinente al contesto dell’incontro Parsifal-Kundry.)

A proposito, mentre Kundry bacia Parsifal, che poi si ritrae inorridito, sulla zanzariera passano le immagini di un coito (uno stupro peraltro, direi). Qui abbiamo almeno due interpretazioni: la più banale, che si tratti di un didascalico riferimento (per i disattenti o i non informati) ad un precedente coito, fra la stessa signora e Amfortas. La seconda, ben più importante, che sia la risposta che da 165 anni tutto il mondo aspettava con ansia alla domanda: ma da dove è uscito fuori ‘sto Lohengrin?  

Infine, quello che tutti gli spettatori, anche i più sprovveduti, devono aver capito al volo è come mai, a un certo punto, senza apparente ragione, la macelleria scompaia nel nulla, con tutto il bendidio che conteneva. E questo è il più gran merito dell’eliminazione di tutti i simboli di Wagner…  
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Il primo atto è forse quello meno rovinato, anche se non vi mancano gratuite invenzioni e aperte contraddizioni del testo wagneriano.

Foresta ombrosa e austera, ma non tetra, così Wagner. Beh, Castellucci, in vena di rivoltare calzini, ci mostra un luogo di una tetraggine assoluta, in certi momenti non si vede letteralmente nulla. Gurnemanz&C sono ridotti a cespugli ambulanti, tanto che, a voler fare facili battute, mi vien da pensare che il regista stesse anche mettendo in scena un Macbeth e abbia per errore portato in Parsifal la scenografia predisposta per Birnam (smile!)

Al primo arrivo di Amfortas, portato al laghetto per il bagno ristoratore, Wagner compie uno dei suoi miracoli, legando mirabilmente il tema disperante del dolore (Nach wilder Schmerzensnacht, dopo una notte selvaggia di dolore…) a quello invero sbudellante del radioso mattino che illumina la foresta (…nun Waldes Morgenpracht! la selva, ora, in mattutino splendore!) Ecco, sono meno di due minuti di arte straordinaria, una delle tante perle che Wagner ci offre perché ne possiamo esteticamente e spiritualmente godere. Castellucci? Tutto come prima, fogliame impenetrabile, su cui galleggia un canotto pneumatico che attraversa la scena. Memorabile!

Non parliamo della Verwandlung, con la foresta che si… ritira in tutte le direzioni, rasa al suolo da boscaioli armati di motoseghe che lasciano, invece che il Duomo di Siena, un un letto di foglie e rami per quei quattro sfigati di Gurnemanz&C, mentre sullo sfondo vediamo una volgare raffineria: oh già, parliamo di raffinazione dello spirito! (Però tutti i record son fatti per essere ineluttabilmente battuti, quindi la Verwandlung del terz’atto sarà ancor meglio, stiamone certi!)

Nulla si vede dello scoprimento del Gral, con la scena chiusa da un velone bianco su cui campeggia una virgola, o un apostrofo, o (in notazione musicale) un segno di respiro. Né il Gral si vedrà alla fine, dato che per il regista è una non-cosa, una mancanza, insomma un vattelappesca su cui è meglio non indagare oltre. 
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Una delle conseguenze della visione sostanzialmente pessimistica del regista consiste nel cestinare senza pietà tutta la fondamentale problematica wagneriana (caratteristica non solo del Parsifal) legata alla Natura (hai detto niente!) Dopo le bizzarrìe del primo atto (Monsalvat=Birnam) e lo scempio del secondo atto (Ravello=macelleria) la cosa toccherà il suo zenit nel terzo, al momento del cosiddetto Incantesimo del Venerdi Santo.

Esso viene ridotto - da stupefacente inno alla Natura finalmente tornata ad essere tutt’uno con l’Uomo - ad un’interminabile processione di gente sbandata (Pellizza credo non gradirebbe proprio…) che marcia su un tapis-roulant. Cioè in realtà sta ferma, e si noti bene l’implicazione filosofica della cosa, a proposito di pessimismo della concezione registica e di Paradosso dei gemelli! (Nota tecnica: il nastro che è posto quasi al proscenio e occupa tutta la larghezza della scena, ha solo un paio di metri di profondità, ci camminano massimo, sfalsate, due file di persone, tutte le altre centinaia che stanno dietro si limitano ad agitarsi per simulare la camminata. Chissà chi fa più fatica?)

Sentiamo Parsifal, selon Wagner: (Parsifal si volta e guarda con dolce estasi sulla selva e sul prato, che ora rilucono in luce antimeridiana.) Oh come bello m'appare oggi il prato! Bene io mi trovai tra fior di meraviglia, che intorno a me cupidi s'attorcevan fino al capo; e pure mai io vidi sì mansueti e teneri, fiori e steli in fioritura; né mai così tutto odorò di cara fanciullezza, né così mi parlò intimo e soave!

Capita l’antifona? Qui ci sono i fiori veri, naturali, gli steli in fioritura, altro che le ingannevoli fanciulle-fiore di quel castrato di Klingsor! E Gurnemanz ci aggiunge un’autentica laude alla Natura come parte del creato, agli esseri animati che nascono, crescono e muoiono con naturale innocenza. Ma proprio mentre canta (Wagner) che in quel giorno gli uomini evitano di calpestare erba e fiori, che ti fa, l’ecologista targato Castellucci? Sradica l’unico arboscello presente in ettari ed ettari di deserto per farne una corona d’alloro a Parsifal! (Ma Greenpeace non interviene, dico io?)

Ho già anticipato della seconda Verwandlung, che qui proprio non c’è del tutto, perché surrogata dal protrarsi della finta camminata sul rullo della palestra.

In precedenza, ma solo secondo Wagner, Gurnemanz aveva continuato a parlare a Kundry, che voleva farsi in quattro per Parsifal; persino l’aveva bonariamente rimproverata quando lei aveva recato acqua per rianimarlo; poi entrambi avevano preparato il battesimo di Parsifal, che aveva baciato castamente Kundry, dopo che la donna gli aveva lavato ed asciugato i piedi.

Castellucci? Kundry scompare letteralmente dopo il suo risveglio e la rivediamo solo alla fine, quando passa a salutare Parsifal prima di aggregarsi al gregge che si allontana. Gurnemanz e Parsifal parlano al vento ed accarezzano il vuoto dinanzi a loro, con movimenti mutuati dallo yoga. Insomma: Wagner buttato nel cesso, tutta roba, avrà pensato Castellucci, degna di donnicciuole svenevoli o di novizie al convento.

Eh già, le scorie bigotte che Nieztsche rimproverava al Maestro. Qui invece il più arido qualunquismo anima quelle moltitudini marcianti verso il nulla nel più arido degli spazi urbani cementificati. Ancora una volta: per questa scena servirebbe ben altra musica, capito Wagner?       
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Ora basta buttare in vacca la regìa e parliamo appunto di cose serie: la musica!

In complesso mi sento di dichiararmi moderatamente soddisfatto: la compagnia di canto è di livello più che discreto, da Gábor Bretz, che è un Gurnemanz convincente, forse poco ieratico (secondo i miei gusti) a Detlef Roth, che capitalizza bene la sua dimestichezza con il ruolo di Amfortas, da lui portato anche a Bayreuth. Gradite sorprese (per me che partivo con qualche riserva mentale su di loro) il Klingsor di Lucio Gallo, e la Kundry di Anna Larsson.    

Arutjun Kotchinian cantava Titurel dal suo sarcofago in… loggione e non ha demeritato, come le fanciulle-fiore, a loro volta relegate ai due lati della buca, mentre sul palco si esibivano le… salsicce. Positiva anche la prestazione dei cori di Andrea Faidutti e Alhambra Superchi, peraltro quasi sempre relegati dal regista dietro sipari o quinte.

Roberto Abbado mi pare abbia superato onorevolmente questo difficile battesimo, mutuando ora da Kna (primo atto in particolare) ora da Boulez, così da… stare in media (smile!) A parte le battute, una direzione attenta, con qualche sbavatura sul fronte del fracasso che ha in qualche occasione sommerso le voci. Orchestra forse non al massimo, ma il banco di prova è davvero dei più temibili.
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Considerazioni finali: un grazie grandissimo al Teatro per l'immane sforzo organizzativo messo in campo, un vero miracolo stante la condizione pre-agonica del nostro sistema-cultura. Resta (ma questa è ovviamente la mia reazione personalissima) il rammarico per la discutibilità della proposta artistica.   
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Post scripta.

Ho già scritto anni fa della mia personale vision del Parsifal, e siccome da allora non è cambiata (non c’è riuscito nemmeno Castellucci, a farmela cambiare, smile!) rimando i milioni di curiosi a quel lontano post.

Invece consiglio seriamente a tutti di ascoltare (basta andare sul tubo) la versione in lingua italiana nell’esecuzione di Vittorio Gui del 1950 con l’Orchestra RAI di Roma (è stata anche trasmessa qualche settimana fa da RadioFD). A parte che ci si trova in Kundry una 27enne allora quasi sconosciuta (indovinare chi…) la cosa che sorprende (perlomeno che mi sorprende, essendo personalmente scettico sulle traduzioni, in specie di Wagner) è la qualità assoluta della versione ritmica di Giovanni Pozza, che non toglie nulla alla pregnanza del testo, anzi ce lo rende quasi più caldo e vicino. 

Wagner il saccheggiatore. L’incipit del tema principale di tutto il dramma (l’Agape) viene dal caro genero:

Excelsior, introduzione alla cantata Le campane del Duomo di Strasburgo (1874).

2 commenti:

Moreno ha detto...

Mi sono recato anch’io a Bologna sabato scorso per vedere il Parsifal.
Ho apprezzato la parte musicale ma sono rimasto deluso dalla regia, pur trovandola in taluni momenti esteticamente pregevole.
Privare il Parsifal dei suoi tradizionali riferimenti culturali (la letteratura medievale, la mitologia cristiana, il buddismo e la filosofia di Schopenhauer) significa, per me, far venir meno un importante elemento di interesse.
Per imporre la propria visione pessimista – non esiste nessuna redenzione, nessuna salvezza, solo un eterno errare senza meta – il regista ha dovuto forzare il libretto giungendo al punto di cancellare, attraverso il telo bianco che impedisce la vista di ciò che accade sul palcoscenico al termine del terzo atto, la messa in scena di un dei momenti più belli dell’opera: la scopertura del Graal.
Peccato. Saluti, Moreno

daland ha detto...

@Moreno
La mia personale convinzione è che un personaggio, e soprattutto uomo-di-teatro indubbiamente geniale come Castellucci si sia lasciato trascinare troppo dal suo "mestiere" (ovunque apprezzato) che consiste di norma nel cavare significati e nel sollevare problematiche dai "testi". Qui c'è invece, di più e di diverso dall'ambiente a lui familiare, la "musica", un elemento così forte (soprattutto in Wagner) da impedire qualunque "volo pindarico", pena la perdita dell'unità stessa (testo-musica) dell'opera. Ecco, mi pare che il regista, scavando come sua abitudine nel "testo" abbia quasi del tutto trascurato la "musica": peccato che in questo genere di teatro (che non è il suo) sia proprio la "musica" a dettar legge. Da qui viene la debolezza della sua proposta, almeno così a me pare.
Grazie e ciao!