Torna a calcare il podio dell’Auditorium
il texano, ormai trapiantato in Europa (ora factotum alla ROSS di Siviglia) John
Axelrod, che propone opere giovanili dei due giganti del
tardoromanticismo, precedute da un’opera matura che viene dal sollevante ma che
con le altre due (e i relativi autori) ha parecchio in comune, compresi – per la
seconda - i drammatici eventi che funestarono gli anni precedenti la metà del secolo
scorso.
Il
filo conduttore del concerto, che è anche quello di ciascuno dei tre brani in
programma, si può individuare come il cammino che porta dalla vita alla morte,
e da qui alla resurrezione, o trasfigurazione. Programma che non pare abbia
avuto particolare attrattiva sul pubblico, a giudicare dalle molte poltrone
vuote (ma gli scettici hanno ancora due chance per rimediare...)
Per Mahler
questo fu il programma interno di
quasi tutte le sue sinfonie: nella prima
si passa dai sogni di gioventù alla marcia funebre e da qui al trionfo finale;
nella seconda è la marcia funebre che
si presenta subito per poi lasciar spazio a ricordi, sereni o grotteschi, e
sfociare precisamente nell’Auferstehung;
nella terza c’è tutto un lunghissimo
percorso che parte dalla materia inanimata e arriva all’uomo, peccati compresi,
per raggiungere infine l’estatica contemplazione divina; la quarta apre su scorci agrodolci di vita,
poi incontra per strada la morte (con tanto di violino scordato) e quindi si
trasfigura fino a salire in un fanciullesco paradiso; la quinta attacca con non una, ma due marce funebri (o giù di lì)
quindi con un poco raccomandabile scherzo, per poi ritrovare serenità, in vista
di un trionfalistico epilogo; la settima
ne segue le orme, passando da atmosfere sinistre a notturni incantamenti,
inframmezzati da danze di streghe, prima di chiudere con esilarante gaiezza; la
sesta e l’ottava fanno dovuta eccezione alla regola, collocandosi ai due
antipodi, un quasi-nichilismo e una messa cantata; la nona ripercorre il ciclo dei ricordi, della vita con alti-e-bassi, con
squarci di gaiezza e spettrali intermezzi, fino al raggiungimento di una serena
rassegnazione e al perdersi in un silenzio eterno ed infinito.
Per Strauss
siamo di fronte ad un autentico testa-coda: a 25 anni compone il suo terzo Tondichtung evocando immagini di
sofferenza preagonica, ma con irruzione di un ideale rincorso vanamente per un’intera vita, ideale che si
completa e si raggiunge finalmente solo dopo che il corpo ha esalato l’ultimo
respiro; praticamente 60 anni dopo, sulle soglie dell’estremo trapasso, Strauss
se ne ricorderà nell’ultimo dei suoi 4
ultimi Lieder, il cui titolo (Al
tramonto) e il cui ultimo verso (É
questa forse la morte?) mirabilmente dipingono l’attesa, ma anche la serena
preparazione del momento a cui nessun essere vivente può sfuggire; e pochi mesi
prima, giusto al termine di quella guerra che ne aveva distrutto gli ideali perseguiti
per tutta una vita (ideali guglielmini, certo, ma sequestrati poi dal nazismo) Strauss
aveva composto una specie di De-profundis
per 23 archi solisti.
Ad eventi di quella stessa tragica guerra ci
rimanda il primo brano in programma, del nipponico Tōru Takemitsu (del
quale avevamo ascoltato anni fa un’altra opera non disprezzabile, Marginalia) che nel 1989 compose la
colonna sonora del film Kuroi ame (qui
la breve introduzione) letteralmente Pioggia nera (quella del fungo atomico
di Hiroshima, soggetto del film): musica per soli archi, poi riarrangiata nel
1996, poco prima della scomparsa dell’Autore, e pubblicata con il titolo Morte e
Resurrezione.
Per la verità, a differenza di quanto si
ascolta in Strauss e Mahler, dove il contrasto tra morte e trionfo (o
trasfigurazione) è netto e inconfondibile, qui siamo in presenza di una reiterazione
di momenti che evocano dolori lancinanti (esasperato cromatismo e atmosfere
decisamente dissonanti) e di momenti di relativo sollievo, come quello che
appare per la prima volta a 3’02” e che ricorda proprio il Mahler della Quinta (primo tema della Trauermarsch,
che rimanda a sua volta allo Schumann
della Romanza della Quarta...) La Resurrezione – almeno come la si intende qui da noi, con pompa ed
enfasi - si fatica assai a decifrarla: l’opera si chiude con un semplice e
scarno passaggio diatonico, SOL-LA-FA# e l’ultimo suono che udiamo è un flebile
accordo FA#-RE (tonica di RE maggiore o settima di dominante di SOL?) che si
spegne nel silenzio eterno.
Brano comunque di ottima fattura che gli
archi de laVerdi, guidati per l’occasione
dalla seconda spalla, Dellingshausen, hanno proposto con
grande efficacia e sensibilità.
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Ecco poi lo straussiano Tod
und Verklärung, sui cui contenuti
mi ero dilungato tempo fa, in occasione di un concerto diretto – guarda caso - proprio
da Axelrod. Come ha acutamente osservato il sommo Quirino Principe, fra tutti i poemi sinfonici di Strauss è quello più
scopertamente descrittivo, quello
dove la musica aderisce con accuratezza quasi fotografica al soggetto
ispiratore - sintetizzato da Strauss in poche righe - più ancora che nella
smaccatamente descrittiva Alpensinfonie.
Axelrod evidentemente non ha cambiato idea interpretativa rispetto a 4 anni fa: la sua mi è parsa anche questa volta una lettura assai severa - con tempi mediamente sostenuti - anche se tutt’altro che noiosa o inefficace, anzi. E il pubblico ha apprezzato moltissimo, a giudicare dal livello raggiunto dall’applausometro.
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Si chiude con il (cosiddetto) Titano, in origine Poema sinfonico in 5 movimenti e poi – espunto il Blumine - innalzato da Mahler al rango di Sinfonia in RE maggiore. Pezzo
fra i più inflazionati, ma che – se assunto in modiche dosi – fa comunque
sempre il suo bell’effetto. Axelrod, da buon allievo di tale Lenny Bernstein, ci mette parecchio di
suo, ma senza mai scadere – pericolo sempre in agguato con questa partitura - in
gigionerie assortite.
In un insieme più che apprezzabile mi
sentirei di segnalare lo sviluppo del
primo movimento, per la delicatezza delle sonorità esibite; poi la marcia funebre, tenuta sempre su un
piano lontano da volgarità da strada. Va da sè che il finale abbia incendiato
gli animi, se lo stesso direttore ha sentito il bisogno di fare uno slalom fra
i leggìi per complimentarsi e/o abbracciare rappresentanti di tutte le sezioni
dell’orchestra.
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