ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

24 marzo, 2014

A Torino fra tragedia e commedia


Il Regio torinese ha in programma in questi giorni un dittico bifronte, serio-leggero. Resterà famoso nella storia quello che fu programmato alla Fenice in occasione della prima di Elektra (1938) allorquando alla tragedia straussiana si fece seguire Il signor Bruschino (!) Anche qui – cosa del resto già fatta alla Scala proprio 10 anni fa - abbiamo l’accoppiata  tragedia + commedia, e così la par-condicio è salva e tutti vanno a casa soddisfatti, anche se a Torino la tragedia viene (grazie al regista) privata della sua genuina conclusione… idilliaca, come vedremo meglio.  

Una tragedia fiorentina (1917, da Wilde) precede di circa un anno lo Schicchi (1918, testo di Forzano) e con esso condivide l’ambientazione gigliata. Poi però, a parte le circostanze belliche in cui furono composte e le comuni viste sull’Arno, le due opere hanno assai poco in comune. E non solo per i soggetti alquanto divergenti, ma proprio per i contenuti squisitamente musicali: tanto maledettamente salace e genuinamente italico quello di Puccini, quanto cerebralmente e incorreggibilmente crucco (non è un’offesa, occhio!) quello di von Zemlinsky

Il regista Vittorio Borrelli ha pensato bene di risparmiare… sull’affitto collocando le due vicende nello stesso caseggiato, più o meno trasportandole all’epoca in cui le opere videro la luce. Il che tutto sommato non nuoce, né scandalizza più di tanto.

Quanto a Stefan Anton Reck, la sua origine (anagrafica e musicale) teutonica non gli impedisce di gestire con la dovuta spigliatezza anche la brillante partitura pucciniana.
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Eccoci quindi, in un teatro non propriamente affollatissimo, alla Tragedia fiorentina. Caspita come si corre veloci oggi, ha commentato il mio vicino di posto sul treno che ci portava a Torino: su Renzi han già fatto anche un’opera lirica… (tera-smile!)

Beh, va detto che della tragedia c’è effettivamente un ingrediente indiscusso e indiscutibile: un omicidio per strangolamento in piena regola. Però tutto il resto della vicenda ha davvero dell’incredibile e del gratuito. Andiamo con ordine.

Siamo nella Firenze del ‘500 e un commerciante rientra a casa prima del previsto trovandovi la sua mogliettina in compagnia piuttosto sospetta di un giovane. Fin qui sembra Hunding che torna da Sieglinde e vi scopre Siegmund: qualche vago sospetto del padrone di casa viene mascherato da affettate profferte di ospitalità, soprattutto dopo che il giovane intruso si è manifestato per il figlio del Duca della città.

Dopo aver cercato (o fatto finta) di vendergli un po’ della sua mercanzia (stoffe e abiti alla moda) il commerciante si dice pronto ad offrire all’ospite qualunque cosa gli aggradi. E qui ecco il primo fatto poco plausibile: il giovane nobile chiede con tutta naturalezza di avere la donna (sic!) Ma non basta, perché il marito, invece di dargli la risposta più ovvia, cerca semplicemente di dissuaderlo minimizzando le qualità della moglie (la bellezza le è rifiutata… arriverà a dire di lei!)

La quale moglie si lascia sentire dal marito mentre dichiara al giovane di volerlo morto! Poi, con il commerciante in giro per la casa, i due amanti si abbracciano e si baciano sulla bocca come nulla fosse. E come nulla fosse il duchino dice poi che si è fatto tardi e fa per andarsene a casa non senza aver ottenuto dalla donna un appuntamento galante per il mattino successivo (!)

Portandogli cappa e spada il commerciante si ricorda di possedere a sua volta un brando arrugginito e invita il giovane a incrociare qualche colpo. La cosa da scherzosa diventa seria: dopo essere stato ferito di striscio, il padrone di casa disarma l’ospite, poi a mani nude lo mette sotto e infine lo strangola senza misericordia.

A nulla valgono le implorazioni del giovane e la donna per parte sua ben si guarda dall’intervenire, come potrebbe, per difenderlo dalla ferocia del marito. Passato il duchino a miglior vita, il commerciante si volge verso la moglie per completare l’opera di fustigazione dei costumi.

E qui la tragedia si muta in… farsa. La donna sbotta estasiata: caro, perché non mi avevi mai detto di essere così forte? E l’uomo, già pronto a strozzarla, trasalisce e risponde: toh, e tu perché non mi hai mai detto di esser così bella? E l’opera si chiude con i due che si baciano sulla bocca… (roba da chiodi!)

In molti si sono naturalmente cimentati nel cercare di spiegare cosa di criptico ci può esser sotto ad una simile strampalata conclusione. Così mi ci provo anch’io, tanto per passare il tempo. Lo spunto me lo ha dato quella specie di monologo che il padrone di casa recita a metà circa dell’atto unico, dopo aver parlato di affari e di politica con il suo (anzi… di sua moglie) ospite, piuttosto disinteressato a tali argomenti, per la verità. Dice infatti: Dunque, tutto quanto il vasto mondo è chiuso fra le quattro mura di questa stanza, e solo con tre anime ad abitarvi?

Personalmente mi stuzzica sempre immaginare dietro questi triangoli delle allegorie di grandi fenomeni di carattere storico-politico-sociale. Nella fattispecie ipotizzo la donna di casa essere la classe operaia che, sfruttata dalla borghesia capitalista, si concede all’aristocrazia, che obiettivamente esercita ancora su di lei un certo fascino… Poi però, nel momento in cui la borghesia soffoca (letteralmente!) la nobiltà, ecco che alla classe operaia non resta che riconoscerne la forza e lo strapotere e (fingere di?) buttarsi fra le sue braccia. Beh, erano fenomeni sotto gli occhi di Wilde come poi di Zemlinsky, o no?

Ecco, invece pare che il regista non abbia potuto sopportare questa pagliacciata (una tragedia è una tragedia, vivaddio!) e quindi ha mandato Wilde e Zemlinsky a quel paese e la fedifraga all’altro mondo, come del resto si merita! Beh, per essere la prima rappresentazione in assoluto al Regio, dopo quasi un secolo di vita, come rispetto dell’originale non c’è malaccio (smile!) E poi tutto ciò alle mie orecchie contraddice abbastanza la chiusa musicale di Zemlinsky, con quel celestiale diminuendo in LAb maggiore dell’intera orchestra, che sa poco di Tod e tanto di Verklärung (giusto per citare il compositore che, con il rivale-in-amore Mahler, più ha lasciato tracce nella musica del nostro).

Mattatore è stato ovviamente il beniamino di casa, Mark S. Doss, che ha sostenuto da par suo una parte piuttosto impervia e faticosa, anche fisicamente. Discreta la prova di Zoran Todorovich e rimarchevole, soprattutto per la… ehm, presenza scenica, quella di Ángeles Blancas Gulín. Insomma, per il piuttosto misconosciuto Zemlinsky un debutto torinese più che accettabile.
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Lo Schicchi è una vera perla, non lo si scopre da oggi, e se il cast è all’altezza non può non piacere e divertire. Con l’intelligente e sobria regia di Borrelli e un’orchestra ben guidata da Reck, chi si è distinto su tutti è Francesco Meli, ancora una volta confermatosi tenore di razza. Con lui Alessandro Corbelli, un protagonista efficacissimo e poi la Serena Gamberoni cui non è mancato l’applauso a scena aperta, di prammatica dopo il Babbino.

Ma bene han fatto tutti gli altri. Alla fine, quando Schicchi recita la frase conclusiva e batte le mani… ecco che è scattato inevitabilmente l’applauso del pubblico, che ha coperto le ultime nove, esilaranti battute in SOLb di Puccini. Ma va bene anche così…

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