Il Regio torinese ha in programma in questi
giorni un dittico bifronte, serio-leggero.
Resterà famoso nella storia quello che fu programmato alla Fenice in occasione
della prima di Elektra (1938) allorquando alla tragedia straussiana si fece
seguire Il signor Bruschino (!) Anche
qui – cosa del resto già fatta alla Scala
proprio 10 anni fa - abbiamo l’accoppiata tragedia + commedia, e così la par-condicio è salva e tutti vanno a
casa soddisfatti, anche se a Torino la tragedia viene (grazie al regista)
privata della sua genuina conclusione… idilliaca, come vedremo meglio.
Una
tragedia fiorentina (1917, da Wilde) precede di circa un anno lo Schicchi
(1918, testo di Forzano) e
con esso condivide l’ambientazione gigliata. Poi però, a parte le circostanze
belliche in cui furono composte e le comuni viste sull’Arno, le due
opere hanno assai poco in comune. E non solo per i soggetti alquanto
divergenti, ma proprio per i contenuti squisitamente musicali: tanto
maledettamente salace e genuinamente italico quello di Puccini, quanto cerebralmente e incorreggibilmente crucco (non è un’offesa, occhio!) quello
di von Zemlinsky.
Il regista Vittorio Borrelli ha pensato bene di
risparmiare… sull’affitto collocando le due vicende nello stesso caseggiato,
più o meno trasportandole all’epoca in cui le opere videro la luce. Il che
tutto sommato non nuoce, né scandalizza più di tanto.
Quanto a Stefan Anton Reck, la sua origine
(anagrafica e musicale) teutonica non gli impedisce di gestire con la dovuta
spigliatezza anche la brillante partitura pucciniana.
___
Eccoci
quindi, in un teatro non propriamente affollatissimo, alla Tragedia fiorentina. Caspita come si corre veloci oggi, ha commentato
il mio vicino di posto sul treno che ci portava a Torino: su Renzi han già fatto anche un’opera
lirica… (tera-smile!)
Beh, va
detto che della tragedia c’è effettivamente un ingrediente indiscusso e
indiscutibile: un omicidio per strangolamento in piena regola. Però tutto il
resto della vicenda ha davvero dell’incredibile e del gratuito. Andiamo con
ordine.
Siamo nella
Firenze del ‘500 e un commerciante rientra a casa prima del previsto trovandovi
la sua mogliettina in compagnia piuttosto sospetta di un giovane. Fin qui
sembra Hunding che torna da Sieglinde e vi scopre Siegmund: qualche vago
sospetto del padrone di casa viene mascherato da affettate profferte di
ospitalità, soprattutto dopo che il giovane intruso si è manifestato per il
figlio del Duca della città.
Dopo aver
cercato (o fatto finta) di vendergli un po’ della sua mercanzia (stoffe e abiti
alla moda) il commerciante si dice pronto ad offrire all’ospite qualunque cosa
gli aggradi. E qui ecco il primo fatto poco plausibile: il giovane nobile
chiede con tutta naturalezza di avere la donna (sic!) Ma non basta, perché il
marito, invece di dargli la risposta più ovvia, cerca semplicemente di
dissuaderlo minimizzando le qualità della moglie (la bellezza le è rifiutata… arriverà
a dire di lei!)
La quale
moglie si lascia sentire dal marito mentre dichiara al giovane di volerlo
morto! Poi, con il commerciante in giro per la casa, i due amanti si
abbracciano e si baciano sulla bocca come nulla fosse. E come nulla fosse il duchino
dice poi che si è fatto tardi e fa per andarsene a casa non senza aver ottenuto
dalla donna un appuntamento galante per il mattino successivo (!)
Portandogli
cappa e spada il commerciante si ricorda di possedere a sua volta un brando arrugginito
e invita il giovane a incrociare qualche colpo. La cosa da scherzosa diventa
seria: dopo essere stato ferito di striscio, il padrone di casa disarma
l’ospite, poi a mani nude lo mette sotto e infine lo strangola senza
misericordia.
A nulla
valgono le implorazioni del giovane e la donna per parte sua ben si guarda
dall’intervenire, come potrebbe, per difenderlo dalla ferocia del marito.
Passato il duchino a miglior vita, il commerciante si volge verso la moglie per
completare l’opera di fustigazione dei costumi.
E qui la
tragedia si muta in… farsa. La donna sbotta estasiata: caro, perché non mi avevi mai detto di essere
così forte? E l’uomo, già pronto a strozzarla, trasalisce e
risponde: toh, e
tu perché non mi hai mai detto di esser così bella? E l’opera si
chiude con i due che si baciano sulla bocca… (roba da chiodi!)
In molti si
sono naturalmente cimentati nel cercare di spiegare cosa di criptico ci può
esser sotto ad una simile strampalata conclusione. Così mi ci provo anch’io,
tanto per passare il tempo. Lo spunto me lo ha dato quella specie di monologo
che il padrone di casa recita a metà circa dell’atto unico, dopo aver parlato
di affari e di politica con il suo (anzi… di sua moglie) ospite, piuttosto
disinteressato a tali argomenti, per la verità. Dice infatti: Dunque, tutto
quanto il vasto mondo è chiuso fra le quattro mura di questa stanza, e solo con
tre anime ad abitarvi?
Personalmente
mi stuzzica sempre immaginare dietro questi triangoli
delle allegorie di grandi fenomeni di carattere storico-politico-sociale. Nella
fattispecie ipotizzo la donna di casa essere la classe operaia che, sfruttata dalla borghesia capitalista, si concede all’aristocrazia, che obiettivamente esercita ancora su di lei un certo
fascino… Poi però, nel momento in cui la borghesia soffoca (letteralmente!) la
nobiltà, ecco che alla classe operaia non resta che riconoscerne la forza e lo
strapotere e (fingere di?) buttarsi fra le sue braccia. Beh, erano fenomeni
sotto gli occhi di Wilde come poi di Zemlinsky, o no?
Ecco,
invece pare che il regista non abbia potuto sopportare questa pagliacciata (una
tragedia è una tragedia, vivaddio!) e quindi ha mandato Wilde e Zemlinsky a
quel paese e la fedifraga all’altro mondo, come del resto si merita! Beh, per
essere la prima rappresentazione in
assoluto al Regio, dopo quasi un secolo di vita, come rispetto dell’originale
non c’è malaccio (smile!) E poi tutto
ciò alle mie orecchie contraddice abbastanza la chiusa musicale di Zemlinsky,
con quel celestiale diminuendo in LAb
maggiore dell’intera orchestra, che sa poco di Tod e tanto di Verklärung
(giusto per citare il compositore che, con il rivale-in-amore Mahler, più ha lasciato tracce nella
musica del nostro).
Mattatore è
stato ovviamente il beniamino di casa, Mark S. Doss, che ha sostenuto
da par suo una parte piuttosto impervia e faticosa, anche fisicamente. Discreta
la prova di Zoran Todorovich e rimarchevole,
soprattutto per la… ehm, presenza scenica, quella di Ángeles Blancas Gulín. Insomma, per il piuttosto misconosciuto Zemlinsky
un debutto torinese più che accettabile.
___
Lo Schicchi è una vera perla, non lo si scopre
da oggi, e se il cast è all’altezza non
può non piacere e divertire. Con l’intelligente e sobria regia di Borrelli e un’orchestra
ben guidata da Reck, chi si è distinto su tutti è Francesco Meli, ancora una volta confermatosi tenore di razza. Con lui
Alessandro
Corbelli, un protagonista efficacissimo e poi la Serena Gamberoni cui non è mancato l’applauso
a scena aperta, di prammatica dopo il Babbino.
Ma bene han fatto
tutti gli altri. Alla fine, quando Schicchi recita
la frase conclusiva e batte le mani… ecco che è scattato inevitabilmente
l’applauso del pubblico, che ha coperto le ultime nove, esilaranti battute in SOLb di
Puccini. Ma va bene anche così…
Nessun commento:
Posta un commento