Fra una
recita e l’altra del… guthiano Così, Daniel Barenboim - del quale si può dire
tutto il male, salvo che manchi di umana, sociale e cristiana (!) carità - ha
trovato, insieme ai professori della Filarmonica,
il modo e il tempo per dedicarsi ad opere di bene: un concerto a beneficio della
benemerita Fondazione DonGnocchi.
Concerto che lo ha visto – in un teatro abbastanza
gremito - contemporaneamente come Direttore e Interprete. Sul secondo fronte
era alla tastiera per suonare il K595,
composto circa un anno dopo (inizio 1791) la terza fatica dapontiana. È
l’ultimo dei concerti per pianoforte e orchestra e – salvo poche venature
d’ombra - sprizza serenità e gioia di vivere da ogni battuta: e pensare che
Mozart non arriverà a vedere il 1792…
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Composto per una circostanza particolare e per
essere eseguito in una sala d’albergo, ha un organico ridotto all’osso: solo 7
fiati (niente clarinetti e trombe) più gli archi. Numerose sono le
auto-citazioni che vi compaiono, come quella di un inciso (che appare a battuta
5) proveniente dal finale della sinfonia Haffner, che a sua volta lo aveva mutuato dal Ratto:
A battuta 13 ecco un motivo
che ci ricorda il Finale della Jupiter:
sono i violini secondi ad esporlo, armonizzati per terze dai violini primi:
Il tema del Larghetto è una
reminiscenza della Sinfonia Linz (finale) e una sua iniziale
cellula viene anche riproposta, con diversa scansione ritmica, dal solista nell'Allegro conclusivo:
Il cui tema principale Mozart impiegherà quasi contemporaneamente in una
canzone:
Una curiosità, per così
dire, editoriale, riguarda un passaggio dell’Allegro iniziale, che nelle partiture storicamente esistenti sul
mercato fin dopo la metà del secolo scorso manca di 7 battute (dopo la 46). Si
tratta di un passaggio che compare più tardi nello sviluppo e poi proprio alla
fine del movimento: pare che nell’esposizione manchi dal manoscritto di Mozart,
sostituito però da un appunto che verosimilmente serviva da richiamo. Le sette
battute sono state reintegrate nell’edizione critica della NMA (1960) cui oggi
(quasi) tutti gli interpreti fanno riferimento:
Si
possono ascoltare in questa esecuzione proprio di Barenboim con i Wiener, da 1‘38“ a 1‘52“ del
filmato. Una delle mosche bianche che ancora impiega l’edizione non emendata è Jenö Jandó, qui con András Ligeti da
1’28”.
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Dopo una falsa partenza, dovuta ad intemperanze di qualche cafone in platea prontamente redarguito, l’approccio
di Barenboim è assai leggero, quasi compassato: personalmente un poco di
freschezza in più non mi sarebbe dispiaciuta, magari nell’Allegro finale. Comunque è sempre un piacere ascoltare questo
autentico gioiello della produzione del Teofilo.
E anche il pubblico mostra di apprezzare, con
ripetute chiamate del Maestro, che non può esimersi dall’offrirci un bis: le
beethoveniane Sei variazioni sull’aria Nel cor più non mi sento da La molinara di Paisiello
(qui il grande Kempff).
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Ecco
infine l’inflazionata Quinta di Ciajkovski. Nel primo movimento Barenboim ci vede proprio la marcia
pesante del destino che arriva minaccioso, poi l’orizzonte si apre nell’Andante cantabile (grazie al corno di Danilo Stagni) e la Valse è suonata come
un minuetto settecentesco. Finale enfatico e retorico quanto basta, e forse
più, con i grandiosi fracassi che contraddistinguono l’ostinato prevalere della
volontà sul destino cinico e baro. Gran trionfo con innumerevoli chiamate.
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