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16 giugno, 2014

Libertini a Torino


Al Regio di Torino è andata in scena ieri pomeriggio la quarta e penultima recita di The Rake’s Progress di Igor Stravinski. Segnalo subito l’interessantissima presentazione di Alberto Bosco, ora disponibile su youtube.
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Lo spunto per quest’opera (che ebbe la prima a Venezia nel 1951) era venuto al compositore da una serie di otto quadri di William Hogarth (vissuto nel ‘700) rappresentanti, appunto, alcune fasi dell’esistenza di un personaggio definito come libertino, o dissoluto. Da qui si potrebbe pensare a qualcosa di tipo Don Giovanni, o magari anche Duca di Mantova.

In realtà la favola morale che i librettisti Wystan Hugh Auden e Chester Simon Kallman derivarono - interpretandole in modo assai elastico - dalle otto pitture di Hogarth rimanda assai più ai casi di tale Dottor Faust, ma più giovane e meno… intelligente (smile!) Insomma: più che un libertino, questo Tom Rakewell sembra uno scansafatiche in cerca di ricchezze, agi, amore e fama a buon mercato, che il destino gli dovrebbe garantire per grazia ricevuta (proprio come quella che Berlusconi reclama da Napolitano...)

Lui, per dire, l’amore ce l’avrebbe già (la povera Anne Trulove, versione moderna della bizetiana Micaëla) ma di fare un’onesta vita da contabile (offertagli dal futuro suocero) per mantenere futura moglie e futuri figli non ne vuol proprio sapere: lui si ritiene meritevole dello status di mangiapaneatradimento e così diventa facile vittima degli… appetiti di un Mefistofele momentaneamente disoccupato (alias Nick Shadow). Costui gli procura una ricca eredità e, di passaggio, lo porta in un bordello (chèz Ma mère l’oye!) tanto per metterlo a suo agio, mentre la povera Anne non si dà pace non avendo più notizie di lui.

Rakewell comincia ad annoiarsi di fare il ricco nullafacente, così esprime il desiderio di essere felice (ma non con Anne, guarda un po’): prontamente il diavolo Shadow gli procura il necessario, Baba la Turca, un fenomeno da baraccone – donna barbuta, per dire - che viene subito sposata dall’entusiasta dissoluto. Anne rintraccia la dimora del fidanzato fedifrago e vi trova… la Turca, così scappa via inorridita.

Però anche il matrimonio comincia a scricchiolare: nel bel mezzo di una discussione domestica, Rakewell immobilizza la moglie con la sua stessa parrucca e poi sogna di diventare un benefattore dell’umanità, fabbricando e vendendo una portentosa macchina che produce pane dalle pietre. Shadow subito lo accontenta, presentandogli un perfetto prototipo dell’incredibile… diavoleria.

Ma come tutte le bufale, anche questa ha vita breve e così Rakewell perde tutte le sue sostanze, causa fallimento dell’impresa. Ciò che ancora conserva in casa vien messo all’asta e venduto dal banditore Sellem, che a un certo punto vorrebbe vendere anche la Turca (rimasta lì dove Rakewell l’aveva immobilizzata). Ma la barbuta torna in sé, consiglia Anne (nel frattempo arrivata ancora a cercare il suo Tom) di prendersi cura del povero amato, e poi torna al suo baraccone.

Dovendo esserci qualcosa di dongiovannesco, ecco che ci troviamo ora in un cimitero, dove Shadow reclama il suo compenso: l’anima di Rakewell. Prima che la mezzanotte scocchi però il diavolo vuol prendersi un’ultima soddisfazione e sfida la sua vittima ad un sadico gioco: indovinare per tre volte la carta che lui estrarrà dal mazzo. Rakewell indovina la prima (Donna di cuori… Anne) e poi la seconda (due di picche, la vanga da becchino caduta a terra in quel momento). Adesso lo sbifido Shadow ne fa una delle sue, per garantirsi la vittoria: rimette nel mazzo la Donna di cuori e la estrae. Ma Rakewell sente la voce di Anne e contro ogni logica nomina ancora la Donna di cuori, e vince. Poi cade svenuto, mentre Shadow sparisce scornato giù nell’inferno, non senza prima aver lanciato sul cliente un’ultima maledizione: farlo pazzo.

Al risveglio infatti Rakewell è fuor di melonera, si crede Adone e così lo ritroviamo trasferito in manicomio, dove la sua Venere (Anne) viene a dargli l’ultimo saluto. Infine, sempre come in Mozart, ecco tutti i personaggi tornare in scena per farci, ciascuno, la sua dovuta morale

Insomma, il soggetto è un – magari sapido – pastiche, ma certo assai più dilettantesco e dozzinale del libretto di DaPonte, non parliamo poi del capolavoro di Goethe. Tanto per esemplificare, i fatti che possiamo chiamare preternaturali sono di ben diversa portata nei modelli rispetto al testo musicato da Stravinski: nel Don la statua del Commendatore ha una valenza simbolica e drammatica eccezionale; nel Faust abbiamo il ringiovanimento compiuto da Mefistofele, anche qui un evento di immensa portata filosofica. Invece nel Rake troviamo dei miracoli piuttosto banalotti: un’eredità (concreta, stando agli sviluppi) che arriva a Tom da uno zio inesistente; poi la macchina del pane che viene presa sul serio dalla Borsa (neanche nella nostra new-economy-delle-bolle si dà retta a certe bufale…)

Certo, nel Rake possiamo vedere tanti aspetti di sottile critica della nostra società post-industriale, di fenomeni che erano già in essere in USA a metà del secolo scorso e che sono poi arrivati anche da noi (le televendite o il mito del successo a buon mercato) e di stereotipi di comportamenti individuali (Tom l’arrivista e Anne la pia, Baba la diva, Sellem il venditore di tappeti e Shadow il potere demoniaco della TV). Ma il livello estetico generale a me pare francamente abbastanza bassino, ed anche nel piccolo ci sono trovate proprio da avanspettacolo (neanche Broadway…) come la povera Baba che rimane ibernata - con la parola never rimastale in bocca a metà – per giorni, se non addirittura settimane o mesi!

E a proposito di scimmiottature un filino dissacranti, nel Rake c’è perfino qualcosa di Parsifal: la scena del bordello (il castello di Klingsor) dove le prostitute (ragazze-fiore) si contendono Rakewell che poi viene usucapito dalla loro tenutaria (Kundry).
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Dal punto di vista musicale Stravinski, con una logica da… orso russo, spiegò che, essendo il soggetto ambientato nel ‘700, allora gli parve normale musicarlo con gli strumenti di quell’epoca (opera a numeri chiusi e con recitativi secchi). Impiegando la stessa logica potremmo immaginare quale musica avrebbero dovuto comporre Verdi per Aida o Wagner per Lohengrin! Invece, forse, Stravinski pensava furbescamente di schivare l’ormai usurato tardo-romanticismo senza però trarne le logiche conseguenze. Un po’ come chi, in economia, per superare Marx non trova di meglio che… retrocedere ad Adam Smith.

Ecco perché personalmente trovo la musica del Rake piuttosto artefatta, pretenziosa ed estetizzante; l’incredibile varietà degli ingredienti utilizzati finisce per renderla stucchevole e addirittura quasi noiosa e indigeribile. Ecco, magari bella, ma fredda e francamente poco coinvolgente…

Certo nella partitura non mancano particolari interessanti o curiosi e spunti di riflessione; mi limito a citarne solo alcuni.
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Le tre apparizioni di Shadow – in corrispondenza dei tre desideri espressi da Tom - sono sempre accompagnate da un arpeggio del clavicembalo, che evoca proprio una specie di pof! da cui si materializza la presenza del demonio, pronto a soddisfare (ma per il proprio tornaconto) le voglie dello scansafatiche. Questi tre arpeggi hanno una struttura comune, costituita da un gruppo di veloci biscrome (12 per i primi due, 11 per il terzo, sempre sulla lunghezza di una semiminima) con andamento ondeggiante, seguito da una nota lunga, ma sono sempre diversi nell’altezza, calando ogni volta di una terza minore (attacco sul FA-RE-DOb e chiusura sul RE-SI-LAb):

Insomma: è come se il diavolo abbia sempre meno necessità di far colpo sulla sua vittima, che è sempre più soggiogata…

Inoltre un quarto arpeggio compare nel momento in cui (scena del cimitero, estrazione della terza carta) Tom, che ha appena udito la voce di Anna, dichiara di non avere più altri desideri (I wish for nothing else):


Come si può constatare, qui le 16 biscrome seguono una linea praticamente a singhiozzo: poichè Shadow si è accorto di esser sul punto di perdere la partita che già credeva vinta! 
    
Troviamo poi alcuni interessanti richiami tematici. Uno collega l’inizio e la fine della scena del cimitero: è dapprima in SOL minore, a preparare l’atmosfera drammatica dell’ultimo incontro Tom-Shadow; poi nella relativa SIb maggiore, a sottolineare l’arrivo dell’alba e il risveglio dell’ormai inebetito, anzi ammattito Tom:


Un altro mette fra loro in stretta relazione telepatica due esternazioni: quella di Tom che si prepara ad indovinare la terza carta (scena del cimitero) e quella di Anne al momento di decidere di partire alla ricerca dell’amato (cabaletta alla fine dell’Atto I):

Come non ammirare infine la ninna-nanna in LAb con cui Anne-Venus fa addormentare il suo Tom-Adonis, prima di dargli l’ultimo addio:

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Come ci è stata proposta a Torino? Intanto si è fatta – cosa abbastanza solita - una sola pausa, qui dopo la seconda scena dell’Atto II, al momento del trionfo di Baba.

La regìa di McVicar (proveniente da Glasgow) è come sempre rispettosa della lettera, prima ancora che dello spirito dell’opera: ambienti, costumi e… suppellettili sono del tutto appropriati, con poche e sempre utili varianti (due scimpanzé in carne ed ossa che Baba si tiene in casa insieme ai più strampalati oggetti; o la palandrana con cui il marito la copre per zittirla, più plausibile della parrucca).

Per il resto un’aderenza quasi maniacale al libretto. Scene ridotte al minimo: quasi vuote per i momenti intimistici e riempite di masse sapientemente manovrate per quelli di carattere pubblico. Costumi d’epoca assai appropriati, mai volgari anche nei momenti più svaccati (memorabili le tettone finte di Mamma-oca!)

E poi il proverbiale magistero di McVicar nel gestire la componente attoriale: dove ogni minimo dettaglio è meticolosamente studiato e nulla è lasciato al caso.
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Sul fronte musicale, note positive come sempre per l’orchestra e il coro: la prima sapientemente mantenuta da Noseda entro i rigidi canoni stravinskiani; il secondo come sempre preparato al meglio da Fenoglio.

Alti e bassi invece a livello voci protagoniste: su tutti lo specialista (di Tom) Leonardo Capalbo, sicuro in una parte che magari non richiede punte acute (non sale mai oltre il LA) ma che abbisogna di lirismo e di… ingenuità.

Alti e bassi invece per Danielle de Niese, che ha cercato di proporre una Anne dolce e devota, ma ci è riuscita bene a livello scenico, un filino meno bene sul canto, in particolare con tendenza al vetroso negli acuti.

Lo Shadow di Bo Skovhus ha ben figurato, guadagnandosi meritati applausi; peraltro, a fronte di grande efficacia nell’ottava alta, ha mostrato qualche debolezza nel registro più grave. Stesso dicasi per la comunque efficace Annie Vavrille (Baba). Discreto anche il Sellem di Colin Judson.

Jakob Zethner (Trulove) Barbara Di Castri (Mamma-oca) Ryan Milstead (guardiano) e Lorenzo Battagion hanno dignitosamente completato il cast.

Per tutti alla fine caloroso successo in un teatro abbastanza affollato.

Fra pochi giorni sarà la Fenice a proporre la sua produzione del Rake – ambientazione moderna, artefice Damiano Michieletto – già andata in scena a Lipsia qualche settimana fa (e dove tornerà a novembre): vedremo la… differenza!

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