Al Regio di Torino è andata in scena ieri
pomeriggio la quarta e penultima recita di The Rake’s Progress di Igor Stravinski. Segnalo
subito l’interessantissima presentazione di Alberto
Bosco, ora disponibile su youtube.
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Lo spunto per quest’opera (che ebbe la
prima a Venezia nel 1951) era venuto
al compositore da una serie di otto
quadri di William Hogarth
(vissuto nel ‘700) rappresentanti, appunto, alcune fasi dell’esistenza di un
personaggio definito come libertino,
o dissoluto. Da qui si potrebbe
pensare a qualcosa di tipo Don Giovanni,
o magari anche Duca di Mantova.
In realtà la favola morale che i librettisti Wystan
Hugh Auden e Chester Simon Kallman
derivarono - interpretandole in modo assai elastico - dalle otto pitture di
Hogarth rimanda assai più ai casi di tale Dottor
Faust, ma più giovane e meno… intelligente (smile!) Insomma: più che un libertino, questo Tom Rakewell sembra uno scansafatiche in cerca di ricchezze, agi,
amore e fama a buon mercato, che il destino gli dovrebbe garantire per
grazia ricevuta (proprio come quella che Berlusconi reclama da Napolitano...)
Lui, per dire, l’amore ce l’avrebbe
già (la povera Anne Trulove, versione
moderna della bizetiana Micaëla) ma di fare
un’onesta vita da contabile (offertagli dal futuro suocero) per mantenere
futura moglie e futuri figli non ne vuol proprio sapere: lui si ritiene
meritevole dello status di mangiapaneatradimento
e così diventa facile vittima degli… appetiti di un Mefistofele momentaneamente
disoccupato (alias Nick Shadow).
Costui gli procura una ricca eredità e, di passaggio, lo porta in un bordello (chèz Ma
mère l’oye!) tanto per metterlo a suo agio, mentre la povera Anne non si dà
pace non avendo più notizie di lui.
Rakewell comincia ad annoiarsi di fare
il ricco nullafacente, così esprime il desiderio di essere felice (ma non con
Anne, guarda un po’): prontamente il diavolo Shadow gli procura il necessario, Baba la Turca, un fenomeno da baraccone
– donna barbuta, per dire - che viene subito sposata dall’entusiasta dissoluto.
Anne rintraccia la dimora del fidanzato fedifrago e vi trova… la Turca, così
scappa via inorridita.
Però anche il matrimonio comincia a
scricchiolare: nel bel mezzo di una discussione domestica, Rakewell immobilizza
la moglie con la sua stessa parrucca e poi sogna di diventare un benefattore
dell’umanità, fabbricando e vendendo una portentosa macchina che produce pane
dalle pietre. Shadow subito lo accontenta, presentandogli un perfetto prototipo
dell’incredibile… diavoleria.
Ma come tutte le bufale, anche questa
ha vita breve e così Rakewell perde tutte le sue sostanze, causa fallimento
dell’impresa. Ciò che ancora conserva in casa vien messo all’asta e venduto dal
banditore Sellem, che a un certo
punto vorrebbe vendere anche la Turca (rimasta lì dove Rakewell l’aveva
immobilizzata). Ma la barbuta torna in sé, consiglia Anne (nel frattempo arrivata
ancora a cercare il suo Tom) di prendersi cura del povero amato, e poi torna al
suo baraccone.
Dovendo esserci qualcosa di
dongiovannesco, ecco che ci troviamo ora in un cimitero, dove Shadow reclama il suo compenso: l’anima di Rakewell.
Prima che la mezzanotte scocchi però il diavolo vuol prendersi un’ultima
soddisfazione e sfida la sua vittima ad un sadico gioco: indovinare per tre
volte la carta che lui estrarrà dal mazzo. Rakewell indovina la prima (Donna di
cuori… Anne) e poi la seconda (due di picche, la vanga da becchino caduta a
terra in quel momento). Adesso lo sbifido Shadow ne fa una delle sue, per
garantirsi la vittoria: rimette nel mazzo la Donna di cuori e la estrae. Ma
Rakewell sente la voce di Anne e contro ogni logica nomina ancora la Donna di
cuori, e vince. Poi cade svenuto, mentre Shadow sparisce scornato giù
nell’inferno, non senza prima aver lanciato sul cliente un’ultima maledizione:
farlo pazzo.
Al risveglio infatti Rakewell è fuor
di melonera, si crede Adone e così lo ritroviamo trasferito in manicomio, dove
la sua Venere (Anne) viene a dargli l’ultimo saluto. Infine, sempre come in
Mozart, ecco tutti i personaggi tornare in scena per farci, ciascuno, la sua
dovuta morale.
Insomma, il soggetto è un – magari
sapido – pastiche, ma certo assai più
dilettantesco e dozzinale del libretto di DaPonte,
non parliamo poi del capolavoro di Goethe.
Tanto per esemplificare, i fatti che possiamo chiamare preternaturali sono di ben diversa portata nei modelli rispetto al
testo musicato da Stravinski: nel Don
la statua del Commendatore ha una valenza simbolica e drammatica eccezionale;
nel Faust abbiamo il ringiovanimento
compiuto da Mefistofele, anche qui un evento di immensa portata filosofica.
Invece nel Rake troviamo dei miracoli
piuttosto banalotti: un’eredità (concreta, stando agli sviluppi) che arriva a
Tom da uno zio inesistente; poi la macchina del pane che viene presa sul serio
dalla Borsa (neanche nella nostra new-economy-delle-bolle
si dà retta a certe bufale…)
Certo, nel Rake possiamo vedere tanti
aspetti di sottile critica della nostra società post-industriale, di fenomeni
che erano già in essere in USA a metà del secolo scorso e che sono poi arrivati
anche da noi (le televendite o il mito del successo a buon mercato) e di
stereotipi di comportamenti individuali (Tom l’arrivista e Anne la pia, Baba la
diva, Sellem il venditore di tappeti e Shadow il potere demoniaco della TV). Ma
il livello estetico generale a me pare francamente abbastanza bassino, ed anche
nel piccolo ci sono trovate proprio da avanspettacolo (neanche Broadway…) come
la povera Baba che rimane ibernata - con la parola never rimastale in bocca a metà – per giorni, se non addirittura
settimane o mesi!
E a proposito di scimmiottature un
filino dissacranti, nel Rake c’è perfino qualcosa di Parsifal: la scena del bordello (il castello di Klingsor) dove le prostitute (ragazze-fiore) si contendono Rakewell
che poi viene usucapito dalla loro tenutaria (Kundry).
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Dal punto di vista musicale
Stravinski, con una logica da… orso russo, spiegò che, essendo il soggetto
ambientato nel ‘700, allora gli parve normale musicarlo con gli strumenti di
quell’epoca (opera a numeri chiusi e
con recitativi secchi). Impiegando la
stessa logica potremmo immaginare quale musica avrebbero dovuto comporre Verdi
per Aida o Wagner per Lohengrin! Invece, forse, Stravinski pensava furbescamente
di schivare l’ormai usurato tardo-romanticismo senza però trarne le logiche
conseguenze. Un po’ come chi, in economia, per superare Marx non trova di
meglio che… retrocedere ad Adam Smith.
Ecco perché personalmente trovo la
musica del Rake piuttosto artefatta, pretenziosa ed estetizzante; l’incredibile
varietà degli ingredienti utilizzati finisce per renderla
stucchevole e addirittura quasi noiosa e indigeribile. Ecco, magari bella, ma fredda
e francamente
poco coinvolgente…
Certo nella partitura non mancano
particolari interessanti o curiosi e spunti di riflessione; mi limito a citarne
solo alcuni.
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Le tre apparizioni di Shadow –
in corrispondenza dei tre desideri espressi da Tom - sono sempre accompagnate
da un arpeggio del clavicembalo, che evoca proprio una specie di pof! da cui si materializza la presenza
del demonio, pronto a soddisfare (ma per il proprio tornaconto) le voglie dello
scansafatiche. Questi tre arpeggi hanno una struttura comune, costituita da un
gruppo di veloci biscrome (12 per i primi due, 11 per il terzo, sempre sulla
lunghezza di una semiminima) con andamento ondeggiante, seguito da una nota
lunga, ma sono sempre diversi nell’altezza, calando ogni volta di una terza minore (attacco sul FA-RE-DOb e
chiusura sul RE-SI-LAb):
Insomma: è come se il diavolo
abbia sempre meno necessità di far colpo sulla sua vittima, che è sempre più
soggiogata…
Inoltre un quarto arpeggio compare nel momento in cui (scena del cimitero,
estrazione della terza carta) Tom, che ha appena udito la voce di Anna,
dichiara di non avere più altri desideri (I wish for nothing else):
Come si può constatare, qui le
16 biscrome seguono una linea praticamente a singhiozzo: poichè Shadow si è
accorto di esser sul punto di perdere la partita che già credeva vinta!
Troviamo poi alcuni interessanti
richiami tematici. Uno collega l’inizio e la fine della scena del cimitero: è
dapprima in SOL minore, a preparare l’atmosfera drammatica dell’ultimo incontro
Tom-Shadow; poi nella relativa SIb maggiore, a sottolineare l’arrivo dell’alba
e il risveglio dell’ormai inebetito, anzi ammattito Tom:
Un altro mette fra loro in stretta
relazione telepatica due esternazioni:
quella di Tom che si prepara ad indovinare la terza carta (scena del cimitero)
e quella di Anne al momento di decidere di partire alla ricerca dell’amato (cabaletta alla fine dell’Atto I):
Come non ammirare infine la
ninna-nanna in LAb con cui Anne-Venus
fa addormentare il suo Tom-Adonis,
prima di dargli l’ultimo addio:
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Come ci è stata proposta a Torino?
Intanto si è fatta – cosa abbastanza solita - una sola pausa, qui dopo la seconda
scena dell’Atto II, al momento del trionfo di Baba.
La regìa di McVicar (proveniente da Glasgow) è come sempre rispettosa della lettera, prima ancora che dello spirito dell’opera: ambienti, costumi e…
suppellettili sono del tutto appropriati, con poche e sempre utili varianti
(due scimpanzé in carne ed ossa che Baba si tiene in casa insieme ai più
strampalati oggetti; o la palandrana con cui il marito la copre per zittirla,
più plausibile della parrucca).
Per il resto un’aderenza quasi
maniacale al libretto. Scene ridotte al minimo: quasi vuote per i momenti
intimistici e riempite di masse sapientemente manovrate per quelli di carattere
pubblico. Costumi d’epoca assai appropriati, mai volgari anche nei momenti più
svaccati (memorabili le tettone finte di Mamma-oca!)
E poi il proverbiale magistero di
McVicar nel gestire la componente attoriale: dove ogni minimo dettaglio è
meticolosamente studiato e nulla è lasciato al caso.
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Sul fronte musicale, note positive
come sempre per l’orchestra e il coro: la prima sapientemente mantenuta da Noseda entro i rigidi canoni
stravinskiani; il secondo come sempre preparato al meglio da Fenoglio.
Alti e bassi invece a livello voci
protagoniste: su tutti lo specialista (di Tom) Leonardo Capalbo, sicuro in una parte che magari non richiede punte
acute (non sale mai oltre il LA) ma
che abbisogna di lirismo e di… ingenuità.
Alti e bassi
invece per Danielle de Niese, che ha
cercato di proporre una Anne dolce e devota, ma ci è riuscita bene a livello
scenico, un filino meno bene sul canto, in particolare con tendenza al vetroso
negli acuti.
Lo Shadow di Bo Skovhus ha ben figurato, guadagnandosi meritati
applausi; peraltro, a fronte di grande efficacia nell’ottava alta, ha mostrato
qualche debolezza nel registro più grave. Stesso dicasi per la comunque efficace
Annie
Vavrille (Baba). Discreto
anche il Sellem di Colin Judson.
Jakob Zethner (Trulove) Barbara
Di Castri (Mamma-oca) Ryan Milstead (guardiano) e Lorenzo Battagion
hanno dignitosamente completato il cast.
Per tutti alla fine caloroso successo in un teatro abbastanza affollato.
Fra pochi giorni sarà la Fenice
a proporre la sua produzione del Rake – ambientazione moderna, artefice Damiano Michieletto – già andata in
scena a Lipsia qualche settimana fa (e dove tornerà a novembre): vedremo la…
differenza!
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