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28 marzo, 2013

Novità (quasi) assoluta alla Scala


Dopo Quartett di Francesconi, presentato nella passata stagione, ecco ancora una novità quasi assoluta nel cartellone della Scala: Cuore di Cane di Alexander Raskatov (2009) basata su un racconto di Michail Bulgakov della prima metà del ‘900, nell’epoca del consolidamento dei Soviet.

Per cominciare, una notazione di carattere linguistico: siamo, è vero, in tempi di globalizzazione selvaggia, ma è davvero singolare, per non dire ridicolo, che un’opera che ha il libretto originale scritto in italiano (da Cesare Mazzonis) venga rappresentata in Italia in lingua russa (traduzione di George Edelman) con sopratitoli in italiano!!! Mentre il programma di sala reca, toh!, esclusivamente il testo italiano, che diverge non poco da quello della traduzione russa, come si deduce dai tagli elencati sul programma scaligero e come chiunque può (più o meno facilmente) presumere ascoltando la registrazione della prima andata in scena poco tempo fa ad Amsterdam, dove l’opera fu commissionata.

Poi, indagando, si viene anche a sapere che la traduzione in russo è stata approntata anche in vista della rappresentazione dell’opera in quel Paese, cosa che però è risultata fino ad oggi impossibile, a causa dell’opposizione di un erede di Bulgakov, che millanta diritti di copyright sull’originale. Insomma, roba da… cani (smile!) E chissà se dentro a questa intricata faccenda non ci stia anche il forfait dal podio di tale Valery Gergiev.

La storia di Bulgakov – invero inverosimile – si colloca nel solco della letteratura russa paradossal-parodistica (tipo Il Naso di Gogol-Shostakovich, per dire) e vorrebbe essere una satira al vetriolo contro certe ideologie staliniste (l’uomo nuovo, modellato in provetta da scienziati pazzi) e contro le contraddizioni del regime, che tollera che all’interno della nuova società egualitaria sopravvivano sacche di privilegi borghesi, per non dire feudali.   

Va detto che lo spettacolo che la coppia di autori Mazzonis(Edelman)-Raskatov e il regista Simon McBurney hanno messo in piedi appare, almeno al primo contatto, assai accattivante, con la sua doppia essenza: di divertente farsa (l’atto primo) seguita dall’autentico dramma (atto secondo) del fallimento dell’uomo-cane, o cane-uomo, fino all’inevitabile e necessaria revoca del folle esperimento (revoca peraltro tardiva ed inefficace, secondo il finale di Mazzonis-Raskatov, che contraddice l’originale lieto-fine di Bulgakov). E proprio perché intelligente e interessante, in Italia l’opera meriterebbe di esser rappresentata nella nostra lingua (gli albionici ci hanno ancora una volta dato una lezione, offrendola al pubblico di Londra tradotta in inglese) per rendercela vieppiù digeribile. Chissà se ci sarà un’altra occasione… intanto questa però è stata persa, come dimostrano gli enormi vuoti che anche ieri sera si sono registrati in teatro, insieme al fuggi-fuggi nell’intervallo. Sì perché, diciamolo chiaro, se uno non ha come minimo letto prima, e molto attentamente, il libretto, rischia di non capirci proprio nulla e di mandar tutti a quel paese…

Il fatto è che la trama non è proprio così lineare e immediatamente comprensibile (se ascoltata in una lingua sconosciuta) poiché alla vicenda surreale del cane trasformato in uomo si sovrappongono e si mescolano altre vicende che pochissimo o nulla hanno a che fare con quella del cane, ma moltissimo con alcune problematiche psico-sociologico-politiche dell’epoca proto-staliniana in cui il soggetto è ambientato. Ad esempio, dopo che all’inizio si vede il povero cane randagio salvato dalla morte per fame-freddo ed ospitato in un palazzo altolocato, prima di arrivare al momento topico dell’operazione chirurgica che lo trasformerà in uomo, per quasi tutto il primo atto si intercalano – allo scopo evidentemente di mostrarci in quale ambiente il cane sia capitato, ma distogliendo l’attenzione dalla vicenda principale – le scene occupate dalle visite di due pazienti paranoici del professore padrone-di-casa, e poi quella  dell’arrivo dei rappresentanti del soviet-di-condominio che vorrebbero espropriare una porzione dello spazioso appartamento-clinica del medico. Queste scene, se non si conosce in anticipo il testo e in compenso lo si ascolta in ostrogoto, risultano incomprensibili e fuori dal contesto, finendo per disorientare completamente lo spettatore.

E siccome in un’opera di teatro musicale (almeno da 200 anni in qua) la musica è strettamente legata al soggetto letterario, se allo spettatore sfugge il contenuto del soggetto medesimo, a maggior ragione gli sfuggirà quello della musica. Certo, ciò vale per qualunque opera cantata in una lingua sconosciuta allo spettatore, quindi anche per Janacek, Musorgski, e addirittura per Wagner, ma è da autolesionisti buttare alle ortiche un’occasione come questa, dove il soggetto è stato scritto precisamente nella nostra lingua!
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Come dicevo, spettacolo godibilissimo e messo in piedi con grande professionalità da tutto il team di produzione (davvero un Gesamtkunstwerk, cui concorrono cantanti, attori, mimi, intelligenti scene mobili, luci e proiezioni appropriate).

Una curiosità quasi paradossale: al termine del primo atto vediamo l’uomo, che da cane qual’era ha appena assunto in modo completo le sue fattezze, apparire completamente nudo, evidentemente per convincerci senza ombra di dubbio che proprio di uomo si tratti… Ebbene, nella rappresentazione di Amsterdam il protagonista appariva quasi pudicamente con la giacca, da cui spuntava qualcosa di penzolante: evidentemente nella terra dei tulipani (e di Nieuwmarkt…) dev’esser successa una rivoluzione (stra-smile!)
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Fermo restando che il giudizio sui contenuti musicali è difficile darlo dopo solo un paio di ascolti, mi sentirei di dire che Raskatov abbia saputo abbastanza sapientemente destreggiarsi (magari con una dose di sano opportunismo) fra modernità da avanguardie novecentesche e tradizione… romantica. Insomma, una musica che coniuga i necessari pugni-nello-stomaco con squarci di grande lirismo (con tanto di richiami e citazioni ottocentesche).

Certo, solo una maggior consuetudine – a livello personale e generale – potrà dirci se questa sia opera in grado di affermarsi fuori da ristrette cerchie di appassionati e di teatri, oppure finisca per entrare in quel limbo (che a volte prende forma di discarica) in cui si accumulano ogni giorno nuove creazioni musicali.  
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Il pubblico della terza di ieri sera (quello che ha resistito fino alla fine, perlomeno) ha accolto lo spettacolo con favore, se si esclude un isolatissimo buh dal loggione, stagliatosi fra gli applausi alla fine del primo atto. Al termine si sono uditi soltanto applausi abbastanza calorosi per tutti indistintamente i protagonisti dello spettacolo (per le identità dei quali rimando alla locandina, in modo da non far torto a nessuno).

Certo, è difficile giudicare così sui due piedi l’interpretazione musicale (chi può valutare il rispetto della partitura da parte di cantanti e direttore?) Da un lato possiamo immaginare che – date le circostanze, prima fra tutte la presenza in-loco degli autori – tutto sia stato fatto nel migliore dei modi… Per il resto, rimangono l’apprezzamento per l’originalità e la gradevolezza dello spettacolo, apprezzamento che avrebbe potuto ulteriormente crescere di livello con l’impiego delle lingua di casa nostra.

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