Dopo Quartett di Francesconi, presentato nella passata stagione, ecco
ancora una novità quasi assoluta nel cartellone della Scala: Cuore di Cane di Alexander Raskatov (2009) basata su un
racconto di Michail Bulgakov della
prima metà del ‘900, nell’epoca del consolidamento dei Soviet.
Per cominciare, una notazione di
carattere linguistico: siamo, è vero, in tempi di globalizzazione selvaggia, ma
è davvero singolare, per non dire ridicolo, che un’opera che ha il libretto
originale scritto in italiano (da Cesare Mazzonis) venga rappresentata in Italia in lingua russa (traduzione di George
Edelman) con sopratitoli in italiano!!! Mentre il programma di sala reca,
toh!, esclusivamente il testo italiano, che diverge non poco da quello della
traduzione russa, come si deduce dai tagli elencati sul programma scaligero e come
chiunque può (più o meno facilmente) presumere ascoltando la registrazione
della prima andata in
scena poco tempo fa ad Amsterdam, dove l’opera fu commissionata.
Poi, indagando, si viene anche a
sapere che la traduzione in russo è stata approntata anche in vista della
rappresentazione dell’opera in quel Paese, cosa che però è risultata fino ad
oggi impossibile, a causa dell’opposizione di un erede di Bulgakov, che millanta
diritti di copyright sull’originale. Insomma, roba da… cani (smile!) E chissà se dentro a questa intricata
faccenda non ci stia anche il forfait
dal podio di tale Valery Gergiev.
La storia di Bulgakov – invero
inverosimile – si colloca nel solco della letteratura russa
paradossal-parodistica (tipo Il Naso
di Gogol-Shostakovich, per dire) e vorrebbe essere una satira al vetriolo
contro certe ideologie staliniste (l’uomo nuovo, modellato in provetta da
scienziati pazzi) e contro le contraddizioni del regime, che tollera che all’interno
della nuova società egualitaria sopravvivano sacche di privilegi borghesi, per
non dire feudali.
Va detto che lo spettacolo che la
coppia di autori Mazzonis(Edelman)-Raskatov e il regista Simon McBurney hanno messo in piedi appare, almeno al primo
contatto, assai accattivante, con la sua doppia essenza: di divertente farsa (l’atto
primo) seguita dall’autentico dramma (atto secondo) del fallimento dell’uomo-cane,
o cane-uomo, fino all’inevitabile e necessaria revoca del folle esperimento (revoca
peraltro tardiva ed inefficace, secondo il finale di Mazzonis-Raskatov, che
contraddice l’originale lieto-fine di Bulgakov). E proprio perché intelligente
e interessante, in Italia l’opera meriterebbe di esser rappresentata nella
nostra lingua (gli albionici ci hanno ancora una volta dato una lezione, offrendola
al pubblico di Londra tradotta in inglese) per rendercela vieppiù digeribile.
Chissà se ci sarà un’altra occasione… intanto questa però è stata persa, come
dimostrano gli enormi vuoti che anche ieri sera si sono registrati in teatro,
insieme al fuggi-fuggi nell’intervallo. Sì perché, diciamolo chiaro, se uno non
ha come minimo letto prima, e molto attentamente, il libretto, rischia di non
capirci proprio nulla e di mandar tutti a quel paese…
Il fatto è che la trama non è proprio
così lineare e immediatamente comprensibile (se ascoltata in una lingua
sconosciuta) poiché alla vicenda surreale del cane trasformato in uomo si
sovrappongono e si mescolano altre vicende che pochissimo o nulla hanno a che
fare con quella del cane, ma moltissimo con alcune problematiche
psico-sociologico-politiche dell’epoca proto-staliniana in cui il soggetto è
ambientato. Ad esempio, dopo che all’inizio si vede il povero cane randagio
salvato dalla morte per fame-freddo ed ospitato in un palazzo altolocato, prima
di arrivare al momento topico dell’operazione chirurgica che lo trasformerà in
uomo, per quasi tutto il primo atto si intercalano – allo scopo evidentemente
di mostrarci in quale ambiente il cane sia capitato, ma distogliendo l’attenzione
dalla vicenda principale – le scene occupate dalle visite di due pazienti
paranoici del professore padrone-di-casa, e poi quella dell’arrivo dei rappresentanti del soviet-di-condominio che vorrebbero
espropriare una porzione dello spazioso appartamento-clinica del medico. Queste
scene, se non si conosce in anticipo il testo e in compenso lo si ascolta in
ostrogoto, risultano incomprensibili e fuori dal contesto, finendo per disorientare
completamente lo spettatore.
E siccome in un’opera di teatro
musicale (almeno da 200 anni in qua) la musica è strettamente legata al
soggetto letterario, se allo spettatore sfugge il contenuto del soggetto
medesimo, a maggior ragione gli sfuggirà quello della musica. Certo, ciò vale
per qualunque opera cantata in una lingua sconosciuta allo spettatore, quindi
anche per Janacek, Musorgski, e addirittura per Wagner, ma è da autolesionisti buttare
alle ortiche un’occasione come questa, dove il soggetto è stato scritto
precisamente nella nostra lingua!
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Come dicevo, spettacolo godibilissimo
e messo in piedi con grande professionalità da tutto il team di produzione (davvero
un Gesamtkunstwerk, cui concorrono
cantanti, attori, mimi, intelligenti scene mobili, luci e proiezioni appropriate).
Una curiosità quasi paradossale: al
termine del primo atto vediamo l’uomo, che da cane qual’era ha appena assunto in
modo completo le sue fattezze, apparire completamente nudo, evidentemente per
convincerci senza ombra di dubbio che proprio di uomo si tratti… Ebbene, nella
rappresentazione di Amsterdam il protagonista appariva quasi pudicamente con la giacca, da cui spuntava qualcosa di penzolante: evidentemente nella terra dei tulipani (e di Nieuwmarkt…) dev’esser successa una rivoluzione (stra-smile!)
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Fermo restando che il giudizio sui
contenuti musicali è difficile darlo dopo solo un paio di ascolti, mi sentirei
di dire che Raskatov abbia saputo abbastanza sapientemente destreggiarsi
(magari con una dose di sano opportunismo) fra modernità da avanguardie novecentesche
e tradizione… romantica. Insomma, una musica che coniuga i necessari
pugni-nello-stomaco con squarci di grande lirismo (con tanto di richiami e
citazioni ottocentesche).
Certo, solo una maggior consuetudine –
a livello personale e generale – potrà dirci se questa sia opera in grado di
affermarsi fuori da ristrette cerchie di appassionati e di teatri, oppure finisca
per entrare in quel limbo (che a volte prende forma di discarica) in cui si
accumulano ogni giorno nuove creazioni musicali.
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Il pubblico della terza di ieri sera
(quello che ha resistito fino alla fine, perlomeno) ha accolto lo spettacolo
con favore, se si esclude un isolatissimo buh
dal loggione, stagliatosi fra gli applausi alla fine del primo atto. Al termine
si sono uditi soltanto applausi abbastanza calorosi per tutti indistintamente i
protagonisti dello spettacolo (per le identità dei quali rimando alla
locandina, in modo da non far torto a nessuno).
Certo, è difficile giudicare così sui
due piedi l’interpretazione musicale (chi può valutare il rispetto della partitura
da parte di cantanti e direttore?) Da un lato possiamo immaginare che – date le
circostanze, prima fra tutte la presenza in-loco degli autori – tutto sia stato
fatto nel migliore dei modi… Per il resto, rimangono l’apprezzamento
per l’originalità e la gradevolezza dello spettacolo, apprezzamento che avrebbe
potuto ulteriormente crescere di livello con l’impiego delle lingua di casa
nostra.
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