Fin dall’annuncio della stagione scaligera
dei due bi-centenari era noto che questa produzione di Macbeth avrebbe
rappresentato una novità, in quanto per la prima volta dopo 150 anni
(precisamente dal 5 marzo 1863) il Piermarini avrebbe ospitato la versione
originale del primo dramma shakespeariano
di Verdi, quella andata in scena alla Pergola
di Firenze il 14 marzo 1847. Tutte le precedenti edizioni, a partire dal 29
gennaio 1874, avevano avuto come oggetto la versione parigina dell’opera, datata 1865 (21 aprile, Théatre Lirique).
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Si sa che Verdi colse l’occasione
della presentazione francese dell’opera - che forse aveva amato più di ogni
altra – per apportarvi, oltre a modifiche espressamente richieste dal teatro
committente, anche suoi propri ritocchi, essendosi reso conto, a più di 15 anni
di distanza, di alcune piccole o grandi manchevolezze insite nella partitura.
Tuttavia, se si escludono numerose
modifiche che all’atto pratico sono distinguibili solamente al musicofilo, o
comunque all’addetto-ai-lavori, mentre sfuggono ad un ascolto normale in teatro, le differenze
sostanziali fra le due versioni si possono riassumere in
quanto segue:
Atto 1:
a. una diversa
distribuzione di voci nei cori delle streghe;
b. una diversa soluzione
del duetto di Macbeth con Lady (prima del sestetto finale) portato tutto a FA
minore – compresa l’armatura di chiave - da FA minore-maggiore;
Atto 2:
la cabaletta di Lady Macbeth Trionfai!
(tutta virtuosismo, in SIb maggiore, con ascese al DO acuto) viene sostituita (testo
e musica) con la drammatica La luce langue (in MI minore-maggiore);
conseguentemente anche la frase di Macbeth che la precede viene abbassata di un
semitono e chiude su SI anziché sul DO.
Atto 3:
a. aggiunta dei ballabili alla scena iniziale, in
omaggio alle consuetudini parigine, con conseguente eliminazione delle ultime
battute del precedente coro delle streghe; inserimento di alcune battute di
raccordo al successivo ingresso di Macbeth (Finché appelli…) e leggere modifiche al successivo recitativo e alla della
scena delle apparizioni;
b. modifica
radicale del finale: eliminazione
dell’aria di Macbeth (Vada in fiamme) sostituita da un dialogo fra
Macbeth medesimo e la sua Lady;
Atto 4:
a. il coro
iniziale (Scozia oppressa) diviene Patria oppressa
ed è completamente ri-musicato (a parità di testo) mutando completamente carattere, dal
cipiglio risorgimentale (SOL minore – SIb maggiore – SOL maggiore) al
metafisico pessimismo (LA minore – MI minore – LA minore, con chiusa in maggiore);
conseguentemente è ritoccato (5 battute) il successivo incipit di Macduff;
b. la scena
della battaglia fra Macbeth e Macduff è completamente ri-musicata (con
l’impiego di una fuga);
c. l’aria di
Macbeth morente (Mal
per me) viene eliminata e sostituita da una enfatica scena di
tripudio generale.
Ora, in questa edizione scaligera è
stata presa effettivamente come base la versione del 1847, ma con due
sostanziali eccezioni, consistenti nel farci il retro-fitting di due brani di quella successiva:
a. l’aria di
Lady Macbeth La
luce langue;
b. il coro Patria oppressa.
Con le inevitabili aggiustature necessarie
per incastrare i due brani del 1865 nella struttura dell’opera del 1847.
Mah insomma, la solita tecnica del meccano, applicata alle opere di cui
esistono versioni o varianti diverse: prendere di volta in volta dalla scatola di montaggio i componenti che piacciono di più e
ri-montarli per costruirci una versione nuova e… diventare famosi. Che poi siano
compromessi né-carne-né-pesce, cui
l’Autore per primo mai aveva pensato, poco importa. (Fra qualche settimana il
Macbeth nella versione davvero originale - almeno si spera! - è in programma
proprio alla Pergola.)
Chi sia stato il responsabile di
questa trovata non è dato sapere; gli indiziati sono parecchi: dal direttore Gergiev (fra parentesi: il suo vice D’Espinosa è stato protestato proprio alla vigilia…) al regista Corsetti (che ne accenna nel video pubblicato
sul sito-web del teatro e sul programma di sala); al maestro del coro Casoni (magari per via del più moderno e
conosciuto Patria oppressa); o alla
protagonista femminile (Lucrecia Garcia,
nel primo cast) magari impreparata di fronte ai funambolici gorgheggi del Trionfai!; e per finire al
soprintendente Lissner, forse arrogatosi
il diritto inappellabile di interpretare i gusti del suo amatissimo pubblico
(!?)
Questione di-vita-o-di-morte? Per carità, abbiamo già abbastanza rogne di
nostro (ci si doveva mettere anche il Presidente a trasformarsi in Re…) quindi
va bene tutto, e del resto in confronto alle invenzioni della regìa qui siamo
ancora in paradiso.
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Ecco, un allestimento (come spesso
capita) a dir poco pretenzioso, dove il regista, a forza di spremersi le
meningi per inventare qualcosa di strabiliante che lo faccia passare alla
storia, le manda arrosto e si imballa come un motore fuori-giri, che alla fine…
fonde in un mare di fumo, spargendo una puzza insopportabile.
L’ambientazione è in nessun posto e
ovunque, allo stesso tempo: scene improbabili, con due ali semoventi di
colosseo di cartapesta; un sofà e un tavolino, con bottiglia di whisky (siamo
in Scozia, perdinci!) e bicchieri; costumi del primo ‘900, con militari
dell’epoca guglielmina che sfilano in parata per tutta la platea, a luci riaccese (come nelle
migliori tradizioni, ormai); teste di cuoio e guardiani di guantanamo che
trattano i prigionieri con guanti scarponi di velluto; clochard in coda
per un piatto caldo della Caritas, e altre cose più o meno improvvisate, come
la presenza di un telefonino dove la Lady legge il famoso sms di Macbeth (qui una sola piccola sbavatura: sui display in sala
il messaggio avrebbe coerentemente dovuto comparire come allgr ldy xkè sno avnti cmnq in sndgg di strgh…)
La categoria dei danzatori e/o mimi
e/o acrobati deve avere con la Scala uno speciale contratto co-co-dè, perché di costoro c’è ormai
traccia in qualunque opera. Come delle proiezioni di immagini o foto, qui usate
in specie per mostrarci gli otto re, incubo di Macbeth: fra loro riconoscibili
alcuni cattivoni, tipo Hitler e Stalin (Berlusconi non-pervenu…)
Insomma, l’ennesimo spettacolo da
localuccio underground spacciato per opera d’arte degna del teatro più rinomato
del pianeta…
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Sul
fronte delle note, dopo la débacle della prima,
come spesso accade le cose sono migliorate: un solo, timidissimo vergogna indirizzato al rientro di Valery Gergiev. Il quale – impugnando uno…
spiedino - ha poche volte alzato lo sguardo dalla partitura (all’apparenza un volume
nuovo di zecca, a giudicare dalle pagine che si giravano da sole, che il maestro
sfogliava probabilmente per la… seconda volta, smile!) Insomma, pareva essere
impegnato a non perdere il passo con l’orchestra, più che a guidarla (!?) Comunque
a me non è dispiaciuto del tutto, per quanto desse l’impressione di dirigere
Ciajkovski… smile!
Per
il resto solo applausi (sì non da stadio, ma applausi): un paio anche a scena
aperta per Secco e Vassallo.
Ecco,
Franco Vassallo è stato un Macbeth
accettabile, oltretutto qui dovrebbe chiedere cachet doppio, per via delle due arie in più che canta, grazie alla
versione 1847: peccato che al termine di quella del terzo atto si sia montato
la testa, credendo forse di essere… Ernani
e sparando ridicolmente un LA acuto degno di miglior causa.
Stefano Secco ha abbastanza convinto, in una parte non impervia, e si è
meritato anche il singolo, dopo la paterna mano.
Lucrecia Garcia ha un vocione abbastanza potente in alto, arriva anche a sparare
i DO acuti, ma nell’ottava bassa e al centro stenta assai: come attrice (e per
la Lady effettivamente ci vorrebbe una Duse…) è un pochino, ehm, impacciata dal
quintalotto che si deve tirare appresso.
Štefan Kocán era Banco (o Banquo che scriver si voglia) e si è
meritato la brutta fine che ha fatto (smile!)
così impara a cantar meglio. Però ha ben interpretato – come prescriveva Verdi –
le sue due apparizioni da morto (che per nostra fortuna non deve cantare… stra-smile!)
Antonio Corianò ha fatto il suo dovere in Malcolm, e così le altre
figure minori.
Il Coro di Casoni sui suoi
standard.
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Alla
fine applausi cumulativi (nessuna uscita singola, regista assente) ma abbastanza
convinti. Fossimo al teatro di Pizzighettone ci sarebbe da fare complimenti a
josa per lo spettacolo. Peccato che siamo alla Scala: amen.
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