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03 aprile, 2013

Alla Scala un Macbeth originale, anzi… strampalato


Fin dall’annuncio della stagione scaligera dei due bi-centenari era noto che questa produzione di Macbeth avrebbe rappresentato una novità, in quanto per la prima volta dopo 150 anni (precisamente dal 5 marzo 1863) il Piermarini avrebbe ospitato la versione originale del primo dramma shakespeariano di Verdi, quella andata in scena alla Pergola di Firenze il 14 marzo 1847. Tutte le precedenti edizioni, a partire dal 29 gennaio 1874, avevano avuto come oggetto la versione parigina dell’opera, datata 1865 (21 aprile, Théatre Lirique).
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Si sa che Verdi colse l’occasione della presentazione francese dell’opera - che forse aveva amato più di ogni altra – per apportarvi, oltre a modifiche espressamente richieste dal teatro committente, anche suoi propri ritocchi, essendosi reso conto, a più di 15 anni di distanza, di alcune piccole o grandi manchevolezze insite nella partitura.  

Tuttavia, se si escludono numerose modifiche che all’atto pratico sono distinguibili solamente al musicofilo, o comunque all’addetto-ai-lavori, mentre sfuggono ad un ascolto normale in teatro, le differenze sostanziali fra le due versioni si possono riassumere in quanto segue:

Atto 1:
a. una diversa distribuzione di voci nei cori delle streghe;
b. una diversa soluzione del duetto di Macbeth con Lady (prima del sestetto finale) portato tutto a FA minore – compresa l’armatura di chiave - da FA minore-maggiore;

Atto 2:
la cabaletta di Lady Macbeth Trionfai! (tutta virtuosismo, in SIb maggiore, con ascese al DO acuto) viene sostituita (testo e musica) con la drammatica La luce langue (in MI minore-maggiore); conseguentemente anche la frase di Macbeth che la precede viene abbassata di un semitono e chiude su SI anziché sul DO.

Atto 3:
a. aggiunta dei ballabili alla scena iniziale, in omaggio alle consuetudini parigine, con conseguente eliminazione delle ultime battute del precedente coro delle streghe; inserimento di alcune battute di raccordo al successivo ingresso di Macbeth (Finché appelli…) e leggere modifiche al successivo recitativo e alla della scena delle apparizioni;
b. modifica radicale del finale: eliminazione dell’aria di Macbeth (Vada in fiamme) sostituita da un dialogo fra Macbeth medesimo e la sua Lady;

Atto 4:
a. il coro iniziale (Scozia oppressa) diviene Patria oppressa ed è completamente ri-musicato (a parità di testo) mutando completamente carattere, dal cipiglio risorgimentale (SOL minore – SIb maggiore – SOL maggiore) al metafisico pessimismo (LA minore – MI minore – LA minore, con chiusa in maggiore); conseguentemente è ritoccato (5 battute) il successivo incipit di Macduff;
b. la scena della battaglia fra Macbeth e Macduff è completamente ri-musicata (con l’impiego di una fuga);
c. l’aria di Macbeth morente (Mal per me) viene eliminata e sostituita da una enfatica scena di tripudio generale.     

Ora, in questa edizione scaligera è stata presa effettivamente come base la versione del 1847, ma con due sostanziali eccezioni, consistenti nel farci il retro-fitting di due brani di quella successiva:

a. l’aria di Lady Macbeth La luce langue;
b. il coro Patria oppressa.

Con le inevitabili aggiustature necessarie per incastrare i due brani del 1865 nella struttura dell’opera del 1847.

Mah insomma, la solita tecnica del meccano, applicata alle opere di cui esistono versioni o varianti diverse: prendere di volta in volta dalla scatola di montaggio i componenti che piacciono di più e ri-montarli per costruirci una versione nuova e… diventare famosi. Che poi siano compromessi né-carne-né-pesce, cui l’Autore per primo mai aveva pensato, poco importa. (Fra qualche settimana il Macbeth nella versione davvero originale - almeno si spera! - è in programma proprio alla Pergola.) 

Chi sia stato il responsabile di questa trovata non è dato sapere; gli indiziati sono parecchi: dal direttore Gergiev (fra parentesi: il suo vice D’Espinosa è stato protestato proprio alla vigilia…) al regista Corsetti (che ne accenna nel video pubblicato sul sito-web del teatro e sul programma di sala); al maestro del coro Casoni (magari per via del più moderno e conosciuto Patria oppressa); o alla protagonista femminile (Lucrecia Garcia, nel primo cast) magari impreparata di fronte ai funambolici gorgheggi del Trionfai!; e per finire al soprintendente Lissner, forse arrogatosi il diritto inappellabile di interpretare i gusti del suo amatissimo pubblico (!?)

Questione di-vita-o-di-morte? Per carità, abbiamo già abbastanza rogne di nostro (ci si doveva mettere anche il Presidente a trasformarsi in Re…) quindi va bene tutto, e del resto in confronto alle invenzioni della regìa qui siamo ancora in paradiso.
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Ecco, un allestimento (come spesso capita) a dir poco pretenzioso, dove il regista, a forza di spremersi le meningi per inventare qualcosa di strabiliante che lo faccia passare alla storia, le manda arrosto e si imballa come un motore fuori-giri, che alla fine… fonde in un mare di fumo, spargendo una puzza insopportabile.  

L’ambientazione è in nessun posto e ovunque, allo stesso tempo: scene improbabili, con due ali semoventi di colosseo di cartapesta; un sofà e un tavolino, con bottiglia di whisky (siamo in Scozia, perdinci!) e bicchieri; costumi del primo ‘900, con militari dell’epoca guglielmina che sfilano in parata per tutta la platea, a luci riaccese (come nelle migliori tradizioni, ormai); teste di cuoio e guardiani di guantanamo che trattano i prigionieri con guanti scarponi di velluto; clochard in coda per un piatto caldo della Caritas, e altre cose più o meno improvvisate, come la presenza di un telefonino dove la Lady legge il famoso sms di Macbeth (qui una sola piccola sbavatura: sui display in sala il messaggio avrebbe coerentemente dovuto comparire come allgr ldy xkè sno avnti cmnq in sndgg di strgh…)

La categoria dei danzatori e/o mimi e/o acrobati deve avere con la Scala uno speciale contratto co-co-dè, perché di costoro c’è ormai traccia in qualunque opera. Come delle proiezioni di immagini o foto, qui usate in specie per mostrarci gli otto re, incubo di Macbeth: fra loro riconoscibili alcuni cattivoni, tipo Hitler e Stalin (Berlusconi non-pervenu…)  

Insomma, l’ennesimo spettacolo da localuccio underground spacciato per opera d’arte degna del teatro più rinomato del pianeta…
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Sul fronte delle note, dopo la débacle della prima, come spesso accade le cose sono migliorate: un solo, timidissimo vergogna indirizzato al rientro di Valery Gergiev. Il quale – impugnando uno… spiedino - ha poche volte alzato lo sguardo dalla partitura (all’apparenza un volume nuovo di zecca, a giudicare dalle pagine che si giravano da sole, che il maestro sfogliava probabilmente per la… seconda volta, smile!) Insomma,  pareva essere impegnato a non perdere il passo con l’orchestra, più che a guidarla (!?) Comunque a me non è dispiaciuto del tutto, per quanto desse l’impressione di dirigere Ciajkovski… smile!

Per il resto solo applausi (sì non da stadio, ma applausi): un paio anche a scena aperta per Secco e Vassallo.

Ecco, Franco Vassallo è stato un Macbeth accettabile, oltretutto qui dovrebbe chiedere cachet doppio, per via delle due arie in più che canta, grazie alla versione 1847: peccato che al termine di quella del terzo atto si sia montato la testa, credendo forse di essere… Ernani e sparando ridicolmente un LA acuto degno di miglior causa.

Stefano Secco ha abbastanza convinto, in una parte non impervia, e si è meritato anche il singolo, dopo la paterna mano.

Lucrecia Garcia ha un vocione abbastanza potente in alto, arriva anche a sparare i DO acuti, ma nell’ottava bassa e al centro stenta assai: come attrice (e per la Lady effettivamente ci vorrebbe una Duse…) è un pochino, ehm, impacciata dal quintalotto che si deve tirare appresso.

Štefan Kocán era Banco (o Banquo che scriver si voglia) e si è meritato la brutta fine che ha fatto (smile!) così impara a cantar meglio. Però ha ben interpretato – come prescriveva Verdi – le sue due apparizioni da morto (che per nostra fortuna non deve cantare… stra-smile!)

Antonio Corianò ha fatto il suo dovere in Malcolm, e così le altre figure minori.

Il Coro di Casoni sui suoi standard.
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Alla fine applausi cumulativi (nessuna uscita singola, regista assente) ma abbastanza convinti. Fossimo al teatro di Pizzighettone ci sarebbe da fare complimenti a josa per lo spettacolo. Peccato che siamo alla Scala: amen.
     

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