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17 aprile, 2013

Normariella ci prova a Bologna


Uno degli eventi più attesi del millennio (smile!) si sta consumando a Bologna, dove è in scena una Norma… fuori-norma. O almeno tale ritenuta da molti sacerdoti del culto del soprano drammatico, che considerano una bestemmia e una provocazione che il ruolo della terrificante sacerdotessa gallica venga sostenuto da una vocina più adatta, caso mai, ad impersonare la mite e patetica Adalgisa. (La quale Adalgisa, per inciso, qui è Carmela Remigio, che fa la… pendolare - smile! - proprio dal ruolo di Norma, quasi a dimostrazione che l’uno vale l’altro, ahahaha!)

Personalmente mi tengo alla larga da simili diatribe, anche perché se l’alternativa è fra un soprano drammatico che bercia e uno leggero che canta, ho pochi dubbi sulla scelta…  
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Sui contenuti e sul soggetto (e le incongruenze storico-geografiche) dell’opera ho già dissertato (smile!) in occasione di una rappresentazione di un anno addietro al Regio torinese, e colà rimando l’eventuale lettore masochista… Allego piuttosto uno scritto di Friedrich Lippmann su Bellini, apparso su Musica&Dossier nel giugno 1987.

Dirò quindi due cose sull’allestimento di Federico Tiezzi, una co-produzione del triangolo Bologna-Trieste-Bari (al Petruzzelli andò in scena nel lontano e infausto 27 ottobre 1991).

Le tre immagini che seguono danno vagamente l’idea delle diverse prospettive sotto le quali si può vedere l’opera: la prima (ripresa al San Carlo nel 1987) riproduce quella di Alessandro Sanquirico per la prima alla Scala del 1831, in cui è evidente lo stile neoclassico; la seconda presenta un bozzetto di Felice Casorati (atto IV, quadro II) del 1935 per il Maggio, un approccio chiaramente realista e paganeggiante; la terza mostra la celebre struttura lignea astratta di Mario Ceroli, per l’allestimento di Mauro Bolognini, che imperversò alla Scala per anni, a partire dal 1972.



Ecco, Tiezzi e lo scenografo Pier Paolo Bisleri (che riprende i fondali originali di Mario Schifano) propongono un’ambientazione, diciamo, sincretizzata, dove troviamo qualche riferimento neoclassico (colonne-quinte) e naturalistico (alcuni fondali) innestati su una base simbolista, rappresentata dall’Irminsul stilizzato e dalla Luna di Schifano). La scena è quasi sempre sgombra, o popolata da pochissimi oggetti. I costumi di Giovanna Buzzi sono anch’essi di epoche diverse: ottocenteschi-napoleonici quelli dei romani, più neoclassici (vedi le lunghe tuniche) quelli dei galli. Anche le suppellettili di casa-Norma (ridotte peraltro a due sedie e poco più) sembrano settecentesche, mentre il trenino-giocattolo del figlio della profetessa ci riporta necessariamente nel primo ottocento.

I movimenti dei personaggi e delle masse sono in sintonia con l’austerità delle scene (e del libretto) e tutta la regìa è quindi orientata alla concentrazione sui conflitti psicologici che caratterizzano il soggetto. Il che è da apprezzare in pieno.
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Della parte musicale dirò subito – tanto per introdurre il discorso-Devia – che Casta Diva è stata cantata in FA e non in SOL (tonalità originaria in cui fu composta la cavatina, ergo più adatta ad una voce… leggera) e che quindi la Mariella si è attenuta alla tradizione, senza cercare di… approfittare di una circostanza teoricamente a lei favorevole. Qui abbiamo la sua performance alla prima, dove si può notare un particolare interessante, che testimonia dell’originalità e della cura che la Devia ha messo nella sua preparazione: l’esposizione della prima frase, a 2’15” (a noi volgi il bel sembiante) è eseguita scrupolosamente secondo partitura, con la salita dal SI naturale al LA acuto (sillaba sem) seguita da 3 forcelle sul bian, poi da un respiro e quindi dalla quarta forcella sul LA con salita al SIb acuto e successiva discesa all’ottava inferiore (sempre sulla sillaba bian); invece alla ripresa del motivo (spargi in terra quella pace) a 5’00”, la Devia, dopo la salita dal SI al LA (sulla parola quella) canta anche la parola pace tutta in legato, senza forcelle e senza prese di fiato intermedie (respira più avanti, prima di che regnar):


Un esempio credo legittimo, questo, di intervento sullo spartito, intervento del tutto normale ai tempi del bel canto, dove era anzi richiesto all’interprete di portare, nelle ripetizioni, il suo valore aggiunto rispetto all’originale.  

Ora, avanzare accademici distinguo sulla prestazione della Devia sarebbe non solo irrispettoso verso la straordinaria professionalità di questa cantante, ma anche piuttosto pretestuoso e scarsamente sostenibile proprio in termini estetici: perché ciò che conta è – anche qui, come in politica o nello sport - il risultato. E il risultato complessivo (parlo ovviamente per me e per nessun altro) è stato più che soddisfacente (per gran parte del pubblico… anche di più, a giudicare dal calore generale dell’accoglienza riservata alla protagonista). E non solo per il Casta Diva, ma per l’intera performance della Devia, culminata in un In mia man alfin tu sei, dove la Mariella, oltre ad evitare il naufragio, ha tirato fuori unghie insospettabili!  

L’altra peculiarità di questa edizione – in omaggio al Wagner bi-centenariato, ma anche in ragione dell’ammirazione incondizionata che il genio di Lipsia nutriva per Bellini e a conferma della vocazione wagneriana di Bologna - è rappresentata dall’impiego della variante (Norma il predisse, o Druidi, WWV52) composta da Wagner a Parigi (1839) per l’aria di Oroveso che nell’originale belliniano inizia con Ah, del Tebro al giogo indegno (scena V, atto II, brano invero splendido e con chiari rimandi tematici al precedente Non partì). Ecco il fascicoletto col contributo wagneriano fare capolino dal volume della partitura di Mariotti, nel bel mezzo dell’atto secondo:


Detto fra noi, e con tutto il rispetto per Wagner (sia ben chiaro) a mè mme pare… ‘na padanada! Ci si sente qualche folata dell’Holländer (toh!) mescolata a scimmiottature dei Puritani, compresa la conclusione con un protervo accordo generale, laddove Bellini chiude in pianissimo! Insomma: una cosa davvero deplorevole, che francamente ci poteva essere risparmiata!
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Del cast di Torino-2012 tornano qui alcuni protagonisti, a cominciare dal padrone di casa Michele Mariotti, il quale conferma in pieno la sua notevole caratura, oltre che il suo approccio all’opera: tempi piuttosto trattenuti, è vero, ma mai grevi, né tali da spossare i cantanti; attacchi sempre precisi e controllo appropriato del volume, attenzione alle minime sfumature… insomma, una direzione autorevole (a proposito, scusate, voi lassù in cima alla Scala… state mica cercando qualche giovine al posto di Barenboim?)

Poi Aquiles Machado, che magari col tempo è un filino migliorato, anche se ancora non mi è parso un Pollione veramente all’altezza (e viene il dubbio che difficilmente lo sarà mai, ahilui). Infine Gianluca Floris, che è stato un Flavio dignitoso.

Sergey Artamonov è un Oroveso di gran presenza scenica; quanto al canto… non mi ha proprio entusiasmato. In più, non vorrei che abbia messo lo zampino nella scelta dell’aria wagneriana, solo per esibire qualche nota (e nemmeno perfetta) in più…  

Carmela Remigio in Adalgisa mi pare stia proprio a… casa sua. Una prestazione pulita e convincente, una partner ben affiatata della Norma di Mariella.

Alena Sautier ha dignitosamente interpretato Clotilde.

Più che apprezzabile anche la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, capace di rendere al meglio sia le parti più platealmente enfatiche, che quelle intimistiche, come l’intercalare su Casta Diva.  
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Come detto, gran trionfo per Mariella e per tutti (comunque qualche dissenso, nel clamore generale, mi è parso di percepirlo…): una Norma che magari non farà storia, ma che a chi ha avuto la ventura di assistitervi (senza pregiudizi, come il sottoscritto) ha davvero lasciato il segno!

2 commenti:

mozart2006 ha detto...

Ti propongo il mio Konzept per una regia di Norma.

Durante l’ Ouverture, la scena rappresenta la sala del Teatro alla Scala durante il fiasco della prima esecuzione della Norma, la sera del 26 dicembre 1831. Mentre gli attori che impersonano i veri Giuditta Pasta, Giulia Grisi e Domenico Donzelli altercano con i moderni grisini in sala, cala improvvisamente l’ attuale sipario rosso della Scala che sull’ accordo finale dell’ Ouverture si strappa.

La scena ora rappresenta il foyer della Scala, che si alterna con l’ interno di una lussuosa villa da nuovi ricchi. Su questo sfondo di capitalismo decadente si consuma una tragedia di passione e politica.

I protagonisti:
- Norma Lo Gallo, giovane sindacalista della FIOM
- Pollione Monaghi, suo amante ed esponente di Confindustria, che la costringe a svolgere attività antisindacali
- Adalgisa Masciadri, dattilografa precaria alla FIOM e nuova vittima del Monaghi
- Oroveso Lo Gallo, pensionato padre di Norma, vecchio anarchico individualista.
- Clotilde e Flavio, che non trovano spazio in questa drammaturgia, rappresentano rispettivamente la coscienza storica delle masse e il perbenismo borghese.

Nella scena finale tutti troveranno morte per mano di un assalto degli Indignados mentre Norma e Pollione osservano la catastrofe da un palco di proscenio tenendosi per mano, a simboleggiare il nuovo ordine economico mondiale nato dalla rovina comune di lavoratori e classe imprenditoriale.

Che ne pensi? Giudici e Mattioli apprezzerebbero?

Ciao!

daland ha detto...

@mozart2006
Da quello che ho letto (la vedrò prossimamente) il Konzept mi ricorda l'Oberto in scena in questi giorni!
Che penso piaccia moltissimo ai citati.
Ciao!