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23 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 27 (Rach4/4)

Il programma dell’ultima giornata del Rach-Festival era totalmente dedicato al compositore russo, presentando in pratica le ultime due opere cui Rachmaninov lavorò prima della morte (1943).

Il Concerto n.4 per pianoforte e orchestra in Sol minore op.40 era stato ideato a ruota del Rach3 (anni ’10-’15) se non ancor prima… ma poi ripreso e completato solo nel 1926; quindi revisionato una prima volta nel 1928; e infine, sottoposto ad altre sostanziose modifiche nel 1941. Fu l’ultima fatica del compositore, seguita di poco alla penultima, le Danze sinfoniche op.45 che hanno completato questa interessante rassegna offertaci da laVerdi.

Sulle intricate vicende del Concerto e sulle principali differenze fra la seconda versione del 1928 e quella definitiva del 1941 ho già pubblicato su questo blog un tormentone ora disponibile qui, quindi non mi dilungo oltre. Caso mai può essere di qualche interesse confrontare le tre versioni ascoltando la terza e ultima dal grande Benedetti Michelangeli, la seconda da William Black e la prima da colui che l’ha incisa per primo dopo la riesumazione nel 2000. Si noteranno così le differenze di durata: 25’, 29’, 31’, a dimostrazione del progressivo smagrimento cui l’Autore sottopose la partitura.

Romanovsky, che ha comprensibilmente presentato la versione 1941, evidentemente deve ancora prenderle tutte le misure, se è vero che si è portato lo spartito sul leggio, e al suo fianco anche l’aiuto gira-pagine. Ma ciò non significa che la sua interpretazione non sia stata eccellente, quanto meno lui è riuscito a renderci questa partitura meno ostica e indigeribile di quanto non rischi di essere: purtroppo, se gli ingredienti del manicaretto sono di qualità mediocre non c’è cuoco che possa cavarne un piatto da leccarsi i baffi, ahinoi.

Ma il pubblico dell’Auditorium – stracolmo anche oggi pomeriggio - lo ha comunque premiato per… l’abnegazione, riservandogli poi un trionfo in ringraziamento per questo autentico regalo che ci ha fatto in questi ultimi 10 giorni. Ci auguriamo di rivederlo (e soprattutto… risentirlo) al più presto. Oggi intanto si è congedato con due sontuosi bis: Rachmaninov e un oceanico Chopin.
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Si è chiuso con il canto del cigno di Rachmaninov, le Danze sinfoniche. Sono proprio un bigino di tutta la precedente produzione del russo trapiantato in USA. E quindi, a chi Rachmaninov piace, piacciono assai. I tre movimenti dovevano avere anche dei sottotitoli - mezzogiorno, tramonto e sera, poi non pubblicati – che peraltro non sembrano propriamente rispecchiati sul pentagramma. 

L’organico orchestrale comprende anche il sax contralto, che impreziosisce il primo dei tre movimenti, oltre al pianoforte e ad una corposa batteria di percussioni.

 

Il primo dei tre brani ha una struttura macroscopicamente tripartita, con le sezioni esterne più mosse dove si ode il tema principale della danza, nervoso e insistito:

La sezione centrale è invece di carattere intimistico e vi spiccano gli interventi della morbida voce del sax contralto:


 

Il secondo brano è praticamente un Walzer, piuttosto tetro e spettrale, sul tipo, per intenderci, dello Scherzo (Schattenhaft) della Settima mahleriana. Il motivo principale è esposto nella prima parte del brano da corno inglese e oboe:


Una seconda sezione è più languida nel ritmo, ma sempre cupa, poi riprende fino alla fine questa specie di danza macabra.


Il terzo e conclusivo brano si apre, dopo un’introduzione lenta, con un Allegro vivace che presenta una danza nervosa e sincopata, che passa da una sezione all’altra dell’orchestra. Segue una transizione lenta e misteriosa, con sonorità cupe del clarinetto basso, con la musica che poi progressivamente si acqueta. Riprende infine l’Allegro vivace dove, dopo l’introduzione dell’oboe e alcune fanfare delle trombe, udiamo distintamente il Dies Irae (una vera fissazione di Rachmaninov) che introduce il caotico finale.

  

Che dire? Che il povero (si fa per dire… certo non dal punto di vista economico, ma purtroppo da quello estetico) Rachmaninov abbia cercato – in extremis, per darsi una patina di modernitä - di scimmiottare gli stilemi (da lui prima sempre vituperati) di uno Stravinsky o di un Prokofiev? O che ormai sentisse, magari nel subconscio, l’avvicinarsi del traguardo riservato a tutti noi? Come interpretare sennò il trito (per lui) riferimento al Dies-Irae che la fa da padrone alla fine dell’ultimo brano? 

    

Insomma, quest’ultimo lavoro, insieme al drastico maquillage operato al 4° concerto, sembra forse testimoniare di una tremenda presa di coscienza di una vita… sprecata? Beh, in quegli stessi anni, o poco dopo, tale Richard Strauss, pur distrutto dalla caduta di tutti i suoi ideali e mortificato dal processo di denazificazione, ci lasciava cosucce tardoromantiche quali Metamorphosen e Vier letzte Lieder… non so se mi spiego!


Ma queste note poco elogiative per il compositore non vanno ovviamente estese agli interpreti, che ancora una volta si sono superati per compattezza, precisione, affiatamento e per qualità di suono.  

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