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da stellantis a stallantis

10 marzo, 2010

Da una casa di morti alla Scala


Z mrtvého domu di Leoš Janáček è forse il fiore all'occhiello del cartellone scaligero 2009-2010: prima rappresentazione italiana in lingua originale, direttore-super (Esa-Pekka Salonen) e regista-super (Patrice Chéreau). Il fatto di arrivare buona ultima – tre anni dopo la prima di Vienna, e poi Aix e il Met - a mettere in scena questa co-produzione dovrebbe dare alla Scala qualche vantaggio legato all'esperienza, sul fronte registico, ma anche musicale. Prima di questa produzione - creata originariamente e già in DVD da Boulez, cui è subentrato, dal Met, Salonen – avevamo la fondamentale interpretazione dei Wiener con Charles Mackerras, autore della moderna edizione critica di quest'opera che Janáček non aveva fatto in tempo ad ultimare in tutti i dettagli, e che i suoi contemporanei – magari in buona fede - avevano inizialmente adulterato alla grande, particolarmente nel finale, dove l'originale era stato totalmente travisato. Agli interessati segnalo che sabato 20 marzo, ore 18, la Bayerischer Rundfunk trasmette una registrazione dell'opera dal Met, con Salonen.
Lo scorso 24 febbraio, presso il Ridotto Toscanini, il consueto incontro di Prima delle prime - meritoria iniziativa de Gli amici della Scala - aveva ospitato un'interessante presentazione di Angelo Foletto (che di questi incontri fu l'ideatore più di 10 anni fa) e del Prof. Fausto Malcovati, che si erano soffermati sul retroterra letterario (dostojevskiano, da esperienza diretta) dell'opera e sulla maestrìa con cui Janáček ha saputo tradurre in suoni – ma prima ancora in una solida struttura drammatica - questo allucinato e allucinante squarcio di vita vissuta dentro un campo di lavoro russo della prima metà del 1800.
Janáček resta ancorato saldamente alla tonalità (e alla modalità) anche se nelle ultime opere decide – ma sembrerebbe più che altro per vezzo? – di abolire le armature di chiave dai suoi pentagrammi (con ciò infarcendoli poi di bemolli, diesis e bequadri, a la dodecafonica…) Altra curiosità: il personaggio di Aljeja fu assegnato dal compositore ad una soprano, decisione rispettata da Mackerras a suo tempo (l'estensione va dal MIb grave al SIb acuto) ma in questo, come in altri allestimenti, è interpretato da un tenore, il che riduce ad una sola (e marginale) la voce femminile all'interno dell'opera.
Opera davvero quasi unica nel suo genere, sia dal punto di vista della trama, di fatto inesistente e ridotta ad una sequenza di flash di vita nel bagno penale (Janáček eveva personalmente fatto un cut&paste di spezzoni del testo russo) e conseguentemente dal punto di vista musicale: una sequenza di motivi, frasi e incisi che apparentemente sembra caotica e priva di qualunque narrativa. E forse non solo apparentemente, se dobbiamo credere a ciò che lo stesso compositore confidò del suo modo di procedere nella stesura della parte musicale. La stessa ouverture, scritta prima del resto, ha solo vaghissimi legami con il corpo dell'opera. Anche senza studiare la partitura, basterà leggere la minuziosa analisi di Harry Halbreich per rendersi conto di come siamo di fronte ad una musica che – con uso stupefacente del colore e del timbro – ci fa vedere con l'orecchio la condizione di vita di quello spicchio di società e lo stato esistenziale di ciascuno dei suoi componenti, ognuno dei quali ha una diversa personalità, una diversa storia e un diverso approccio al proprio futuro.
Finisce con l'invocazione alla libertà (questo il finale adulterato della prima edizione, che chiudeva con un maestoso SI maggiore):




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poi frustrata – nell'originale oggi per fortuna ripristinato - dal perentorio DO con cui la guardia urla il suo terzo Marrrš! Però un fondo di speranza rimane, se è vero che la marcia finale (a sipario velocemente calante) è un allegro che sfocia nel REb maggiore.
Ora, suonare e cantare un'opera siffatta credo sia un'impresa di per sé (questo ne spiega forse lo scarso numero di rappresentazioni) e quindi va dato merito a Salonen e ai cantanti di aver offerto una prova maiuscola, che gli ha meritato un grande tributo da parte del pubblico di una Scala che mostrava pochissimi vuoti, nonostante il nevischio imperversante là fuori.
Qualche considerazione sull'allestimento, che per un'opera siffatta è a dir poco cruciale.
Mentre le scene di Peduzzi (quanto poi imposte dal regista è da vedere) sono di una piattezza fino eccessiva (almeno all'inizio del secondo atto – siamo all'aperto ed è una giornata di sole, per quanto siberiano - un pochino di luce e di colore in più non dovrebbero mancare) devo dire che la regìa di Chéreau mi è sembrata di una fedeltà quasi assoluta al testo e alla musica di Janáček. Persino minuziose didascalie del libretto sono rispettate quasi alla lettera. Giustamente il regista aggiunge idee sue proprie, e geniali (come il particolare degli occhiali persi da Gorjancikov e recuperati da Aljeja, oltre che le movenze curatissime di ciascun personaggio). Ma chiunque abbia letto il libretto (non necessariamente anche Dostojevski) si immagina precisamente di vedere in scena ciò che Chéreau ci propina. Praticamente perfetto, e complimenti!
Ma allora viene spontanea la domanda (maliziosa) al grande regista: perché non ha seguito la stessa strada quando (35 anni fa ormai) inscenò il Ring del centenario a Bayreuth, o anche quando (2 anni fa o poco più) ci presentò il Tristan, qui alla Scala?
Non solo, ma lo Chéreau di questa Casa sembra anche avere sconfessato quello che, proprio a proposito del Ring, negava ogni cittadinanza alla Zeitlösigkeit dell'Opera, calando proditoriamente il mito wagneriano nell'attualità di oggi. Invece oggi abbiamo uno Chéreau che ci mostra – e lo dichiara apertamente nelle sue esternazioni – una vicenda che è fuori dal tempo, uguale a se stessa in tutte le epoche e sotto tutti gli orizzonti. Mah…
Chiudo prendendomi la soddisfazione – io dilettante-nessuno - di irridere al sommo Paolo Isotta, che sul Corriere ha scritto una recensione zeppa di sciocchezze e meritevole di querela da parte degli eredi del compositore. A cominciare dall'affermazione secondo cui il libro di Dostojevski sia ormai introvabile (giudicate voi). Poi, per lui nell'opera manca ogni barlume di quella commozione mistica onde Dostoevskij è pieno. Ma che opera ha visto? O che tasso alcolico aveva nel sangue? E ancora: Non narreremo delle vicende testuali dell'ultimo lavoro del compositore ceco, tanto complicate esse sono. Ma che libretto ha letto? Forse quello in ceco, dove anche lui – come la maggior parte di noi - non ci capisce nulla?
Ma la migliore è questa frase: E non ripeteremo nemmeno una sua colossale ingenuità, che porta gli occhi suoi propri a disprezzare il suo genio, essere la lingua ceca già musica, anzi la sola musica possibile, e i tentativi, paradossalmente a tratti riusciti, di scrivere musica ricalcante la lingua del suo Paese. Sì, era proprio ubriaco (Isotta, mica Janáček) adesso è sicuro!
Dopo aver dato del giovane a Salonen (essendo tutto relativo, il finlandese sarà magari giovane rispetto a Isotta, ma ha pur sempre 52 anni, o Isotta ha scoperto la sua esistenza solo oggi?) la chiusa dell'articolo è precisamente da gulag: Scrive Janáček in esergo alla partitura: «In ognuno di questi criminali c'è una scintilla divina». La sua Opera dimostra radicalmente il contrario. Intanto, se vogliamo stare all'ufficialità – il frontespizio della partitura, per l'appunto – Janáček vi scrive "In ogni creatura (tvor) una scintilla divina"; e poi, basta ascoltare la musica per convincersi che è proprio così. Ma Isotta lo pagano anche?

5 commenti:

Amfortas ha detto...

Grandioso Daland, credimi.
Mi riferisco al post e anche alla chiosa su Isotta che francamente non è più difendibile neanche dai parenti più stretti.
In compenso i miei quasi 55 anni ne escono felicemente rivalutati, ne sarà felice mia moglie, che vuoi che ti dica!
Ciao.

mozart2006 ha detto...

L´Isotta Fresconi ne ha detta un´altra delle sue.
Provinciale com´è, io credo che davvero non sapesse nemmno che Salonen esistesse.
Volevo anche ricordarvi un´altra magnifica interpretazione di quest´opera a cui io ho assistito:quella di Abbado a Salzburg nel 1992, con una bellissima regia di Klaus Michael Grüber, oggi reperibile anche in DVD.
Saluti

daland ha detto...

@Amfortas
Troppo buono, e troppo...giovane!

@mozart2006
Daremo la colpa all'arteriosclerosi, che vuoi fare. Il problema è che moltissima gente che legge si fa poi idee diciamo... distorte.
Hai ragione, quell'edizione a Salzburg si dice fosse storica, e beato te che l'hai potuta seguire dal vivo!

Giuliano ha detto...

Molto bella quest'opera, e si può ascoltare anche senza conoscere la storia, come una sinfonia.
Ho anche letto il libro di Dostoevskij, tanti anni fa (ma tanti) e ne ho ritrovato molto nella musica di Janacek.
Su Isotta, mi meraviglio che continui ad avere credito. Avrebbe potuto essere un ottimo critico, e lo era un tempo; ma qui subentra il fattore umano... (come direbbe Graham Greene)

daland ha detto...

@Giuliano
E' vero, un'opera che - se non supportata da una regìa davvero super - è meglio eseguire in forma di concerto!