L'atteso ritorno di Rudolf Barshai sul podio de laVerdi è – ahinoi – andato in fumo. Ragioni di salute lo hanno costretto al forfait (certo che quest'anno, Vedernikov escluso, le cose coi russi non stanno andando per il verso giusto!) A sostituirlo torna qui - dopo un mese o giù di lì - il Maestro Giuseppe Grazioli, con programma diverso da quanto riportato sul pieghevole a stampa originale (doverosamente ristampato per l'occasione!)
Si comincia con Shostakovich e la Sinfonia da camera, in realtà opera proprio di Barshai (peccato davvero che non fosse lì a dirigerla!) che vi trascrisse l'Ottavo Quartetto in DO minore op.110. Scritto in un momento non propriamente celestiale della sua vita (1960, idee persino di suicidio!) questo quartetto ha un carattere programmaticamente tragico, ma di una tragicità di cui lo stesso compositore quasi si vergognò successivamente: perché abbastanza affettata e quindi forse insincera, come la dedica propagandistica (imposta dal partito e francamente post-zdanoviana) alle vittime di fascismo e guerra.
Anche qui – come in innumerevoli altre sue opere - il compositore presenta subito la sua sigla DSCH (RE-MIb-DO-SI) che poi pervade l'intero quartetto. Una vera e propria manìa, questa del buon Dimitri, quasi fosse l'istinto del cagnolino che deve segnalare il suo passaggio in ogni dove, alzando la gambetta! Tutti i movimenti (escluso il quinto ed ultimo) terminano con l'indicazione attacca, quindi ciascuno sfocia nel successivo senza soluzione di continuità, dando al pezzo una connotazione quasi di fantasia.
Dopo il lugubre Largo iniziale, appena rischiarato da languide melodie del violino solo – qui Luca Santaniello ha avuto modo di mettersi in luce - l'Allegro molto è uno dei tipici moti perpetui di Shostakovich, dove un tema ossessionante e martellante viene contrappuntato, nel nostro caso, da quello della sigla DSCH, in diverse sezioni dell'orchestra. Si passa poi all'Allegretto (uno Scherzo con Trio, di fatto) che si apre con la solita sigla, poi sottoposta a diverse variazioni. Chiudono i due movimenti in Largo, che ci riportano all'atmosfera lugubre dell'inizio, con triplici colpi da destino che bussa alla porta e pochi squarci di luce, come nella parte centrale del quarto tempo. Finisce tutto in un progressivo spegnersi del suono, sul motivo (indovinate!) DSCH. Pregevole l'interpretazione di Grazioli, tenuto conto della (probabile) scarsa consuetudine con il pezzo.
Si continua con Franz Schubert e la sua Quinta Sinfonia. Se escludiamo la Grande (e magari l'Incompiuta) tutte le altre (e non solo la Piccola, che sentiremo prossimamente) sono in effetti delle sinfonie-cammeo (destinate ad esecuzioni quasi private, con complessi ridotti) rispetto alle quali anche l'altro Franz, il vecchio Haydn, che seguirà nel programma, pare un titano. In più, nel 1816 erano già sul mercato (e da 4 anni) ben otto delle nove sinfonie di Beethoven, per non parlare di Mozart! Tuttavia è innegabile che queste sinfoniette del Franz poco più che ragazzo abbiano tutte un fascino discreto… schubertiano, appunto!
Dopo l'Allegro iniziale, con introduzione brevissima e forma sonata piuttosto eterodossa, l'Andante con moto presenta un tema il cui incipit (dominante-mediante-dominante) ci ricorda quello del Largo della Sinfonia 88 di Haydn, che qualcuno sospetta addirittura scritto da Mozart (come si vede che tutti quanti respiravano la stessa aria…)
Il tema del menuetto poi è di chiara derivazione mozartiana (K550):
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Il Finale è un Allegro vivace in forma-sonata, che Grazioli approccia con fiero cipiglio ma rispettando sempre la leggerezza e il carattere cameristico dell'opera.
Si chiude con la London di Haydn. Centoquattresima sinfonia (ma in tutto pare siano 106 o addirittura 108) di uno che, dopo averne scritte già 103 (o 105, o 107) ancora ne aveva voglia. Questa però è l'ultima, promesso! Poi, bontà sua (nel senso letterale del termine) si dedicherà, prima di togliere il disturbo, a cosucce come La Creazione e Le Stagioni, oltre che ad una messe di messe per i suoi mecenati di Esterhàza.
Essendo retrocessi nel '700, anche la disposizione dell'orchestra cambia: da moderna qual'era, adesso diventa alto-tedesca, con i primi violini davanti a destra e gli archi bassi al centro-sinistra.
Apertura che più haydniana non si può: Adagio in RE minore (17 battute) e poi Allegro in RE maggiore. Forma sonata con certificato di garanzia, sia pure con economicità di mezzi (il primo tema fa anche da secondo, semplicemente portato sulla dominante LA). Poi segue l'Andante (SOL maggiore, ci si poteva giurare!) e quindi il Menuetto ancora in RE maggiore, con scolastica modulazione al SIb del trio. Il Finale la dice lunga sullo spirito che animava il 63enne Josephus in quel di Londra, poco prima di tornarsene a casuccia:
Così Grazioli ha modo di regalarci, con l'Orchestra, uno squarcio di primavera, che fuori sembra ancora molto di là da venire. Di ciò ringraziamo lui, i musicanti e Haydn!
Il prossimo appuntamento – dopo un filtro wagneriano per introdurre l'atmosfera – sarà dedicato a Turangalîla di Messiaen.
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