Questa messa in scena del Tristan della Scala è stata da molti osannata e da alcuni vituperata. Fin qui, tutto normale, come si addice a qualunque circostanza del genere. Ma, come spesso accade, peana e stroncature sono motivati più da considerazioni estranee allo spirito e alla lettera della Handlung wagneriana, che non da precise valutazioni di merito.
Ormai si tende purtroppo a considerare - e quindi a giudicare - la messa-in-scena come un corpo separato dal resto dell’Opera, uno spettacolo fine a se stesso, senza tener conto che - massimamente in Wagner - essa è invece parte integrante del Gesamtkunstwerk e che le precise indicazioni didascaliche poste in partitura dovrebbero avere la stessa rilevanza - e meritare lo stesso rispetto - che si deve alle notazioni musicali e alle parole cantate dagli interpreti.
Intendiamoci: che Chéreau sia in grado di mettere in piedi una regia geniale, nessuno lo mette in dubbio (oltre ad averne le doti, è pagato - ed assai profumatamente - per questo); idem per le scene di Peduzzi o i costumi della Bickel. Ma geniale - e di sicurissimo effetto - sarebbe anche (per dirla con James Levine) lo scambio delle parti musicali fra la sezione degli archi e quella dei fiati (domanda: perchè ad un geniale musicista come Barenboim non è ancora venuta in mente, questa fantastica idea?)
Come è chiaro da questa premessa, non sarò affatto tenero con gli addetti ai lavori extramusicali di questo Tristan (musicisti, cantanti e direttore sono invece stati di livello assolutamente mitteleuropeo).
Qualche osservazione, dopo esperienza diretta dell’ultima rappresentazione, del 2 gennaio 2008.
La principale critica cui si espone questo allestimento sta nel fatto che esso, deviando ampiamente (quando non apertamente contraddicendole) dalle prescrizioni dell’Autore, finisce per trasmettere allo spettatore significanze e sensazioni diverse da quelle che l’Autore stesso aveva immaginato. O, nel migliore dei casi, introduce tali e tanti elementi di distrazione dell’attenzione dello spettatore da ciò che viene detto (cantato) sulla scena, da rendergli ardua la comprensione stessa del dramma, già di per se difficile per chi non conosce la lingua tedesca, o non si è più che assiduamente preparato facendo i compiti a casa, prima di andare a Teatro.
In particolare le scene (un poco anche i costumi) sono tali da appiattire i contrasti fra il mondo esteriore (ciò che appunto si vede) e gli stati d’animo dei protagonisti; e la regia, introducendo arbitrariamente elementi di eccessiva mobilità, contribuisce a distrarre lo spettatore, impedendogli di concentrarsi adeguatamente sui contenuti (di testo e musica).
Insomma: un allestimento che rende un cattivo servizio allo spettatore, prima e oltre che a Wagner; e che si fa apprezzare in misura inversa al grado di preparazione dello spettatore medesimo.
Ormai si tende purtroppo a considerare - e quindi a giudicare - la messa-in-scena come un corpo separato dal resto dell’Opera, uno spettacolo fine a se stesso, senza tener conto che - massimamente in Wagner - essa è invece parte integrante del Gesamtkunstwerk e che le precise indicazioni didascaliche poste in partitura dovrebbero avere la stessa rilevanza - e meritare lo stesso rispetto - che si deve alle notazioni musicali e alle parole cantate dagli interpreti.
Intendiamoci: che Chéreau sia in grado di mettere in piedi una regia geniale, nessuno lo mette in dubbio (oltre ad averne le doti, è pagato - ed assai profumatamente - per questo); idem per le scene di Peduzzi o i costumi della Bickel. Ma geniale - e di sicurissimo effetto - sarebbe anche (per dirla con James Levine) lo scambio delle parti musicali fra la sezione degli archi e quella dei fiati (domanda: perchè ad un geniale musicista come Barenboim non è ancora venuta in mente, questa fantastica idea?)
Come è chiaro da questa premessa, non sarò affatto tenero con gli addetti ai lavori extramusicali di questo Tristan (musicisti, cantanti e direttore sono invece stati di livello assolutamente mitteleuropeo).
Qualche osservazione, dopo esperienza diretta dell’ultima rappresentazione, del 2 gennaio 2008.
La principale critica cui si espone questo allestimento sta nel fatto che esso, deviando ampiamente (quando non apertamente contraddicendole) dalle prescrizioni dell’Autore, finisce per trasmettere allo spettatore significanze e sensazioni diverse da quelle che l’Autore stesso aveva immaginato. O, nel migliore dei casi, introduce tali e tanti elementi di distrazione dell’attenzione dello spettatore da ciò che viene detto (cantato) sulla scena, da rendergli ardua la comprensione stessa del dramma, già di per se difficile per chi non conosce la lingua tedesca, o non si è più che assiduamente preparato facendo i compiti a casa, prima di andare a Teatro.
In particolare le scene (un poco anche i costumi) sono tali da appiattire i contrasti fra il mondo esteriore (ciò che appunto si vede) e gli stati d’animo dei protagonisti; e la regia, introducendo arbitrariamente elementi di eccessiva mobilità, contribuisce a distrarre lo spettatore, impedendogli di concentrarsi adeguatamente sui contenuti (di testo e musica).
Insomma: un allestimento che rende un cattivo servizio allo spettatore, prima e oltre che a Wagner; e che si fa apprezzare in misura inversa al grado di preparazione dello spettatore medesimo.
Atto I.
Nella prima scena Wagner prescrive un ambiente chiuso (da un tendaggio) e arredato con preziosi tappeti, mentre Isolde è abbandonata su un divano, con la testa fra i cuscini. Vuole evidentemente mostrarci lo stridente contrasto fra lo sfarzo materiale da cui Isolde è circondata (una Principessa che va sposa ad un Re, non so se mi spiego!) e la totale miseria spirituale che invece possiede il suo animo. L’attenzione deve essere tutta concentrata su questa dissociazione che caratterizza la psiche di Isolde, perdutamente innamorata di un uomo che non potrà avere (ma che dovrà vedersi accanto quotidianamente) e costretta a subire la vuota apparenza esteriore delle ricchezze che la circondano. Insomma: l’idea di una prigione dorata. Solo così si comprende appieno il drammatico sfogo di Isolde: “che questa nave se ne vada in malora, con tutto e tutti!”
Chissà perchè, invece, la scena di Peduzzi è uniforme, spoglia, tetra e grigia, e lo spazio è da subito aperto, lasciando più che intravedere le prosaiche attività della vita di bordo; su un vascello, per di più, che è l’esatto opposto di una ricca nave regale, ma assomiglia ad uno sgangherato e lurido mercantile. Se si voleva ambientare la scena nei nostri tempi, allora si doveva prendere una love-boat, non certo una carretta del mare, dove oggigiorno si stipano dei disgraziati clandestini! Quindi quel contrasto - fra lo sfarzo esteriore e la condizione psicologica di Isolde - si perde totalmente: anzi, lo spettatore riceve l’impressione - del tutto fallace - che lo stato d’animo di Isolde, e la sua successiva imprecazione, siano conseguenza della miseria di quell’ambiente inospitale, mentre le cose stanno in ben altro modo, come sappiamo!
Alla fine della prima scena Brangäne scosta la tenda, a seguito dello sfogo di Isolde (Luft!, Luft!): ora - ma solo ora, cari Chéreau-Peduzzi - nella seconda scena, si deve vedere tutta la nave, in particolare Tristan. C’è lui, indubitabilmente, dietro il “bisogno di aria“ di Isolde, che infatti immediatamente lo individua - così prescrive Wagner - e lo fissa intensamente, mentre lui guarda il mare, pensieroso. L’atteggiamento sbracato di Kurwenal ancora qui deve rappresentare un altro contrasto, quello che oppone l’oscuro sentimento che divora Tristan al goliardico cameratismo del suo entourage.
Ma, invece di marinai col morale alto, noi vediamo qui una ciurma di salariati, che sembra quasi sulla soglia dell’ammutinamento, il che stride maledettamente con ciò che si ascolta: l’intervento del coro dopo le parole di Kurwenal, caratterizzato da sana virilità e da allegro sarcasmo!
Altro particolare, non proprio secondario: qui è Brangäne che si deve muovere verso Tristan, attraversando la nave da prua a poppa; solo all’inizio della quinta scena sarà Tristan a muoversi verso Isolde, dimenticandosi il pretesto di dover reggere il timone, pretesto che invece viene impiegato qui per rifiutare l’invito di Brangäne. Queste due diverse direzioni di traffico non sono per nulla casuali, ma sono parte del sottile gioco psicologico, un vero e proprio braccio di ferro, che è in atto fra i due protagonisti.
Se invece i movimenti dei personaggi sono abbastanza caotici (Brangäne che va e e viene, e parla più rivolta a Isolde che a Tristan, Tristan che scende dalla cabina di pilotaggio del cargo e avanza verso il centro della scena) quella differenza sostanziale non si percepisce e con ciò si perde comprensione delle implicazioni psicologiche che essa contiene.
Kurwenal (seguito poi dal coro) deve cantare dietro a Brangäne che si allontana, come un cane che continua ad abbaiare ad un intruso che viene cacciato. E il canto è pieno di sarcasmo, è quasi uno sfottò. Invece ciò che si vede è in totale stridore con ciò che si ascolta: Kurwenal e la ciurma che si muovono quasi con cattiveria, addirittura arrivando a spintonare qua e là la povera ancella...
Tornando da Isolde, Brangäne deve richiudere ermeticamente (sic! Wagner) la tenda poichè, nella terza scena, avrà luogo il colloquio riservato di Isolde con l’ancella, tutto incentrato sul racconto dei precedenti intercorsi fra Isolde e Tantris-Tristan, sulla disperante prospettiva che Isolde confessa a Brangäne e sulla sua conseguente decisione di servirsi del filtro di morte per metter fine alle sue pene. Invece qui resta tutto aperto e la cosa si aggiunge alla miseria dell’arredamento (e in particolare delle suppellettili: una lurida cassona rimpiazza il prezioso scrigno che conserva i filtri) nel distrarre la concentrazione dello spettatore.
All’inizio della quarta scena, Kurwenal deve irrompere spostando le tende, per annunciare che Tristan aspetta Isolde per accompagnarla dal Re. Tanto che Isolde sobbalza letteralmente! Qui invece lo si vede arrivare... da lontano. Poi Isolde, uscito Kurwenal, ordina all’ancella di preparare il filtro. E qui c’è un apparentemente piccolo particolare: la coppa destinata a ricevere il filtro deve essere d’oro (sic! infatti Isolde lo canta, proprio esplicitamente: “In die goldne Schale...“). Non è certo questo uno sfizio decadente di Wagner, ma la volontà di rappresentarci - ancora una volta - lo stridente contrasto fra la preziosità del contenitore materiale - che dovrà essere usato nientemeno che in occasione di un ufficiale brindisi diplomatico, a suggello di un trattato di pace! - e la miseria del suo contenuto spirituale. Questo contrasto si perde totalmente se - grazie a Chéreau e Peduzzi - si impiega una volgare, bianca scodella da latte, presa dalla misera dotazione di bordo, che non fa che appiattire tutto, e per di più contraddice in modo quasi ridicolo le precise parole pronunciate da Isolde. Ecco qui un piccolissimo, ma significativo, esempio delle gratuite stupidità del Regietheater.
La quinta scena si apre con l’ingresso di Tristan nel locale che ospita Isolde. Tutta la scena che porta al brindisi dovrebbe svolgersi a porte chiuse; soltanto quando si odono le voci dei marinai, che vengono dall’esterno, Tristan e Isolde si svincolano dall’abbraccio, prima che le tende vengano scostate. E dopo che le tende sono state aperte, e la ciurma ha potuto avere accesso alla vista di Tristan e Isolde, questi restano in reciproca contemplazione, fino a che Brangäne pone il manto regale sulle spalle di Isolde e Kurwenal pronuncia l’epicinio di Tristan. A questo punto Isolde deve cadere svenuta (sic!) nelle braccia di Tristan, e Brangäne la fa soccorrere dalle donne, mentre Tristan canta “O voluttà piena di frode! O felicità consacrata dall'inganno!”, prima della cadenza finale del coro, sul sipario che cala. E ancora una volta Wagner ci vuol mostrare un lancinante contrasto: fra la tempesta che si agita nei cuori dei due amanti - che deve ovviamente essere in primo piano - e la gran festa esteriore, che le fa da sfondo (Wagner lo scrive chiaramente: dall’esterno).
Invece i nostri fanno irrompere in primissimo piano e anzitempo masse di gente, a mescolarsi con i due protagonisti, col mantello che, invece che da Brangäne, viene portato a Isolde da diverse comparse e con Tristan addirittura sequestrato in un angolo da altre; e finalmente fanno apparire a bordo Re Marke. Di lui sappiamo, da Kurwenal, che è su una scialuppa che si avvicina alla nave, osannato dalla folla e dai marinai, che sventolano i berretti. L’ultima didascalìa del primo atto, subito prima che il sipario cali, quindi dopo che Isolde è svenuta fra le braccia di Tristan, ci informa che della gente è salita a bordo, scavalcando il parapetto della nave, su cui altri hanno appoggiato una passerella, e che tutti sono in attesa dell’arrivo degli attesi. Insomma: nessun indizio preciso ci porta a pensare che Re Marke sia già salito sulla nave, anzi la cosa sembrerebbe proprio da escludersi. La scena della consegna della promessa sposa a Re Marke ci verrà descritta con maggiori dettagli nel secondo atto, da Brangäne, che racconterà di Isolde, appena in grado di reggersi, portata verso il Re dalla mano tremante di Tristan, e di Melot che scruta insistentemente l’atteggiamento dell’eroe.
Invece Chéreau-Peduzzi ci mostrano Marke che raccoglie Isolde dal pavimento, mentre Tristan è sempre trattenuto in disparte da un gruppo di comparse. Così vediamo un sacco di gente, e Re Marke in persona, testimoni di una situazione - del tutto gratuita qui - di “tresca in flagrante“, che invece dovrà caratterizzare la fine del secondo atto (è lì che Re Marke deve fare la sua apparizione fisica, che sarà tanto più efficace proprio perchè prima, di lui abbiamo solo sentito parlare).
Insomma, tutto lo spirito della conclusione dell’atto viene stravolto, facendovi prevalere il gran bailamme esteriore, che invece dovrebbe restare sullo sfondo, a far da contrasto con il dramma dei due amanti.
Atto II.
È un atto così nudo e statico che soltanto una pervicace volontà distruttiva di regista e scenografo potrebbero fargli seri danni... e grazie al cielo Chéreau e Peduzzi si sono ben guardati dallo scatenare il loro genio in questa direzione. Ma una critica si può anche qui avanzare: perchè ostinatamente si devono bandire i segni esteriori?
Se Wagner scrive di un sedile fiorito, su cui si svolge quasi interamente la seconda scena, non lo fa di certo con intento banalizzante, ma per mostrare - qui, agli antipodi rispetto al primo atto - la totale assenza di contrasto fra lo spirito che ora alberga nei due cuori e la natura circostante, che adesso è benigna, amica, quanto era stata in precedenza ostile ed insopportabile. Peduzzi si attiene ad un certo minimalismo, che almeno è innocuo, ma che toglie non poco all’insieme. E poi - per dimostrare di esistere? - fa proprio una cosa da bastian-contrario. Nella scena del duetto d’amore, abbiamo un tetro e freddo ambiente, senza un filo d’erba e men che meno fiori. Poi, nella terza scena, dove avviene il fattaccio, si apre lo sfondo e ci fa vedere un pezzo di castello con verdi piante ornamentali!
Anche qui la regia - per mettersi in luce? - si prende delle libertà gratuite: in tutta la seconda scena Tristan e Isolde devono stare vicini, che più vicini non si può... invece qui li vediamo per lo più disgiunti, addirittura a metri e metri di distanza, come se ancora si fosse nel primo atto dove fra i due si svolgevano psicologiche schermaglie.
Atto III.
Didascalìa di pugno di Wagner: ambiente dimesso, castello semi-diroccato, erbacce ovunque, un gran tiglio, sotto il quale giace Tristan. Sarà anche una sua fissazione, ma per Wagner - come per altri tedeschi, musicisti e no - il tiglio deve pur significare qualcosa: lo troviamo nel Siegfried, a ristorare lo stanco eroe e ad ispirargli il pensiero della madre (pensiero che prende anche la mente di Tristan); e nei Meistersinger, dove profuma l’aria della splendida notte d’estate ed è testimone del commovente colloquio fra Eva Pogner e il padre Veit.
Per carità, Chéreau-Peduzzi abbassarsi a tanta sdolcinata oleografia? Che geni sarebbero? Mica sono ripetitivi loro, come quel routinario di un Barenboim che si ostina - più di 150 anni dopo! - a suonare ancora il Preludio Atto III proprio come Wagner lo ha scritto sul pentagramma, senza spostare una sola nota o un arco di legatura! No, per i nostri geni Kurwenal ha depositato Tristan ferito in un posto che assomiglia ad una delle stazioni della metropolitana di Roma, costruite nel '90 per i mondiali, e poi abbandonate: in un posto dove non c’è un filo d’erba, sullo sfondo il muro romano (vero!) e un pò di terrapieni e fondazioni incompiute, altro che tigli! Però, allorquando Tristan si desta e chiede a Kurwenal “dove mi trovo?”, lo scudiero candidamente risponde: “ma sei a Kareol, nel castello dei tuoi avi, non lo riconosci?”
Atto II.
È un atto così nudo e statico che soltanto una pervicace volontà distruttiva di regista e scenografo potrebbero fargli seri danni... e grazie al cielo Chéreau e Peduzzi si sono ben guardati dallo scatenare il loro genio in questa direzione. Ma una critica si può anche qui avanzare: perchè ostinatamente si devono bandire i segni esteriori?
Se Wagner scrive di un sedile fiorito, su cui si svolge quasi interamente la seconda scena, non lo fa di certo con intento banalizzante, ma per mostrare - qui, agli antipodi rispetto al primo atto - la totale assenza di contrasto fra lo spirito che ora alberga nei due cuori e la natura circostante, che adesso è benigna, amica, quanto era stata in precedenza ostile ed insopportabile. Peduzzi si attiene ad un certo minimalismo, che almeno è innocuo, ma che toglie non poco all’insieme. E poi - per dimostrare di esistere? - fa proprio una cosa da bastian-contrario. Nella scena del duetto d’amore, abbiamo un tetro e freddo ambiente, senza un filo d’erba e men che meno fiori. Poi, nella terza scena, dove avviene il fattaccio, si apre lo sfondo e ci fa vedere un pezzo di castello con verdi piante ornamentali!
Anche qui la regia - per mettersi in luce? - si prende delle libertà gratuite: in tutta la seconda scena Tristan e Isolde devono stare vicini, che più vicini non si può... invece qui li vediamo per lo più disgiunti, addirittura a metri e metri di distanza, come se ancora si fosse nel primo atto dove fra i due si svolgevano psicologiche schermaglie.
Atto III.
Didascalìa di pugno di Wagner: ambiente dimesso, castello semi-diroccato, erbacce ovunque, un gran tiglio, sotto il quale giace Tristan. Sarà anche una sua fissazione, ma per Wagner - come per altri tedeschi, musicisti e no - il tiglio deve pur significare qualcosa: lo troviamo nel Siegfried, a ristorare lo stanco eroe e ad ispirargli il pensiero della madre (pensiero che prende anche la mente di Tristan); e nei Meistersinger, dove profuma l’aria della splendida notte d’estate ed è testimone del commovente colloquio fra Eva Pogner e il padre Veit.
Per carità, Chéreau-Peduzzi abbassarsi a tanta sdolcinata oleografia? Che geni sarebbero? Mica sono ripetitivi loro, come quel routinario di un Barenboim che si ostina - più di 150 anni dopo! - a suonare ancora il Preludio Atto III proprio come Wagner lo ha scritto sul pentagramma, senza spostare una sola nota o un arco di legatura! No, per i nostri geni Kurwenal ha depositato Tristan ferito in un posto che assomiglia ad una delle stazioni della metropolitana di Roma, costruite nel '90 per i mondiali, e poi abbandonate: in un posto dove non c’è un filo d’erba, sullo sfondo il muro romano (vero!) e un pò di terrapieni e fondazioni incompiute, altro che tigli! Però, allorquando Tristan si desta e chiede a Kurwenal “dove mi trovo?”, lo scudiero candidamente risponde: “ma sei a Kareol, nel castello dei tuoi avi, non lo riconosci?”
Tristan dovrebbe rimanere sempre nel suo giaciglio, al massimo sollevandosi un poco, fino all’annuncio dell’arrivo di Isolde, e Kurwenal accanto a lui, a raccoglierne i deliranti ricordi. Nessun altro, salvo il pastore di cui si dovrebbe vedere solo il busto che emerge da un parapetto. Bene, qui abbiamo (almeno quelle che ho contato io) ben altre otto comparse affaccendate attorno a Tristan! E poi Tristan che si alza anzitempo dal giaciglio e percorre strisciando o carponi mezzo teatro, salendo gradini e raccontandoci in questo modo le sue deliranti esperienze esistenziali. Altra comica allorquando Kurwenal, pronunciando chiaramente le parole “tu Tristan rimani sul tuo letto” lo adagia su un lurido cassone di legno, di cm.50x50x70, isolato in mezzo alla scena!
In sostanza: invece di una scena che doveva essere tutta concentrata su un Tristan quasi immobile, che ci canta il suo strazio, abbiamo qui una messe di elementi dispersivi, che finiscono per distrarre anche lo spettatore più preparato (o forse sono appositamente realizzati per evitare che lo spettatore impreparato si esasperi e se ne vada anzitempo?)
Altra incongruenza gratuita: l’incontro fra Tristan e Isolde. Wagner ci dice che, mentre Isolde entra in scena, Tristan - che solo ora si deve alzare dal giaciglio - le si fa incontro barcollando e cade nelle sue braccia. Che vediamo invece qui? Isolde che arriva dal fondo della scena e Tristan che si trascina bocconi fino sul limitare del proscenio, quasi stesse cercando di sfuggirle! E Isolde dietro a rincorrerlo!
Poi c’è un’altra forzatura allorquando arrivano Melot e Marke: Wagner ci descrive con pochi tratti di didascalìa e con poche parole di Kurwenal, del timoniere e poi di Melot e Marke stessi una lotta fra assedianti e assediati. Poi ci si dovrebbe concentrare solo sui personaggi principali: Marke, Kurwenal, Isolde - china su Tristan morto - e Brangäne che la soccorre e sostiene. Qui invece abbiamo un bailamme indescrivibile in cui persino la morte di Kurwenal si perde, in mezzo a mosse di karatè e a calci e cazzotti menati in tutte le direzioni!
E veniamo - amarus in fundo - al Liebestod, il momento conclusivo. Secondo le precise indicazioni di Wagner, Isolde lo dovrebbe cantare fissando continuamente il cadavere di Tristan, sul quale deve alla fine scivolare - come trasfigurata - sostenuta, e quasi accompagnatavi, da Brangäne, che la tiene fra le braccia già da quando Marke canta l’ultima sua accorata esternazione. Anche qui, c’è un preciso significato di ciò che si dovrebbe vedere sulla scena. Il rapporto fra Tristan e Isolde, fin dall’inizio, è stato mediato dall’ancella: è lei che porta il primo messaggio a Tristan, è lei, soprattutto, che versa il filtro d’amore nella coppa, è lei che, nel secondo atto, cerca di dissuadere Isolde dal prendere un rischio eccessivo, mettendola in guardia da Melot, e poi veglia sulla notte d’amore dei due (incastonando mirabilmente il suo “Habet acht!” proprio sul motivo che farà da base al Liebestod); è lei, infine, che giunge premurosa a raccogliere Isolde dopo il suo ultimo canto. Insomma, Brangäne rappresenta quasi la coscienza dei due (incoscienti) amanti. Che i tre personaggi, Tristan, Isolde e Brangäne debbano restare vicini, quasi abbracciati, alla conclusione del dramma (come Wagner scrive, e prescrive in partitura!) ne è una necessaria implicazione.
E invece, cosa vediamo noi oggi, grazie al Regietheater di Chéreau? Brangäne seduta del tutto in disparte, mescolata ad altre comparse, e Isolde che - dopo poche battute del Liebestod - si alza e se ne va per i fatti suoi, con un rivolo di sangue che le scende dalla fronte (una trovata spettacolare questa, geniale quanto gratuita!) e infine stramazza al suolo (due volte, essendoci forse i saldi da ultima rappresentazione?) nell’atto di abbandonare la scena, sola soletta...
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Morale? Avec Wagner tout se tient, avec Chéreau... (ahilui e ahinoi!)
1 commento:
Intanto mi complimento per la competenza: la tua è una disamina veramente efficace e spietata.
Dal tuo punto di vista, hai ragione e non ci sono dubbi.
Io la penso diversamente, e per un motivo estremamente semplice: sono uno che fa i compiti a casa; non credo ci siano molte persone che vogliano seriamente avvicinarsi ad un capolavoro come il Tristan arrivando impreparate in teatro. Se ci sono, peggio per loro, capirebbero pochissimo anche se il regista fosse Wagner in persona.
Quindi, e sia chiaro senza nessuna polemica, seppur con qualche sbavatura alla domanda (retorica, evidentemente) che ti poni, io rispondo: Sì, era Wagner.
Complimenti per il bellissimo post.
Ciao.
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