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05 gennaio, 2008

A proposito di messe-in-scena wagneriane

Adolphe Appia ebbe per primo delle folgoranti intuizioni, anche a seguito delle sue dirette esperienze a Bayreuth, dove fu testimone delle produzioni di fine ‘800.

Si rese conto che la potenza e le intime caratteristiche - dal punto di vista del genere dell’opera - dei drammi wagneriani ne rendevano straordinariamente difficile la messa in scena, dovendo questa fatalmente sottostare ai limiti materiali imposti dallo spazio scenico e soprattutto dai materiali e strumenti impiegabili. In sostanza, capì (come Wagner stesso aveva peraltro intuito già nel 1876, alla prima del Ring) come un allestimento inadeguato rischiasse di trasformare, agli occhi dello spettatore, i capolavori wagneriani in stupide e ridicole farse, sostanzialmente annullandone la straordinaria potenza e mistificandone i filosofici e psicologici contenuti.

Di Leo Tolstoj è rimasto famoso lo sfogo - fra il sarcastico e lo sprezzante - seguito ad una rappresentazione del Siegfried, dove il drago di cartapesta che canta da un megafono, e i personaggi vestiti di pelli e con le corna in testa suscitavano più che altro ilarità, al pari dei clown del circo equestre... e buonanottealsecchio per Wagner e i suoi nobili intenti!

Appia ebbe - se non altro - il grande merito di individuare i problemi e i rischi che si nascondono dietro all’allestimento dei drammi wagneriani. Quanto però alle soluzioni... anche lui non fu mai del tutto convincente, come dimostrano le innumerevoli stroncature da lui ricevute, e non solo da parte di ottusi conservatori.

Tanto per fare un esempio semplice, preso proprio dalle considerazioni di Appia: se dobbiamo mettere in scena Siegfried che si muove dentro la foresta, e cerchiamo di rappresentare la foresta nel modo più veristico possibile (mettendo tronchi di albero e foglie di carta mosse da cordicelle) corriamo il rischio di fare una stupidaggine, poichè avremo comunque degli alberi finti, e in più lo spettatore verrà sgradevolmente distratto da quella foresta posticcia; mentre ciò che lo spettatore dovrebbe avvertire è tutt’altro, precisamente: ciò che prova Siegfried inoltrandosi dentro la foresta.

Perfetto, fin qui: abbiamo ben chiaro il problema e i rischi. Adesso, facciamo un salto di 60 anni dai tempi di Appia e guardiamo la scena di Siegfried nella foresta nell’allestimento bayreuthiano di Harry Kupfer. Cosa vediamo sulla scena, al posto della foresta? Un reattore nucleare dopo un meltdown! (Chernobyl era proprio fresca-fresca) E si badi bene che Kupfer, a confronto di altri, è un tradizionalista (almeno non stravolge la personalità dei protagonisti)! Ora, la domanda che viene spontanea anche a un bambino, è: mi fate capire perchè io dovrei deprimermi, e perdere sensazioni e significati vedendo una foresta finta, o dipinta, e invece esaltarmi e - soprattutto - provare magicamente tutte le sensazioni di Siegfried che va nella foresta, guardando quell’ammasso di lamiere contorte e bruciacchiate?

In sostanza: giusto e sacrosanto porsi i problemi e paventare i rischi. Ma - di grazia - dateci dei rimedi che non siano peggio della malattia!

Altrimenti, conviene fare come il vecchio Brahms: quando voleva sentire un buon Don Giovanni, si sdraiava sul sofà di casa, e apriva la partitura...

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