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Die Walküre
È unanimemente considerata la perla di tutta la tetralogia e Wagner stesso le assegnava il ruolo fondamentale all’interno del Ring. Specialmente sul piano drammatico-musicale contiene la summa del rivoluzionario pensiero wagneriano, basti ricordare la seconda scena dell’Atto II e poi la scena finale, sempre protagonisti padre e figlia (Wotan-Brünnhilde).
La prestazione della compagnia di Bayreuth mi è parsa di buon livello (non mi metto a tentare confronti, sempre opinabili e condizionati da mille fattori) anche perché da quattro anni, salvo modifiche fatte col bilancino, il cast è praticamente lo stesso, ormai perfettamente affiatato.
Endrik Wottrich (che continua a calcare il palco di Bayreuth anche dopo che la nuova co-direttrice Kathi lo ha lasciato per un pilota…) è un Siegmund assai solido e primitivo, per me incarna assai bene la natura del personaggio.
Eva-Maria Westbroek, che ha esordito lo scorso anno, è una Sieglinde discreta, che ha evidentemente ancora molta esperienza da fare, ma in complesso non mi sento certo di darle un’insufficienza.
E insieme ai due non si può non parlare del duetto d’amore dell’Atto I, una cosa sempre sconvolgente. Diverso, le mille miglia, da quello ancor più famoso del Tristan. Dove là c’è un approccio e uno scenario tutto cerebrale, psichiatrico verrebbe da dire, qui siamo nella più selvaggia e viscerale naturalità; qui non cantano i cuori nè le menti, ma gli istinti; qui non si distingue l’essere umano dalla natura circostante; qui si sente la carne, nel senso più materiale del termine, si vedono le vene delle tempie del maschio e i seni della femmina che si gonfiano sotto la forza dell’amore, ma l’amore istintivo, quello che il vecchio Sachs scopre nell’uccellino, che a maggio canta senza studiare, ma solo perché deve farlo, sotto l’impulso cogente della natura. Wottrich e la Westbroek, pur con qualche imprecisione di entrata lui e qualche urletto sulle note alte lei, hanno tenuto assai bene la scena, supportati da un’orchestra in stato di grazia, guidata da un grande Thielemann. A cui faccio – sempre, perché lui sempre così lo fa – un appunto sulla chiusura dell’atto, quelle due misure e mezza col LA-SOL dove lui tiene troppo - a mio modesto parere, ma espresso partitura alla mano – l’ultima semiminima, togliendo quell’effetto di schianto repentino (che dovrebbe ricordarci la schiavitù e la frustrazione…)
Kwangchul Youn è un Hunding compìto, se non proprio bonario (forse pensa già a Gurnemanz?) Grande voce ma senza quella rabbia e rozzezza che l’agiografia pretende dal personaggio. Per la verità, se si scava un poco nella partitura si potrebbe scoprire che il nostro non è in effetti un puro e incivile energumeno: se lo fosse, farebbe secco Siegmund già la sera del loro incontro, invece di ospitarlo a casa sua e addirittura lasciarlo solo con la moglie, andandosene tranquillamente a letto! Anche l’etimologia (equivoca, peraltro) del nome (Hund=cane) può esser vista dal lato buono, datosi che molti cani, se non quasi tutti, sono in fondo animali domestici e amici dell’uomo. Certo più dei lupi, specie animale cui si rifà l’eroe Siegmund!
Linda Watson è ormai da 11 anni ospite fissa del Festival, dove ha compiuto un percorso piuttosto strano: da Kundry a Ortrud a Brünnhilde. Devo dire che non mi ha convinto più di tanto, fin dai primi Hojotoho! E – microfoni innocenti? – ha anche stonacchiato i SI che precedono l’arrivo di Fricka. Poco efficace (al solo udito) il suo Zu Wotans Willen sprichts du, quell’autentica perla in LA maggiore che introduce il soliloquio di Wotan. Meglio ha fatto – credo io – nella scena conclusiva, quella della sua giustificazione e del suo confronto col padre, anche se in un altro passaggio topico (Der diese Liebe…) non mi è parsa impeccabile.
Il quale Wotan è qui bene reso da Albert Dohmen, che si deve far perdonare solo qualche piccola amnesia, con relativo scambio di parole, ma che supera di slancio le prove difficili, sia di puro canto (il SOLb del Gold!) che di espressione: le quattro prove a carico contro la figlia, principianti con Wunschmaid warst du mir; il sempre sbudellante Leb’wohl; lo straordinario Der Augen leuchtendes Paar e per finire il grandioso Wer meines Speeres Spitze fürchtet.
La Fricka di Michelle Breedt, alle luci del Rheingold aggiunge qui qualche ombra: è una parte relativamente contenuta come impegno, ma che per questo necessita della massima cura. Che la cantante non è sembrata esprimere in modo adeguato; un esempio per tutti il fondamentale Deine ewigen Gattin heilige Ehre, dove per la verità anche Thielemann – sempre ritenendo innocenti i microfoni – non è sembrato dare il massimo, su quelle terzine ribattute di violini e viole.
Le Walkirie (sempre le stesse, imperterrite, dal 2006!) han fatto bene la loro dovuta confusione. Una nota di colore extramusicale riguarda Waltraute: Martina Dicke viene nel Götterdämmerung ancora declassata a 2a Norna, per far posto a Christa Mayer, la mancata Erda della prima di quest’anno; evidentemente la svedese è ancora considerata inadeguata per la parte più solistica che la sorella di Brünnhilde deve sostenere nel Crepuscolo.
A proposito della cavalcata, qui avrei un altro appunto da fare a Thielemann. Lui ha ormai l’abitudine di introdurre un arbitrario rallentando al momento in cui arrivano Rossweisse e Grimgerde. È anche il momento in cui il poderoso contrabbasso tuba si aggiunge a tromboni e tromba bassa per esporre il tema in SI maggiore. Che l’effetto della personale dinamica del Maestro sia enorme, è garantito, però è lecito chiedersi chi o cosa avrebbe impedito a Wagner di scrivere uno Schwerer o qualcosa di simile sul pentagramma. Invece, nulla di nulla, probabilmente perché l’Autore pensò che bastasse l’ingresso del bassotuba, oltre al fortissimo di corni e strumentini, per creare l’effetto desiderato di accentuazione della pompa e dell’enfasi. Io – non c’è Thielemann che tenga – sto con Wagner (anche se non sto neanche con quei detrattori di Thielemann che lo accusano di tendenze, non solo artistiche, reazionarie).
Però tutto si può perdonare a Thielemann, dopo aver ascoltato passi come la grandiosa giustificazione (che segue lo stupefacente der freier als ich der Gott! di Wotan) e l’intero finale, dove nulla è fuori posto. L’emozione è qui davvero difficile da descrivere, la droga impossibile da neutralizzare…
È unanimemente considerata la perla di tutta la tetralogia e Wagner stesso le assegnava il ruolo fondamentale all’interno del Ring. Specialmente sul piano drammatico-musicale contiene la summa del rivoluzionario pensiero wagneriano, basti ricordare la seconda scena dell’Atto II e poi la scena finale, sempre protagonisti padre e figlia (Wotan-Brünnhilde).
La prestazione della compagnia di Bayreuth mi è parsa di buon livello (non mi metto a tentare confronti, sempre opinabili e condizionati da mille fattori) anche perché da quattro anni, salvo modifiche fatte col bilancino, il cast è praticamente lo stesso, ormai perfettamente affiatato.
Endrik Wottrich (che continua a calcare il palco di Bayreuth anche dopo che la nuova co-direttrice Kathi lo ha lasciato per un pilota…) è un Siegmund assai solido e primitivo, per me incarna assai bene la natura del personaggio.
Eva-Maria Westbroek, che ha esordito lo scorso anno, è una Sieglinde discreta, che ha evidentemente ancora molta esperienza da fare, ma in complesso non mi sento certo di darle un’insufficienza.
E insieme ai due non si può non parlare del duetto d’amore dell’Atto I, una cosa sempre sconvolgente. Diverso, le mille miglia, da quello ancor più famoso del Tristan. Dove là c’è un approccio e uno scenario tutto cerebrale, psichiatrico verrebbe da dire, qui siamo nella più selvaggia e viscerale naturalità; qui non cantano i cuori nè le menti, ma gli istinti; qui non si distingue l’essere umano dalla natura circostante; qui si sente la carne, nel senso più materiale del termine, si vedono le vene delle tempie del maschio e i seni della femmina che si gonfiano sotto la forza dell’amore, ma l’amore istintivo, quello che il vecchio Sachs scopre nell’uccellino, che a maggio canta senza studiare, ma solo perché deve farlo, sotto l’impulso cogente della natura. Wottrich e la Westbroek, pur con qualche imprecisione di entrata lui e qualche urletto sulle note alte lei, hanno tenuto assai bene la scena, supportati da un’orchestra in stato di grazia, guidata da un grande Thielemann. A cui faccio – sempre, perché lui sempre così lo fa – un appunto sulla chiusura dell’atto, quelle due misure e mezza col LA-SOL dove lui tiene troppo - a mio modesto parere, ma espresso partitura alla mano – l’ultima semiminima, togliendo quell’effetto di schianto repentino (che dovrebbe ricordarci la schiavitù e la frustrazione…)
Kwangchul Youn è un Hunding compìto, se non proprio bonario (forse pensa già a Gurnemanz?) Grande voce ma senza quella rabbia e rozzezza che l’agiografia pretende dal personaggio. Per la verità, se si scava un poco nella partitura si potrebbe scoprire che il nostro non è in effetti un puro e incivile energumeno: se lo fosse, farebbe secco Siegmund già la sera del loro incontro, invece di ospitarlo a casa sua e addirittura lasciarlo solo con la moglie, andandosene tranquillamente a letto! Anche l’etimologia (equivoca, peraltro) del nome (Hund=cane) può esser vista dal lato buono, datosi che molti cani, se non quasi tutti, sono in fondo animali domestici e amici dell’uomo. Certo più dei lupi, specie animale cui si rifà l’eroe Siegmund!
Linda Watson è ormai da 11 anni ospite fissa del Festival, dove ha compiuto un percorso piuttosto strano: da Kundry a Ortrud a Brünnhilde. Devo dire che non mi ha convinto più di tanto, fin dai primi Hojotoho! E – microfoni innocenti? – ha anche stonacchiato i SI che precedono l’arrivo di Fricka. Poco efficace (al solo udito) il suo Zu Wotans Willen sprichts du, quell’autentica perla in LA maggiore che introduce il soliloquio di Wotan. Meglio ha fatto – credo io – nella scena conclusiva, quella della sua giustificazione e del suo confronto col padre, anche se in un altro passaggio topico (Der diese Liebe…) non mi è parsa impeccabile.
Il quale Wotan è qui bene reso da Albert Dohmen, che si deve far perdonare solo qualche piccola amnesia, con relativo scambio di parole, ma che supera di slancio le prove difficili, sia di puro canto (il SOLb del Gold!) che di espressione: le quattro prove a carico contro la figlia, principianti con Wunschmaid warst du mir; il sempre sbudellante Leb’wohl; lo straordinario Der Augen leuchtendes Paar e per finire il grandioso Wer meines Speeres Spitze fürchtet.
La Fricka di Michelle Breedt, alle luci del Rheingold aggiunge qui qualche ombra: è una parte relativamente contenuta come impegno, ma che per questo necessita della massima cura. Che la cantante non è sembrata esprimere in modo adeguato; un esempio per tutti il fondamentale Deine ewigen Gattin heilige Ehre, dove per la verità anche Thielemann – sempre ritenendo innocenti i microfoni – non è sembrato dare il massimo, su quelle terzine ribattute di violini e viole.
Le Walkirie (sempre le stesse, imperterrite, dal 2006!) han fatto bene la loro dovuta confusione. Una nota di colore extramusicale riguarda Waltraute: Martina Dicke viene nel Götterdämmerung ancora declassata a 2a Norna, per far posto a Christa Mayer, la mancata Erda della prima di quest’anno; evidentemente la svedese è ancora considerata inadeguata per la parte più solistica che la sorella di Brünnhilde deve sostenere nel Crepuscolo.
A proposito della cavalcata, qui avrei un altro appunto da fare a Thielemann. Lui ha ormai l’abitudine di introdurre un arbitrario rallentando al momento in cui arrivano Rossweisse e Grimgerde. È anche il momento in cui il poderoso contrabbasso tuba si aggiunge a tromboni e tromba bassa per esporre il tema in SI maggiore. Che l’effetto della personale dinamica del Maestro sia enorme, è garantito, però è lecito chiedersi chi o cosa avrebbe impedito a Wagner di scrivere uno Schwerer o qualcosa di simile sul pentagramma. Invece, nulla di nulla, probabilmente perché l’Autore pensò che bastasse l’ingresso del bassotuba, oltre al fortissimo di corni e strumentini, per creare l’effetto desiderato di accentuazione della pompa e dell’enfasi. Io – non c’è Thielemann che tenga – sto con Wagner (anche se non sto neanche con quei detrattori di Thielemann che lo accusano di tendenze, non solo artistiche, reazionarie).
Però tutto si può perdonare a Thielemann, dopo aver ascoltato passi come la grandiosa giustificazione (che segue lo stupefacente der freier als ich der Gott! di Wotan) e l’intero finale, dove nulla è fuori posto. L’emozione è qui davvero difficile da descrivere, la droga impossibile da neutralizzare…
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