Les Contes d’Hoffmann è tornata dopo 11 anni al Piermarini (l’ultima volta con la regìa di Carsen)
in una nuova produzione affidata a Davide Livermore e concertata da Frédéric Chaslin (coppia già
presentatasi su questi schermi tavolati meno di due anni orsono con un’appena
passabile Gioconda). Ieri sera la prima delle sei
rappresentazioni, in un teatro non proprio affollatissimo.
La principale
curiosità di ogni nuova messinscena dei Contes è sempre la stessa, ormai
da parecchi decenni: cosa ci viene propinato delle infinite versioni
ricostruzioni della partitura, lasciata incompiuta dal povero Offenbach,
venuto a mancare proprio sul più bello?
L’Archivio
del Teatro ci informa che le ultime quattro produzioni scaligere (1961,
1995, 2004 e 2012) avevano impiegato la famigerata e adulterata versione Choudens,
approntata da quell’Ernest Guiraud che già aveva bistrattato assai la
povera Carmen. Con alcune aggiunte e varianti (diverse per il 2012, come si deduce dal confronto
dei libretti pubblicati) prese dalla versione Alkor-Bärenreiter
curata da quell’altro stupratore seriale di partiture che rispondeva al nome di
Fritz Oeser. Qui però c’è qualcosa che non
torna nell'archivio: poiché la prima versione dell’edizione Alkor-Bärenreiter-Oeser fu pubblicata nel 1976, poi nel
1980, quindi non poteva essere impiegata nel 1961!
Il libretto (disponibile online) per questa produzione avverte trattarsi integralmente dell’edizione Bärenreiter-Oeser. Quindi, un passo avanti? Mah, mica tanto, poiché vengono ancora ignorate le più recenti edizioni di Schott, curate dalla coppia Michael Kaye – Jean-Christophe Keck, che se non altro si avvalgono di nuovi ritrovamenti di materiale avvenuti negli ultimi anni. Il valore di queste edizioni non risiede nell’impresa impossibile di indicare una soluzione univoca, ma nel mettere a disposizione dei responsabili della messinscena – con l’ausilio di veri e propri flow-chart - le possibili scelte da eseguire secondo criteri se non oggettivi almeno plausibili perché basati su evidenze documentali: onde evitare che direttori e registi in cerca di facile notorietà assemblino il prodotto finito in modo del tutto arbitrario e incoerente, se non addirittura scriteriato, come troppo spesso accade di vedere.
Chaslin, qualche mese addietro, aveva dichiarato di presentare in Scala la
versione Choudens integrata
con parti della versione Oeser (come era nelle produzioni del ‘94, ‘05 e '12) cosa che pare smentita
dalla dicitura presente sulla prima pagina del libretto pubblicato
dal Teatro, che cita esclusivamente Oeser. Ma poi, nella stessa intervista e in un’altra rilasciata di recente, dichiarava di aver fatto – come sempre del resto
- una scelta, diciamo così, ancor più tradizionalista: riferirsi all’edizione
Choudens con le sole aggiunte di Guiraud e Gunsbourg, ignorando quindi Oeser. Insomma,
lui stesso non ce la racconta mai giusta…
Per di più, in entrambe le interviste, si abbandona a pesanti accuse rivolte alle più recenti sedicenti edizioni critiche. Lui non fa nomi, ma dal contesto si dovrebbe dedurre che ce l’abbia con quelle curate da Kaye-Keck, dei quali viene persino messa in dubbio la buona fede!
Dopodichè scopriamo però che il direttore francese sta per predisporre
a sua volta - e la pubblicherà fra qualche tempo – indovinate un po’ che cosa?
La sua edizione
critica dei Contes! Che, a suo dire, porrà la parola fine a un
secolo di diatribe! Ahi ahi ahi, qui gatta ci cova… siamo alle solite (e
miserelle) guerricciole fra primedonne.
Livermore quindi va sul sicuro e ne cava uno spettacolo più appariscente che affascinante, direi, ma pur sempre plausibile e godibile.
Trovate non proprio rivoluzionarie, come l’ambientazione moderna (smartphone e selfie a volontà) che ci sta tutta, dato il soggetto; o come lo sdoppiamento del protagonista, evidentemente volto a mostrarci l’Hoffmann della vita normale, piuttosto incolore (dentro una specie di baule-sarcofago, poi… gondola; oppure alle prese con una bistrattata macchina da scrivere) dall’Hoffmann sognatore di imprese dongiovannesche (Niklausse: Notte e giorno…) Oppure il nano da circo, con livrea e cilindro, che fa da guardaspalla armata al cattivone di turno. O le numerose comparse che forse rappresentano le visioni e gli incubi del protagonista. Livermore riunisce ovviamente i quattro tenori comprimari (Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinacchio) in un unico personaggio… en travesti: una servettona armata del classico piumino spazzapolvere.
Scenografia piuttosto spartana, arricchita però da effetti di teatro d’ombre
mobili (silhouette) per sottolineare i caratteri onirici di alcune scene.
Olympia è una ragazza in carne ed ossa rivestita di plastica e bachelite delle
quali si libera per mostrare a noi il trucco di Spalanzani e la creduloneria (indotta
dagli occhiali magici) di Hoffmann. A casa di Antonia ci sono un pianoforte e seggiole
da teatro accatastate agli angoli (perché nessun violino? Lo prevede la
didascalia, ma soprattutto In orchestra sale un assolo dello strumento). La
madre di Antonia esce dal quadro e si aggira per casa. A Venezia c’è il coinvolgimento
del pubblico: la platea viene infatti ricoperta d’acqua da un enorme
velo che accompagna le note della barcarolle. Giulietta e Nicklausse, invece che in gondola,
ondeggiano su un’altalena (fermandola a tempo con i piedi per mantenerne l’oscillazione
in sincronia con i 6/8 della musica!) Poi torna il baule-sarcofago dal quale emerge
il gondoliere… Hoffmann secolare. La chiusura dell’atto (visto che nessuno ha
ancora capito quale dovrebbe essere secondo Offenbach…) viene presentata con un’autentica
sparatoria, dove non è chiaro chi muore e chi sopravvive. Poi nel finale, al
ritorno in taverna, il baulone torna sarcofago, ad ospitare lo stesso Hoffmann
cui Stella porta il mazzo di fiori che Lindorf aveva sequestrato ad Andrès nel
Prologo.
La morale della favola è da Livermore risolta facendo riconsegnare all’Hoffmann secolare le parti di copione che erano state affidate ai vari protagonisti e comparse; copione che viene quindi restituito all’Hoffmann sognatore, che lo getterà al vento al calar del sipario.
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Vengo ora ai suoni, dove le cose sono andate così e… cosà. Parto dal basso, cioè dalla buca: Chaslin (che già non mi aveva entusiasmato con la Gioconda) non mi ha particolarmente impressionato (a fronte della sua auto-decantata conoscenza del soggetto). Parliamoci chiaro: nei Contes di strumentazione originale di Offenbach non c’è praticamente nulla, è tutta farina (o fuffa) del sacco di Guiraud-et-altri. Ergo sarebbe dovere, non solo diritto, del Kapellmeister di turno di metterci un po’ del suo, ammesso che ne abbia. Invece, Chaslin ci propina un’interpretazione piatta (o stucchevolmente bandistica, a tratti); di quelle che normalmente si definiscono da routinier (per noi prosaici: battisolfa). L’Orchestra suona come sa, ma non può inventare molto di sua iniziativa (altrimenti a che serve il concertatore?) Il Coro di Malazzi è sempre sui suoi standard, e anche ieri ha avuto gli applausi che si merita.
Grande Vittorio Grigolo, osannato a scena aperta e alla fine: una prestazione eccellente, tenuto conto della parte invero massacrante riservata al protagonista. Che invece lui ha portato a termine senza nemmeno apparente sforzo. Scenicamente poi, perfetto, ecco.
Nei quattro cattivoni, Luca Pisaroni non ha per nulla fatto rimpiangere il forfettario Abdrazakov: voce potente ma mai sguaiata e gran portamento scenico. Anche per lui meritati consensi.
Le quattro deuteragoniste femminili (mi) hanno tutte abbastanza bene impressionato, a partire da Eleonora Buratto che, avendo cantato nonostante un’indisposizione, è però riuscita a cavarsela alla grande, con solo piccoli… accorgimenti onde evitare sorprese dalla gola. La bambola di Spalanzani è Federica Guida, che ha potuto esprimersi al meglio dopo essersi liberata della… bachelite, e ha comunque superato bene gli impervi ostacoli dei sovracuti e picchiettati che abbondano nella sua parte. Francesca Di Sauro è stata una convincente Giulietta, anche se la voce di mezzosoprano non è proprio da soprano drammatico, come vorrebbe la tradizione. La migliore di tutte (selon moi) è stata Marina Viotti, una Musa-Nicklausse quasi perfetta, vocalmente e scenicamente.
Discorso a parte per Stella (l’accademica Greta Doveri): in questa edizione dell’opera lei non dovrebbe proprio cantare, ma qui le si è dato il contentino di aggiungere la sua voce al coro finale: e va bene così…
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Tirando le somme: una produzione con luci e ombre che il non oceanico pubblico ha accolto abbastanza benevolmente, ma senza eccessivi entusiasmi (Grigolo escluso). Insomma: forse la Scala qui poteva fare qualcosa di più e meglio.
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