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27 settembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 2

 

Il compianto Rudolf Barshai – che per anni fu Direttore principale dell’Orchestra - è il protagonista del secondo concerto de laVERDI, condotto da uno degli attuali Direttori principali ospiti, Gaetano D’Espinosa.

In programma due lavori di cui Barshai è stato, come dire, il secondo padre: non li ha messi al mondo lui, ma li ha svezzati e allevati con grande cura e amore.

Dal maestro e amico Dimitri Shostakovich Barshai ebbe l’autorizzazione a trascrivere per orchestra d’archi il famoso quanto controverso Quartetto n°8 op.110, divenuto quindi Sinfonia da camera op.110a. Nel marzo di 4 anni fa un malanno improvviso gli impedì di dirigerla personalmente in Auditorium (lo sostituì Grazioli) dove purtroppo non mise più piede, essendo venuto a mancare nel novembre di quello stesso anno: questo concerto è quindi anche un doveroso tributo alla sua grande figura di musicista. 

Dell’ottavo Quartetto si è scritto di tutto, date le circostanze in cui fu composto e le (pseudo?) rivelazioni che dopo la morte del compositore ne misero in nuova e diversa luce la figura di uomo e i rapporti con il potere sovietico.

In memoria delle vittime di fascismo e guerra: questa la dedica (che peraltro Shostakovich annunciò, solo a voce, un paio di mesi dopo la composizione) del quartetto, composto in soli tre giorni (12-14 luglio) nel 1960 a Dresda, dove ancora erano evidenti i segni lasciati dai terribili bombardamenti alleati che in 2 notti (13-15 febbraio, 1945) avevano ridotto la splendida Firenze dell’Elba ad un cumulo di macerie.

Ma quello era anche il periodo in cui il compositore, avendo accettato pochi mesi addietro la nomina a Primo Segretario dell’Unione Compositori della Repubblica Russa, aveva di conseguenza dovuto far richiesta di iscrizione al Partito Comunista (iscrizione che lui aveva prima di allora categoricamente rifiutato e che verrà confermata pochi mesi dopo): un atto di cui Shostakovich non poteva non valutare (e subire!) portata e conseguenze.

Nella famosa lettera scritta all’amico Isaak Davydovich Glikman nemmeno una settimana dopo la composizione del Quartetto, Shostakovich vi getta una luce assai lontana da quella della dedica pseudo-ufficiale (che annuncerà posteriormente!): arrivando a definirlo ideologicamente riprovevole e in realtà pensato come un auto-epitaffio! In effetti cosa c’entrino con le vittime di fascismo e guerra le auto-citazioni da alcune sinfonie (1, 5 e 8), un trio (2), un concerto (cello) e la Lady, più quelle della Patetica, del beethoveniano Muß es sein? e un po’ di Wagner – il tutto infarcito da massicce dosi della propria sigla DSCH! - è arduo da comprendere. Però è pur vero che le citazioni (nel secondo movimento) di un tema ebraico composto nel ’44 in pieno Olocausto e (nel quarto) di un canto di prigionia (Oppresso da duro servaggio) parrebbero testimoniare della sincerità dell’approccio di Shostakovich. 

In realtà, senza necessariamente dar credito assoluto alle teorie di Solomon Volkov, il cui libro su Shostakovich del 1979 fece scalpore, presentando del compositore un’improbabile immagine di eroico paladino dell’anti-stalinismo e dell’anti-comunismo, si può plausibilmente immaginare che il buon Dimitri vivesse e soffrisse sulla sua pelle le contraddizioni in cui si era cacciato avendo deciso di… non decidere che ruolo giocare fino in fondo (servo del regime – fiero dissidente). E l’ottavo quartetto sembra proprio uno specchio di queste contraddizioni, di questa faticosa e stressante, oltre che inconcludente, ricerca di una terza via esistenziale. 

Un corposo, acuto (e pure pedante…) saggio di Peter J. Rabinowitz propone invece una intrigante spiegazione per le origini del Quartetto: partendo dall’osservazione di un parallelo/precedente, che ha come soggetto Richard Strauss. Come Shostakovich, anche il bavarese era stato (in musica) un focoso rivoluzionario ad inizio carriera, per poi mutarsi in conservatore ed assumere un atteggiamento compiacente (ma non servile) verso il Terzo Reich; aveva composto da (abbastanza) giovane un brano smaccatamente autobiografico (Ein Heldenleben, infarcito di auto-citazioni) e poi, a WWII finita e con Monaco in macerie, aveva apposto il sigillo In Memoriam alle sue costernate meditazioni delle Metamorphosen, citando la marcia funebre dell’Eroica. Ecco, perché non ipotizzare che Shostakovich, in questo suo ottavo quartetto, abbia inteso condensare il suo curriculum di artista e allo stesso tempo abbia inteso esternare il suo stato d‘animo di uomo disilluso e tradito nei suoi ideali dalla dura realtà?

La rapidità della composizione (che i maligni potrebbero obiettare essere solo un affrettato affastellamento di citazioni, proprie e altrui, senza alcunché di originale…) può far pensare ad uno Shostakovich in realtà disimpegnato e perfino ipocrita; però va riconosciuto che quella splendida compiutezza della forma (definizione usata dal compositore nella lettera a Glikman) non è proprio una millanteria, e se si ascolta il Quartetto senza far troppo caso ai riferimenti (musicali ed extra-) non si può non rimanerne ammirati. 
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La macro-struttura del Quartetto è di tipo, diciamo, tardo-mahleriano: ai due estremi i movimenti lenti (1/4-5) e al centro quelli allegri (2-3). Tutti sono connessi senza soluzione di continuità. L’impianto tonale (tutto in minore) presenta pure una certa qual simmetria: DO-SOL#-SOL-DO#-DO (notare il tritono che separa il movimento centrale dal successivo). E anche la durata dei movimenti è abbastanza uniforme, mantenendosi fra 3 minuti e mezzo e cinque e mezzo, per un totale di circa 20-23 minuti.

Seguiamo ora la musica sulla registrazione originale della prima, tenutasi a Leningrado il 2 ottobre 1960, interprete il Quartetto Beethoven.

Il primo dei cinque movimenti (Largo, DO minore) si apre con l’esposizione della firma dell’Autore, quella sigla DSCH (Dimitri SCHostakowitsch, alla tedesca) che in musica si traduce in RE-MIb-DO-SI: è il violoncello ad attaccarla, seguito a canone stretto dagli altri tre archi, con la seconda e la quarta voce sul quinto grado:


A 40” il primo violino, dopo aver reiterato (col secondo) la firma, attacca un motivo, poi ripreso dal secondo e dalla viola, che cita – in modo mesto – l’apertura impertinente (là affidata a tromba e fagotto) della Prima Sinfonia:

A 55” è sempre il primo violino a chiudere questa sezione con la firma dell’Autore, sulla quinta vuota nel grave (DO-SOL) degli altri tre strumenti; e sempre lui (a 1’04”) si imbarca in un lugubre recitativo di 18 misure che si muove prevalentemente per gradi congiunti e che sembra alludere alla Patetica (secondo soggetto del primo movimento) chiuso (a 1’40”) dalla firma nel violoncello; cui segue nel primo violino un breve passaggio che ne ricorda uno dall’Andante della mozartiana Sinfonia Concertante per violino e viola, chiuso da un inciso (DO-SOL-SOL-DO-SI) che tornerà alla fine del movimento e alla fine del quartetto. A 1’56” ecco una nuova auto-citazione, dalla Quinta Sinfonia (la più famosa ed eseguita di Shostakovich): è la melodia esposta dai primi violini a battuta 6 del Moderato di apertura dell’Op.47:
Il motivo viene reiterato altre due volte, prima di sfociare, in tutti gli archi (2’37”) in un perentorio ritorno della firma, in tempo dilatato. Ora un passaggio con qualche sprazzo di luce (come un fugace DO maggiore a 2’55”) porta ad una ripresa della firma (3’24”) e ancora (3’35”) della citazione dalla Prima Sinfonia. Un’ultima (per ora…) ricomparsa della firma (3’51”) porta alla mesta chiusura su un lungo SOL# di 3 dei 4 archi (il violino primo tacetpreceduto dall’inciso udito prima del richiamo alla Quinta.

A 4’09” inizia bruscamente l’Allegro molto, uno dei caratteristici, indiavolati e martellanti scherzi di Shostakovich, che si rifà chiaramente all’Allegro non troppo dell’Ottava Sinfonia, ma correndo a velocità ancor doppia! Sono semiminime che si inseguono in volate vertiginose, sulle quali arriva puntuale quanto trafelata e ansimante la firma dell’Autore, dapprima nei quattro strumenti (dal grave all’acuto, da 4’37”) e poi nel solo violino primo, che la reitera 3 volte e mezza (da 4’40”). La corsa a rotta di collo prosegue fino a sfociare, modulando a DO minore (5’06”) nella perorazione del tema ebraico che Shostakovich aveva già impiegato nel finale del suo secondo Trio con pianoforte:



Restando in DO minore riprende il motivo principale (5’20”) e a 5’30”, poi a 5’36” si fa immancabilmente risentire, nel primo violino e sempre in tempo dilatato, la firma. Che ricompare poco dopo nel violoncello (5’51”) e subito nella viola.

A 5’59” si torna a SOL# minore per l’inizio della seconda parte del movimento, che in pratica ripercorre il cammino della prima. A 6’21” è ancora il DO minore a farla da padrone, recandoci, a 6’27” e poi a 6’30”, altre due firme, sempre nel primo violino; viola e violoncello (6’38”) ripropongono ora il motivo ebraico che letteralmente… scompare come in un pof! su una dissonanza MIb-FA# seguita da una corona puntata. È la fine del movimento (6’49”) che lascia ora spazio al SOL minore dell’Allegretto.

A 6’51” il primo violino attacca… con cosa? La firma! A 6’56 si passa da 4/4 al walzer! Ed è un walzer davvero spiritato (qualcuno ci vede somiglianze con la Danse macabre) che gioca con la firma come un gatto col topo! A 7’05” violoncello e viola danno smaccatamente il tempo, sul quale il primo violino attacca il tema costruito sulla sigla DDSCH, che si può leggere come Dimitri Dimitrevich SCHostakovich… quindi una cosa fra il presuntuoso e l’affettato:


Dopo che il tema è stato riproposto, abbiamo un nuovo soggetto (7’40”) dove la firma compare di sfuggita nel secondo violino (7’50”). A 8’06 riprende il motivo conduttore che poco dopo (8’16”) lascia spazio ad una transizione dove udiamo per quattro volte la firma normale, che ci porta alla sezione centrale del movimento. Qui (8’36”) il primo violino cita il tema che il violoncello espone proprio all’inizio del Concerto op.107:

A 8’45” troviamo un nuovo motivo, un comodo recitativo esposto dal violoncello nel registro acuto sulle ondeggianti crome dei violini, che ci porta (9’13”) alla parte conclusiva del movimento, che è una ripresa condensata della sezione iniziale, quindi vi risentiamo il DDSCH e il secondo soggetto. A 10’12” inizia una coda che il solo primo violino completa con una vaghissima reminiscenza della Patetica e chiudendo poi su un LA# grave.    

Il Quarto movimento (10’41”) è un Largo in DO# minore. Nelle prime tre battute, sul lungo LA# grave del primo violino in pianissimo che si prolunga dal movimento precedente, si ode un duplice segnale, in fortissimo, degli altri archi. Chi vuole può sentirci il sordo rombo dei bombardieri in avvicinamento su Dresda su cui si sovrappongono i secchi richiami delle sirene (o i colpi della contraerea?) Ma già alla battuta successiva è la storia della musica a farsi largo:
Sì, un altro famoso Quartetto: l’Op.135 di Beethoven! Shostakovich aveva già impiegato il tema, senza le tre pesanti crome che lo chiudono, nella colonna sonora del film La giovane guardia, del 1948, senza contare la parentela con il motivo del concerto per violoncello citato più sopra. Forse a questo motivo fa riferimento il compositore nella sua lettera a Glikman, quando cita Wagner: in effetti una lontana parentela con l’Enigma del Destino ci può anche stare, visto che pur sempre di una domanda si tratta… 

Questa specie di avvertimento viene ripetuta altre tre volte, ma l’ultima, invece che in minore, chiude (11’16”) in FA# maggiore! Ma è solo un fuoco di paglia, poiché subito l’atmosfera si rifà cupa e a 11’19” il primo violino accenna l’incipit del Dies Irae (che già era nascosto nelle ultime note del movimento precedente). A 11’30” si ode un nuovo lugubre motivo che ci accompagna fino a 12’24”, dove ritorna (per due volte) il perentorio richiamo.

Introdotto dal DSCH (un tono sopra) della viola e del violoncello, ecco ora (12’46”) comparire nel primo violino un canto rivoluzionario: Zamuchen tyazheloy nevoley (Oppresso da duro servaggio); un testo ottocentesco (di Grigorij Machtet) cantato persino ai funerali di Lenin, che rimanda ai campi di prigionia zaristi:



A 13’41” il primo violino propone una melodia che vagamente ricorda il Poco più mosso del 3° movimento della Sinfonia 11, e poco dopo (14’02”) è la volta di un’altra auto-citazione, ancora negli acuti del violoncello: la bellissima melodia che Ekaterina Lvovna canta a Sergei nella prigione che li accoglie lungo la via della deportazione in Siberia:


A 14’44” torna a farsi sentire il drammatico richiamo che aveva introdotto il movimento, seguito dall’incipit del canto rivoluzionario e da un’ultima apparizione del richiamo iniziale. Infine (15’16”) il primo violino ci ricorda il Dies Irae e poi appone l’ennesima firma al movimento.

Il finale Largo, in DO minore, si apre (15’31”) con la firma nel violoncello, seguita dal motivo mozartiano già apparso nel primo movimento (prima della citazione della Quinta sinfonia). Viola, violino secondo e primo ripetono la firma (seconda e quarta voce sul quinto grado) come all’inizio del quartetto, ma stavolta a canone largo. In contrappunto si ode, dapprima nel violoncello (15’48”) un motivo che viene dalla quarta scena della Lady Macbeth, quella dell’insonnia di Boris Izmailov. Curiosa la rassomiglianza di questo motivo con una parte del tema dell’Inno sovietico (composto da Alexander Alexandrov più di 20 anni dopo la Lady!)

Chissà se Shostakovich abbia voluto farci un criptico riferimento alla situazione politica (e magari alle sue segrete speranze) visto che il tema, alla fine, va praticamente a… morire. A 16’10” il primo violino chiude la quarta voce della firma e ha inizio la seconda parte dell’esposizione, dove il motivo dalla Lady contrappunta nuove apparizioni della firma da gradi diversi.

A 17’23”, come all’inizio del quartetto, si ripete la firma a canone stretto, seguita dal solo incipit della citazione della Prima sinfonia, sostituito dal motivo dalla Lady, che si spegne sommessamente; a 18’16” l’ultima firma del primo violino, poi l’inciso DO-SOL-SOL-DO-SI udito nel primo movimento porta alla mesta chiusura, sulla quinta vuota DO-SOL nel grave. 
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Anche quando autorizzata dall’Autore, e realizzata con grande cura, come in questo caso, la trascrizione di un quartetto per l’orchestra lascia sempre a desiderare, poiché fatalmente si viene a perdere quella trasparenza e pulizia di suono che costituiscono i principali punti di forza di questo genere musicale. Ad ogni modo va fatto tanto di cappello ai ragazzi e al Direttore per aver dato il meglio per trasmettere al pubblico almeno i contenuti dell’opera, se non la sua forma originale. La quale si potrà apprezzare fra poche settimane (31 ottobre) all’Auditorium SanFedele di Milano, eseguita dal Quartetto di Cremona in un concerto del 23° Festival di MilanoMusica.
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L’altro lavoro di Barshai presentato in questo concerto è la colossale, quanto spuria, Decima di Mahler, che era in programma già lo scorso marzo, ma di cui allora si era inopinatamente eseguito solo il tradizionale Adagio.

Essendo rimasta allo stato di abbozzo, per quanto abbastanza completo (come abbozzo) la sinfonia fu oggetto di un prima edizione da parte di Deryck Cooke nei primi anni ’60 del secolo scorso. Dopo la liberatoria di Alma del 1963, diversi altri musicisti/musicologi si sono cimentati nell’impresa e Barshai si è aggiunto nel 2000 (ma altri sono seguiti). Più di tre anni fa abbiamo ascoltato qui in Auditorium la versione Cooke (stampata da Faber) sulla quale scrissi qualche nota.

La versione Barshai (stampata dalla Universal) è ovviamente diversa da quella di Cooke di cui, fosse anche solo per ragioni cronologiche, ha sfruttato l’esperienza delle numerosissime esecuzioni ed incisioni fattene (anche dallo stesso direttore russo) negli ultimi 50 anni. Le differenze fra le due versioni che vengono maggiormente in luce, almeno a fronte del semplice ascolto, riguardano il Finale, dove l’orchestrazione di Barshai appare più ricca e, in particolare, aumenta il ruolo e il peso degli archi. Per il resto si tratta di sfumature che è difficile cogliere anche ad un orecchio… allenato. 

L’esecuzione di ieri è stata di buon livello, ma non direi proprio che abbia contribuito a far crescere le azioni di questo lavoro. Parafrasando il famoso giudizio che Hans von Bülow espresse a Richard Strauss sulla ricostruzione fatta da Mahler dell’opera Die drei Pintos (wo Weberei, wo Mahlerei, einerlei…) si potrebbe dire: che sia Cooke o sia Barshai, poco Mahler ci troverai! Mi chiedo, fra l’altro, di chi sia stata l’idea di far suonare i colpi di tamburo fra il 4° e il 5° movimento in quel modo: l’esatto opposto di ciò che immaginava Mahler, un suono sordo, ottenuto coprendo completamente il tamburo, come si legge chiaramente sul manoscritto:


E come par di sentire anche nella registrazione di Barshai (da 52’58”). Ecco, ci resta solo da ricordare con affetto il Maestro, che fra poco più di un mese avrebbe compiuto 90 anni.

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