Il compianto Rudolf Barshai – che per anni fu
Direttore principale dell’Orchestra - è il protagonista del secondo
concerto de laVERDI, condotto da uno degli attuali Direttori principali
ospiti, Gaetano D’Espinosa.
In programma
due lavori di cui Barshai è stato, come dire, il secondo padre: non li ha messi
al mondo lui, ma li ha svezzati e allevati con grande cura e amore.
Dal maestro e
amico Dimitri Shostakovich Barshai
ebbe l’autorizzazione a trascrivere per orchestra d’archi il famoso quanto
controverso Quartetto n°8 op.110,
divenuto quindi Sinfonia
da camera op.110a. Nel marzo di 4 anni fa un malanno improvviso gli
impedì di dirigerla personalmente in Auditorium (lo sostituì Grazioli) dove
purtroppo non mise più piede, essendo venuto a mancare nel novembre di quello
stesso anno: questo concerto è quindi anche un doveroso tributo alla sua grande
figura di musicista.
Dell’ottavo
Quartetto si è scritto di tutto, date le circostanze in cui fu composto e le
(pseudo?) rivelazioni che dopo la morte del compositore ne misero in nuova e
diversa luce la figura di uomo e i rapporti con il potere sovietico.
In memoria delle vittime di fascismo e
guerra: questa la dedica (che peraltro Shostakovich annunciò,
solo a voce, un paio di mesi dopo la composizione) del quartetto, composto in
soli tre giorni (12-14 luglio) nel 1960 a Dresda, dove ancora erano evidenti i
segni lasciati dai terribili bombardamenti alleati che in 2 notti (13-15
febbraio, 1945) avevano ridotto la splendida Firenze dell’Elba ad un cumulo di macerie.
Ma quello
era anche il periodo in cui il compositore, avendo accettato pochi mesi
addietro la nomina a Primo Segretario
dell’Unione Compositori della Repubblica Russa, aveva di conseguenza dovuto
far richiesta di iscrizione al Partito Comunista (iscrizione che lui aveva
prima di allora categoricamente rifiutato e che verrà confermata pochi mesi
dopo): un atto di cui Shostakovich non poteva non valutare (e subire!) portata
e conseguenze.
Nella
famosa lettera scritta all’amico Isaak
Davydovich Glikman nemmeno una settimana dopo la composizione del
Quartetto, Shostakovich vi getta una luce assai lontana da quella della dedica pseudo-ufficiale
(che annuncerà posteriormente!): arrivando a definirlo ideologicamente riprovevole e in
realtà pensato come un auto-epitaffio! In effetti cosa c’entrino con le vittime
di fascismo e guerra le auto-citazioni da alcune sinfonie (1, 5 e 8), un trio
(2), un concerto (cello) e la Lady, più quelle della Patetica, del beethoveniano Muß
es sein? e un po’ di Wagner – il tutto infarcito da massicce dosi della propria
sigla DSCH! - è arduo da comprendere. Però è pur vero che le citazioni (nel
secondo movimento) di un tema ebraico composto nel ’44 in pieno Olocausto e
(nel quarto) di un canto di prigionia (Oppresso da
duro servaggio) parrebbero testimoniare della sincerità dell’approccio di
Shostakovich.
In realtà, senza necessariamente dar credito assoluto alle teorie di Solomon Volkov, il cui libro su Shostakovich del 1979 fece scalpore, presentando del compositore un’improbabile immagine di eroico paladino dell’anti-stalinismo e dell’anti-comunismo, si può plausibilmente immaginare che il buon Dimitri vivesse e soffrisse sulla sua pelle le contraddizioni in cui si era cacciato avendo deciso di… non decidere che ruolo giocare fino in fondo (servo del regime – fiero dissidente). E l’ottavo quartetto sembra proprio uno specchio di queste contraddizioni, di questa faticosa e stressante, oltre che inconcludente, ricerca di una terza via esistenziale.
In realtà, senza necessariamente dar credito assoluto alle teorie di Solomon Volkov, il cui libro su Shostakovich del 1979 fece scalpore, presentando del compositore un’improbabile immagine di eroico paladino dell’anti-stalinismo e dell’anti-comunismo, si può plausibilmente immaginare che il buon Dimitri vivesse e soffrisse sulla sua pelle le contraddizioni in cui si era cacciato avendo deciso di… non decidere che ruolo giocare fino in fondo (servo del regime – fiero dissidente). E l’ottavo quartetto sembra proprio uno specchio di queste contraddizioni, di questa faticosa e stressante, oltre che inconcludente, ricerca di una terza via esistenziale.
Un
corposo, acuto (e pure pedante…) saggio di Peter J. Rabinowitz propone invece una intrigante
spiegazione per le origini del Quartetto: partendo dall’osservazione di un parallelo/precedente,
che ha come soggetto Richard Strauss. Come Shostakovich, anche il bavarese
era stato (in musica) un focoso rivoluzionario ad inizio carriera, per poi mutarsi
in conservatore ed assumere un atteggiamento compiacente (ma non servile) verso
il Terzo Reich; aveva composto da (abbastanza) giovane un brano smaccatamente autobiografico
(Ein Heldenleben, infarcito di auto-citazioni) e poi, a WWII finita e con
Monaco in macerie, aveva apposto il sigillo In Memoriam alle sue costernate
meditazioni delle Metamorphosen, citando la marcia funebre dell’Eroica.
Ecco, perché non ipotizzare che Shostakovich, in questo suo ottavo quartetto, abbia
inteso condensare il suo curriculum di artista e allo stesso tempo abbia inteso esternare il suo stato d‘animo di uomo disilluso e tradito nei suoi
ideali dalla dura realtà?
La
rapidità della composizione (che i maligni potrebbero obiettare essere solo un
affrettato affastellamento di citazioni, proprie e altrui, senza alcunché di
originale…) può far pensare ad uno Shostakovich in realtà disimpegnato e perfino
ipocrita; però va riconosciuto che quella splendida compiutezza della forma (definizione
usata dal compositore nella lettera a Glikman) non è proprio una millanteria, e
se si ascolta il Quartetto senza far troppo caso ai riferimenti (musicali ed
extra-) non si può non rimanerne ammirati.
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La
macro-struttura del Quartetto è di tipo, diciamo, tardo-mahleriano: ai due
estremi i movimenti lenti (1/4-5) e al centro quelli allegri (2-3). Tutti sono
connessi senza soluzione di continuità. L’impianto tonale (tutto in minore) presenta pure una certa qual
simmetria: DO-SOL#-SOL-DO#-DO (notare il tritono
che separa il movimento centrale dal successivo). E anche la durata dei
movimenti è abbastanza uniforme, mantenendosi fra 3 minuti e mezzo e cinque e
mezzo, per un totale di circa 20-23 minuti.
Seguiamo
ora la musica sulla registrazione originale della prima, tenutasi a Leningrado il 2 ottobre 1960, interprete il Quartetto Beethoven.
Il
primo dei cinque movimenti (Largo, DO
minore) si apre con l’esposizione della firma
dell’Autore, quella sigla DSCH (Dimitri SCHostakowitsch, alla
tedesca) che in musica si traduce in RE-MIb-DO-SI: è il violoncello ad
attaccarla, seguito a canone stretto dagli
altri tre archi, con la seconda e la quarta voce sul quinto grado:
A
40” il primo violino, dopo aver
reiterato (col secondo) la firma, attacca un
motivo, poi ripreso dal secondo e dalla viola, che cita – in modo mesto –
l’apertura impertinente (là affidata a tromba e fagotto) della Prima Sinfonia:
A 55” è
sempre il primo violino a chiudere questa sezione con la firma dell’Autore, sulla quinta vuota nel grave (DO-SOL) degli
altri tre strumenti; e sempre lui (a 1’04”)
si imbarca in un lugubre recitativo di 18 misure che si muove prevalentemente
per gradi congiunti e che sembra alludere alla Patetica (secondo soggetto del primo movimento) chiuso (a 1’40”) dalla firma nel violoncello; cui segue nel primo violino un breve
passaggio che ne ricorda uno dall’Andante
della mozartiana Sinfonia Concertante per
violino e viola, chiuso da un inciso (DO-SOL-SOL-DO-SI) che tornerà alla fine
del movimento e alla fine del quartetto. A 1’56”
ecco una nuova auto-citazione, dalla Quinta
Sinfonia (la più famosa ed eseguita di Shostakovich): è la melodia esposta
dai primi violini a battuta 6 del Moderato
di apertura dell’Op.47:
Il
motivo viene reiterato altre due volte, prima di sfociare, in tutti gli archi (2’37”) in un perentorio ritorno della firma, in tempo dilatato. Ora un passaggio
con qualche sprazzo di luce (come un fugace DO maggiore a 2’55”) porta ad una ripresa della firma (3’24”) e ancora (3’35”) della citazione dalla Prima Sinfonia. Un’ultima (per ora…)
ricomparsa della firma (3’51”) porta alla mesta chiusura su un
lungo SOL# di 3 dei 4 archi (il violino primo tacet) preceduto dall’inciso udito prima del richiamo alla Quinta.
Restando
in DO minore riprende il motivo principale (5’20”) e a 5’30”, poi a 5’36” si fa immancabilmente risentire, nel primo
violino e sempre in tempo dilatato, la firma.
Che ricompare poco dopo nel violoncello (5’51”)
e subito nella viola.
A 5’59” si
torna a SOL# minore per l’inizio della seconda parte del movimento, che in pratica
ripercorre il cammino della prima. A 6’21”
è ancora il DO minore a farla da padrone, recandoci, a 6’27” e poi a 6’30”,
altre due firme, sempre nel primo
violino; viola e violoncello (6’38”)
ripropongono ora il motivo ebraico che letteralmente… scompare come in un pof! su una dissonanza MIb-FA# seguita
da una corona puntata. È la fine del movimento (6’49”) che lascia ora spazio al SOL minore dell’Allegretto.
A
6’51” il primo violino attacca… con
cosa? La firma! A 6’56 si passa da 4/4 al walzer! Ed è un walzer davvero spiritato (qualcuno ci vede somiglianze con la Danse macabre) che gioca con la firma come un gatto
col topo! A 7’05” violoncello e
viola danno smaccatamente il tempo, sul quale il primo violino attacca il tema
costruito sulla sigla DDSCH, che si può leggere come Dimitri Dimitrevich
SCHostakovich… quindi una cosa fra il presuntuoso e l’affettato:
Dopo che il tema è stato riproposto, abbiamo un nuovo
soggetto (7’40”) dove la firma
compare di sfuggita nel secondo violino (7’50”).
A 8’06 riprende il motivo conduttore
che poco dopo (8’16”) lascia spazio
ad una transizione dove udiamo per quattro volte la firma normale, che ci porta alla sezione centrale del movimento. Qui
(8’36”) il primo violino cita il
tema che il violoncello espone proprio all’inizio del Concerto op.107:
A 8’45”
troviamo un nuovo motivo, un comodo recitativo esposto dal violoncello nel
registro acuto sulle ondeggianti crome dei violini, che ci porta (9’13”) alla parte conclusiva del
movimento, che è una ripresa condensata della sezione iniziale, quindi vi
risentiamo il DDSCH e il secondo soggetto. A 10’12” inizia una coda
che il solo primo violino completa con una vaghissima reminiscenza della Patetica e chiudendo poi su un LA#
grave.
Il
Quarto movimento (10’41”) è un Largo in DO# minore. Nelle prime tre battute, sul lungo LA# grave
del primo violino in pianissimo che si prolunga dal movimento precedente, si
ode un duplice segnale, in fortissimo, degli altri archi. Chi vuole può
sentirci il sordo rombo dei bombardieri in avvicinamento su Dresda su cui si
sovrappongono i secchi richiami delle sirene (o i colpi della contraerea?) Ma
già alla battuta successiva è la storia della musica a farsi largo:
Sì, un
altro famoso Quartetto: l’Op.135 di
Beethoven! Shostakovich aveva già impiegato il tema, senza le tre pesanti crome
che lo chiudono, nella colonna sonora del film La giovane guardia, del 1948, senza contare la parentela con il motivo
del concerto per violoncello citato più sopra. Forse a questo motivo fa riferimento il compositore nella sua lettera a Glikman, quando cita Wagner: in effetti una lontana
parentela con l’Enigma del Destino ci
può anche stare, visto che pur sempre di una domanda si tratta…
Questa specie di avvertimento viene ripetuta altre tre volte, ma l’ultima, invece che in minore, chiude (11’16”) in FA# maggiore! Ma è solo un fuoco di paglia, poiché subito l’atmosfera si rifà cupa e a 11’19” il primo violino accenna l’incipit del Dies Irae (che già era nascosto nelle ultime note del movimento precedente). A 11’30” si ode un nuovo lugubre motivo che ci accompagna fino a 12’24”, dove ritorna (per due volte) il perentorio richiamo.
Introdotto
dal DSCH (un tono sopra) della viola e del violoncello, ecco ora (12’46”) comparire nel primo violino un canto rivoluzionario: Zamuchen tyazheloy nevoley (Oppresso
da duro servaggio); un testo ottocentesco (di Grigorij Machtet) cantato persino ai funerali di Lenin, che rimanda
ai campi di prigionia zaristi:
Questa specie di avvertimento viene ripetuta altre tre volte, ma l’ultima, invece che in minore, chiude (11’16”) in FA# maggiore! Ma è solo un fuoco di paglia, poiché subito l’atmosfera si rifà cupa e a 11’19” il primo violino accenna l’incipit del Dies Irae (che già era nascosto nelle ultime note del movimento precedente). A 11’30” si ode un nuovo lugubre motivo che ci accompagna fino a 12’24”, dove ritorna (per due volte) il perentorio richiamo.
A 13’41”
il primo violino propone una melodia che vagamente ricorda il Poco più mosso del 3° movimento della Sinfonia 11, e poco dopo (14’02”) è la volta di un’altra
auto-citazione, ancora negli acuti del violoncello: la bellissima melodia che Ekaterina Lvovna canta a Sergei nella
prigione che li accoglie lungo la via della deportazione in Siberia:
A 14’44”
torna a farsi sentire il drammatico richiamo che aveva introdotto il movimento,
seguito dall’incipit del canto rivoluzionario e da un’ultima apparizione del
richiamo iniziale. Infine (15’16”) il primo
violino ci ricorda il Dies Irae e poi
appone l’ennesima firma al movimento.
Il finale
Largo, in DO minore, si apre (15’31”) con la firma nel violoncello, seguita dal motivo mozartiano già apparso
nel primo movimento (prima della citazione della Quinta sinfonia). Viola, violino secondo e primo ripetono la firma (seconda e quarta voce sul quinto
grado) come all’inizio del quartetto, ma stavolta a canone largo. In contrappunto si ode, dapprima nel violoncello (15’48”) un motivo che viene dalla
quarta scena della Lady Macbeth,
quella dell’insonnia di Boris Izmailov.
Curiosa la rassomiglianza di questo motivo con una parte del tema dell’Inno sovietico (composto da Alexander Alexandrov più di 20 anni dopo
la Lady!)
Chissà se
Shostakovich abbia voluto farci un criptico riferimento alla situazione politica
(e magari alle sue segrete speranze) visto che il tema, alla fine, va praticamente
a… morire. A 16’10” il primo violino
chiude la quarta voce della firma e ha
inizio la seconda parte dell’esposizione, dove il motivo dalla Lady contrappunta
nuove apparizioni della firma da gradi diversi.
A 17’23”, come all’inizio del quartetto, si
ripete la firma a canone stretto, seguita
dal solo incipit della citazione della Prima sinfonia, sostituito dal motivo dalla
Lady, che si spegne sommessamente; a 18’16” l’ultima firma del primo violino, poi l’inciso DO-SOL-SOL-DO-SI
udito nel primo movimento porta alla mesta chiusura, sulla quinta vuota DO-SOL nel
grave.
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Anche quando
autorizzata dall’Autore, e realizzata con grande cura, come in questo caso, la
trascrizione di un quartetto per l’orchestra lascia sempre a desiderare, poiché
fatalmente si viene a perdere quella trasparenza e pulizia di suono che
costituiscono i principali punti di forza di questo genere musicale. Ad ogni
modo va fatto tanto di cappello ai ragazzi e al Direttore per aver dato il
meglio per trasmettere al pubblico almeno i contenuti dell’opera, se non la sua
forma originale. La quale si
potrà apprezzare fra poche settimane (31 ottobre) all’Auditorium SanFedele di Milano,
eseguita dal Quartetto di Cremona in un
concerto del 23° Festival di MilanoMusica.
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L’altro lavoro
di Barshai presentato in questo concerto è la colossale, quanto spuria, Decima di Mahler, che era in programma già lo
scorso marzo, ma di cui allora si era inopinatamente eseguito solo il
tradizionale Adagio.
Essendo
rimasta allo stato di abbozzo, per quanto abbastanza completo (come abbozzo) la sinfonia fu
oggetto di un prima edizione da parte di Deryck
Cooke nei primi anni ’60 del secolo scorso. Dopo la liberatoria di Alma del
1963, diversi altri musicisti/musicologi si sono cimentati nell’impresa e
Barshai si è aggiunto nel 2000 (ma altri sono seguiti). Più di tre anni fa
abbiamo ascoltato qui in Auditorium la versione Cooke (stampata da Faber)
sulla quale scrissi qualche
nota.
La versione Barshai
(stampata dalla Universal)
è ovviamente diversa da quella di Cooke di cui, fosse anche solo per ragioni cronologiche, ha sfruttato
l’esperienza delle numerosissime esecuzioni ed incisioni fattene (anche dallo stesso
direttore russo) negli ultimi 50 anni. Le differenze fra le due versioni che vengono
maggiormente in luce, almeno a fronte del semplice ascolto, riguardano il Finale, dove l’orchestrazione di Barshai
appare più ricca e, in particolare, aumenta il ruolo e il peso degli archi. Per
il resto si tratta di sfumature che è difficile cogliere anche ad un orecchio… allenato.
L’esecuzione di ieri è stata di buon livello, ma non direi proprio che abbia contribuito a far crescere le azioni di questo lavoro. Parafrasando il famoso giudizio che Hans von Bülow espresse a Richard Strauss sulla ricostruzione fatta da Mahler dell’opera Die drei Pintos (wo Weberei, wo Mahlerei, einerlei…) si potrebbe dire: che sia Cooke o sia Barshai, poco Mahler ci troverai! Mi chiedo, fra l’altro, di chi sia stata l’idea di far suonare i colpi di tamburo fra il 4° e il 5° movimento in quel modo: l’esatto opposto di ciò che immaginava Mahler, un suono sordo, ottenuto coprendo completamente il tamburo, come si legge chiaramente sul manoscritto:
L’esecuzione di ieri è stata di buon livello, ma non direi proprio che abbia contribuito a far crescere le azioni di questo lavoro. Parafrasando il famoso giudizio che Hans von Bülow espresse a Richard Strauss sulla ricostruzione fatta da Mahler dell’opera Die drei Pintos (wo Weberei, wo Mahlerei, einerlei…) si potrebbe dire: che sia Cooke o sia Barshai, poco Mahler ci troverai! Mi chiedo, fra l’altro, di chi sia stata l’idea di far suonare i colpi di tamburo fra il 4° e il 5° movimento in quel modo: l’esatto opposto di ciò che immaginava Mahler, un suono sordo, ottenuto coprendo completamente il tamburo, come si legge chiaramente sul manoscritto:
E come par di sentire
anche nella registrazione di Barshai (da 52’58”).
Ecco, ci resta solo da ricordare con affetto il Maestro, che fra poco più di un
mese avrebbe compiuto 90 anni.
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