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21 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 10


Il flamboyant Wayne Marshall (uno dei tre Direttori Principali Ospiti) esordisce nella stagione con un bel pieno-di-RavelPieno e anche… piano, visti i due concerti offerti dal palinsesto e proposti da uno degli aficionados dell’Auditorium, Roberto Cominati.    

Anche il pezzo di apertura avrebbe in realtà a che fare con la tastiera: infatti è Alborada del gracioso (serenata mattutina del giullare) quarto dei 5 Specchi per pianoforte composti nel 1905. Noi però ascoltiamo la versione orchestrale che l’Autore produsse 13 anni più tardi. La maestria di Ravel in fatto di orchestrazione rifulge qui più che mai, basti pensare alla suddivisione degli archi, per i quali nella sezione centrale (Plus lent) del brano sono previste ben 24 parti (6-6-5-4-3)!

Questa di Ravel è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse dai racconti della madre) ma non per questo meno suggestiva ed accattivante. L’intera orchestra sembra impiegata come fosse un’unica, gigantesca chitarra, che accompagna danze sfrenate o languidi canti. Insomma, un breve ma straordinario affresco musicale, che l’orchestra ci porge nel migliore dei modi.
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Dal Ravel giovane passiamo direttamente a quello maturo, anzi ormai prossimo all’inesorabile decadenza, legata probabilmente all’incidente d’auto del 1932: sono i due concerti per pianoforte. Arriva quindi il… pilota di jet Cominati per cimentarsi dapprima con il Concerto in RE, quello amputato della mano destra, richiesto a Ravel dallo (e quindi dedicato allo) sfortunato quanto ricco pianista Paul Wittgenstein, tornato dal fronte ukraino della Grande Guerra (e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo braccio sinistro…

Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti! Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni in agogica cangiante: dapprima c’è un rigido alternarsi fra strumenti e solista (introduzione in Lento degli strumenti gravi) poi il pianoforte solo con una prima cadenza, quindi ancora la sola orchestra e poi il solista in tempo Più lento. Ora abbiamo il dialogo (Andante) che sfocia nell’Allegro (6/8) di piglio marziale e sapore jazzistico, un lungo passaggio con interventi improvvisi del solista e di strumenti diversi. Dopo una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero, torna il tempo lento iniziale, orchestra e solista dialogano accanitamente, finchè si arriva alla virtuosistica cadenza conclusiva, chiusa infine da 5 battute di crome martellanti dell’intera orchestra.

Possiamo ascoltare il dedicatario in brani (fra cui la cadenza) del concerto in questa esecuzione a Parigi, 1933.

Cominati ha fatto del suo meglio per farci digerire questo pezzo che è francamente ostico, oltre che per l’interprete, anche per l’ascoltatore: non è un caso che fra autore e dedicatario fossero insorte, ai tempi, divergenze e persino liti sui contenuti estetici dell’opera.
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Ancora Cominati nel celebre Concerto in SOL, da lui già eseguito e con grande successo qui in Auditorium più di 3 anni fa. Questo lavoro è praticamente contemporaneo dell’altro, ma ha una struttura assai più tradizionale, quindi più abbordabile, oltre a risentire ancor più dell’influsso americano (Ravel aveva viaggiato in USA) e così jazz e blues vi hanno una parte fondamentale (evidentissima già all’attacco del tema del clarinetto, che pare proprio Gershwin!)

Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). In esso compare, fra gli altri e verso la fine, un bellissimo intervento del corno inglese, ieri suonato dalla bravissima Paola Scotti.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.

Cominati non si smentisce e ci offre ancora un’interpretazione davvero trascinante, accolta con grande calore.
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Tornando indietro negli anni (nella vita di Ravel, s’intende) ecco per finire la seconda suite di Daphnis&Chloé, che include tre brani (Alba, Pantomima e Danza generale) della seconda parte del balletto e dura poco più di 15 minuti, circa un quarto dell’intero balletto. La partitura prevederebbe anche la presenza del coro, che qui (come quasi sempre) non viene scomodato, anche perchè Ravel stesso ha pensato a come rimpiazzarlo con parti dell'orchestra.

All’apertura, flauti e poi clarinetti sono impegnati in incredibili virtuosismi (biscrome ondeggianti) sui quali ottavino e flauto paiono uccellini che cinguettano al sorgere del sole, sottolineato dall’esplosione di tutta l’orchestra, mentre Daphnis ancora dorme. Arriva poi a svegliarla il pastore con il suo gregge (accompagnato dal clarinetto). Quindi la Pantomime inizia con il flauto che suona il richiamo di Daphnis, fino al'abbraccio fra i due innamorati e al giuramento, che apre la travolgente Danza generale, in LA, dove si alternano il tempo zoppo di 5/4 (3+2) e quello ternario, fino alla conclusiva apoteosi in 2/4.


Marshall e soprattutto i ragazzi non si sono risparmiati,  meritandosi così l’applauso del loro pubblico, che peraltro non era proprio oceanico: chissà, forse parecchi frequentatori abituali dell’Auditorium hanno storto il naso di fronte ad un menu troppo a senso unico, un po’ come una cena a base di solo… camembert (smile!)

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