Il flamboyant Wayne Marshall (uno dei tre Direttori
Principali Ospiti) esordisce nella stagione con un bel pieno-di-Ravel. Pieno e anche…
piano, visti i due concerti offerti dal palinsesto e proposti da uno degli aficionados dell’Auditorium, Roberto Cominati.
Anche il pezzo
di apertura avrebbe in realtà a che fare con la tastiera: infatti è Alborada
del gracioso (serenata mattutina
del giullare) quarto dei 5 Specchi
per pianoforte composti nel 1905. Noi però ascoltiamo la versione orchestrale
che l’Autore produsse 13 anni più tardi. La maestria di Ravel in fatto di
orchestrazione rifulge qui più che mai, basti pensare alla suddivisione degli
archi, per i quali nella sezione centrale (Plus
lent) del brano sono previste ben 24 parti (6-6-5-4-3)!
Questa di Ravel
è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse dai racconti della madre) ma
non per questo meno suggestiva ed accattivante. L’intera orchestra sembra
impiegata come fosse un’unica, gigantesca chitarra, che accompagna danze
sfrenate o languidi canti. Insomma, un breve ma straordinario affresco musicale,
che l’orchestra ci porge nel migliore dei modi.
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Dal Ravel
giovane passiamo direttamente a quello maturo, anzi ormai prossimo all’inesorabile
decadenza, legata probabilmente all’incidente d’auto del 1932: sono i due
concerti per pianoforte. Arriva quindi il… pilota
di jet Cominati per cimentarsi dapprima con il Concerto in RE, quello amputato della mano destra, richiesto a
Ravel dallo (e quindi dedicato allo) sfortunato quanto ricco pianista Paul Wittgenstein, tornato dal fronte ukraino
della Grande Guerra (e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo
braccio sinistro…
Ravel ha
cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una
scrittura che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il
suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti! Il Concerto è in un solo
movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni in agogica cangiante:
dapprima c’è un rigido alternarsi fra strumenti e solista (introduzione in Lento degli strumenti gravi) poi il
pianoforte solo con una prima cadenza, quindi ancora la sola orchestra e poi il
solista in tempo Più lento. Ora
abbiamo il dialogo (Andante) che
sfocia nell’Allegro (6/8) di piglio
marziale e sapore jazzistico, un lungo passaggio con interventi improvvisi del
solista e di strumenti diversi. Dopo una grande accelerazione, dove si sentono
quasi degli accenti del Bolero, torna
il tempo lento iniziale, orchestra e solista dialogano accanitamente, finchè si
arriva alla virtuosistica cadenza conclusiva, chiusa infine da 5 battute di
crome martellanti dell’intera orchestra.
Possiamo
ascoltare il dedicatario in brani (fra cui la cadenza) del concerto in questa
esecuzione a Parigi, 1933.
Cominati ha
fatto del suo meglio per farci digerire questo pezzo che è francamente ostico,
oltre che per l’interprete, anche per l’ascoltatore: non è un caso che fra
autore e dedicatario fossero insorte, ai tempi, divergenze e persino liti sui
contenuti estetici dell’opera.
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Ancora
Cominati nel celebre Concerto in SOL, da lui già eseguito
e con grande successo qui in Auditorium più di 3 anni fa. Questo lavoro è
praticamente contemporaneo dell’altro, ma ha una struttura assai più
tradizionale, quindi più abbordabile, oltre a risentire ancor più dell’influsso
americano (Ravel aveva viaggiato in USA) e così jazz e blues vi hanno una
parte fondamentale (evidentissima già all’attacco del tema del clarinetto, che
pare proprio Gershwin!)
Il
lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel
fino alla consunzione fisica (parole sue). In esso compare, fra gli altri e
verso la fine, un bellissimo intervento del corno inglese, ieri suonato dalla
bravissima Paola Scotti.
Il
breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non
solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati,
nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di
semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.
Cominati
non si smentisce e ci offre ancora un’interpretazione davvero trascinante, accolta
con grande calore.
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Tornando
indietro negli anni (nella vita di Ravel, s’intende) ecco per finire la seconda suite di Daphnis&Chloé, che
include tre brani (Alba,
Pantomima e Danza generale) della seconda parte del balletto e dura poco
più di 15 minuti, circa un quarto dell’intero balletto. La partitura
prevederebbe anche la presenza del coro, che qui (come quasi sempre) non viene
scomodato, anche perchè Ravel stesso ha pensato a come rimpiazzarlo con parti
dell'orchestra.
All’apertura, flauti e poi clarinetti sono impegnati
in incredibili virtuosismi (biscrome ondeggianti) sui quali ottavino e flauto
paiono uccellini che cinguettano al sorgere del sole, sottolineato
dall’esplosione di tutta l’orchestra, mentre Daphnis ancora dorme. Arriva poi a
svegliarla il pastore con il suo gregge (accompagnato dal clarinetto). Quindi
la Pantomime inizia con il flauto che suona il richiamo di Daphnis,
fino al'abbraccio fra i due innamorati e al giuramento, che apre la
travolgente Danza generale, in LA, dove si alternano il tempo zoppo
di 5/4 (3+2) e quello ternario, fino alla conclusiva apoteosi in 2/4.
Marshall e soprattutto i ragazzi non si sono risparmiati,
meritandosi così l’applauso del loro
pubblico, che peraltro non era proprio oceanico: chissà, forse parecchi
frequentatori abituali dell’Auditorium hanno storto il naso di fronte ad un menu troppo a senso unico, un po’ come
una cena a base di solo… camembert (smile!)
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