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06 febbraio, 2022

Una escort fa il suo vero esordio alla Scala. 1- Le origini letterarie

Thaïs di Jules Massenet fu presentata a Parigi nel 1894 (poi la versione definitiva nel 1898) ma arriva al Piermarini, nell’originale francese, solo adesso, dopo la fugace apparizione del 1942 in italiano con Marinuzzi sul podio e la Favero e Bechi protagonisti... Beh, confesso che non la stavo proprio attendendo con grande ansia, tuttavia... a caval donato comprato etc.

Ma intanto: chi era costei? Ah, saperlo!

Le prime tracce risalgono all’antica Grecia, ai tempi di Alessandro Magno (seconda metà del 300 a.C.) al seguito del quale la prostituta Taide partecipò alla seconda guerra persiana.

Della stessa epoca e sempre in ambito greco abbiamo tracce di una (diversa) Taide in opere di Menandro, due delle quali (perdute) furono riprese più di 150 anni dopo (160 a.C.) da Terenzio nella sua commedia Eunuchus, dove Taide ha un protettore che la mette a disposizione di un soldato, che le fa preziosi e graditi regali (Cicerone citò questo particolare più di 100 anni dopo, nel suo De Amicitia).

Da queste fonti nel Medioevo nacque e si diffuse lo stereotipo Taide=puttana, che un tale Dante Alighieri abbracciò in pieno, tanto da citare una Taide nel Canto XVIII dell’Inferno, dove la incontra nel girone dei lussuriosi degli adulatori (!? il chiaro, anche se equivocato, riferimento è a Terenzio, via Cicerone). Peraltro il divin poeta non usa mezze parole per presentarcela:  

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l'occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l'unghie merdose,
e or s'accoscia e ora è in piedi stante.

Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse "Ho io grazie
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!"

 

E a chi si chiede il perchè dell’attributo delle unghie di Taide faccio notare che nell’illustrazione (del Doré) lo stagno in cui sguazzano i tre arrapati per la prostituta non è (secondo Dante) acqua infernale, ma merda!

 

Massenet? No no, il suo esprit-de-finesse non gli permetteva di abbassarsi a queste sozzerie! Così prese lo spunto da un altro, e totalmente diverso, filone letterario che tratta di Taide: il filone cristiano, di storie fiorite (in Grecia, Siria, ...) dalla metà del primo millennio in poi, che ci narrano di una Taide che vive (siamo nel 4° secolo d.C.) ad Alessandria d’Egitto, dove è sì una prostituta in origine, ma alla fine - a mo’ di Maria Maddalena - si pente, espia le sue colpe e muore in... santità! Sì, la Santa Taide, ricordata sui calendari (magari come Santa Pelagia, che ha una storia simile o sovrapponibile) precisamente l’8 Ottobre!

 

Questa versione cristiana di Taide ebbe come campione nella Francia di fine ‘800 Anatole... France.  Che dapprima (1867) ne fece un poema in versi (La légende de Sainte Thaïs, comédienne) e poi (1889) un racconto, cui si ispirò Louis Gallet per stendere il libretto dell’opera per l‘amico Massenet.

 

France ideò il suo racconto sulla scorta di una versione medievale della storia di Taide, dovuta alla monaca Hrotswitha von Gandersheim, poco prima dell’anno 1000. In quel testo (teatrale) il co-protagonista (che dà anche il titolo alla storia) è il monaco Paphnutius (Paphnuce per France e Athanaël nel libretto di Gallet) che di fatto guida la donna perduta verso la rinuncia al mondo e la finale redenzione e santificazione.

 

Ma France non si limitò a romanzare la vicenda patetica e strappalacrime della prostituta pentita e redenta, ma vi introdusse, di sua invenzione, un fondamentale arricchimento della personalità del monaco Paphnuce, al quale fa compiere un percorso speculare a quello di Thaïs, il passaggio dall’ascesi alla libidine! Ecco quindi che il racconto (un po’ meno l’opera di Massenet, che ne annacqua questo aspetto) acquista un risvolto di assoluto rilievo e di aperta sfida alla religione: la drammatica commistione di santità e peccato, di fede e lussuria, di spiritualità e materialità.

 

Come giustamente si addice ad un racconto, France lo infarcì di divagazioni spesso poco pertinenti (o come minimo dispersive) con il cuore della vicenda narrata, ed altrettanto naturalmente esse vennero ignorate da Gallet al momento di predisporre il libretto per Massenet: ciò vale per le lunghe descrizioni dei sogni di Paphnuce e, come massimo esempio, per tutta la lunghissima scena del Banchetto (Capitolo II) di cui sopravviverà soltanto un breve spezzone nella scena a casa di Nicias.

 

Il lavoro si suddivide in tre soli capitoli, intitolati a specie vegetal-floreali: loto, papiro ed euforbia. Furono pubblicati in tre puntate su una rivista nel 1889 e poi raccolti in volume nel 1890.

 

I. Le Lotus. Il primo capitolo descrive con grande dovizia di particolari la vita della Tebaide, dove i monaci sono continuamente alle prese con tentazioni sataniche a sfondo sessuale, che combattono con digiuno e preghiera. Poi presenta il personaggio (e la personalità) di Paphnuce, Abate di Antinoe (o Antinopoli, sulla sponda destra del Nilo, di fronte all’odierna Mallawi, tra Minya e Asyut, circa 300Km a sud del Cairo) e la sua decisione di tornare - a 35 anni e dopo 10 di permanenza nel deserto - nella natia Alessandria per redimere Thaïs, da lui conosciuta (e desiderata) quand’era quindicenne, prima di essere toccato dalla fede, farsi monaco e dedicarsi al digiuno e alla preghiera. Questa decisione sopraggiunse dopo che la figura della donna gli era apparsa più volte in atteggiamenti esplicitamente adescanti. Invano un vecchio asceta, Palémon, da lui interpellato, cerca di dissuaderlo dall’impresa. Così lui si avvia - a piedi! - verso Alessandria, dopo aver affidato i suoi 23 discepoli ad un diacono.

 

Il viaggio è assai lungo (sarebbero almeno 500 Km) e per di più France - per ignoranza delle carte geografiche o per deliberata libertà letteraria - dopo averci descritto l’abate che si incammina sulla riva sinistra - libica - del Nilo (quindi dopo aver attraversato il fiume...) lo fa muovere, invece che verso nord, esattamente nella direzione opposta, tanto che dopo 6 giorni e almeno 500 Km di camminata il nostro arriva a Silsilé (Gebel-el-Silsila, circa 1000 Km da Alessandria!) dove si intrattiene con una Sfinge colà scolpita nella roccia e la libera da Satana (!)

 

Il 18° giorno del suo viaggio (presumibilmente avendo ripreso la direzione giusta, verso Nord) il nostro incontra un eremita agnostico e scettico, di origine greca, con il quale ingaggia una specie di tenzone filosofica, cercando di portarlo alla fede. Ma invano, così riprende il cammino e, in pochi giorni, eccolo in vista di Alessandria.

 

Dopo aver ripreso confidenza con le vie dell’opulenta e peccaminosa città (inclusa una quasi-lapidazione da parte di frotte di ragazzini...) Paphnuce ritrova facilmente la casa del suo vecchio amico Nicias, filosofo sibarita che lo accoglie a braccia aperte, insieme alle sue due schiavette, Crobyle e Myrtale, convinto che l’abate si sia de-abatizzato. Invece Paphnuce gli chiede solo di avere in prestito capi d’abbigliamento borghesi, da indossare per raggiungere il suo obiettivo: redimere Thaïs! Nicias gli rivela di esserne tuttora l’amante e lo mette in guardia dall’opporsi a Venere!

 

Vagando per la città arriva al porto occidentale, affollato di navi e barche di ogni tipo: ricordando i suoi sogni giovanili di andare per mare si addormenta, sfinito, su un fascio di cordame ed ha uno dei suoi frequenti sogni (o incubi) di cui poi cerca di individuare la provenienza, divina o infernale: la sfinge di Silsilè lo afferra con le sue fauci e, prendendo il volo, gli fa fare un... giro turistico che si conclude in un luogo desertico: lì c’è la porta dell’Inferno! Paphnuce guarda giù nell’abisso e vede una specie di girone dantesco popolato da infedeli che però si aggirano come nulla fosse sulla sponda di un fiume infuocato e indifferenti ad una pioggia di fuoco. Vi scorge Omero e Anassagora; e poi l’agnostico eremita incontrato durante il viaggio; e infine l’amico Nicias, in piacevole compagnia di Aspasia di Mileto (!) sul quale invoca - invano - una vera punizione divina...

 

Bruscamente risvegliato da un portuale, viene presto inghiottito da una gran folla che si avvia verso l’anfiteatro dove è in programma uno spettacolo con Thaïs! Paphnuce vi entra in compagnia di un filosofo scettico (un tipo non dissimile dall’eremita di Silsilé) ed assiste alla performance della commediante-mondana che impersona (Euripide? Sofocle?) Polissena condannata a morte dai greci per vendicare Achille. Dopo che lei ha offerto il petto alla spada di Pirro e si è teatralmente immolata, Paphnuce grida alla folla in delirio: questa donna sarà presto immolata a Dio resuscitato! Un’ora dopo bussa alla porta della sontuosa dimora di Thaïs.

 

II. Le Papyrus. Il secondo capitolo ci presenta - par-condicio - il personaggio e la personalità della protagonista. Raccontandoci con dovizia di particolari la vita di Thaïs fin dalla più tenera infanzia. Scopriamo che la piccola, figlia di un gestore di cabaret al porto di Alessandria e di una madre avarissima, era stata allevata di fatto da uno schiavo nubiano cristiano, che l’aveva fatta battezzare, iniziandola ai principii religiosi ma senza inculcarle alcun tabù a livello di rapporti umani (poco dopo l’uomo, in seguito alle persecuzioni dei cristiani, diventerà un martire della Chiesa, San Teodoro il Nubiano). Così lei ebbe le prime esperienze sessuali con suoi coetanei e in modo innocente.

 

Poi la sua vita cambiò con l’incontro con una vecchia donna che gestiva una compagnia itinerante di danzatori, ragazze e ragazzi che venivano affittati per deliziare le feste dei ricchi e dei notabili. Con lei si trasferì ad Antiochia (proprio ad un passo da casa...) dove divenne famosa come danzatrice e suonatrice di flauto. In effetti aveva intrapreso la professione di escort, accompagnando e concedendosi ai facoltosi clienti con la massima naturalezza, senza porsi alcun problema morale.


Poi arrivò l’amore, per il figlio del proconsole di Antiochia, che la piegò non senza pesanti insistenze. Amore però durato nemmeno sei mesi, dopodichè Thaïs tornò per un po’ alla sua precedente professione, per poi specializzarsi come attrice di prosa, fino a conquistare letteralmente il pubblico-bene di Antiochia, la cui crema la ricoprì d’oro, in cambio di... sì, proprio quello.

Fu così che, dopo anni trascorsi sulle rive dell’Oronte, ebbe nostalgia della sua Alessandria e vi fece ritorno, raccogliendo successi e... amori in quantità, ma non in qualità. Fra questi ecco proprio Nicias, che cercava di trascinarla nel suo agnosticismo e nella sua filosofia da carpe-diem, che lei peraltro cominciava ad aborrire, proprio in virtù del suo lontano passato da battezzata. Una notte, aggirandosi per Alessandria, si imbattè in una folla di cristiani che celebravano un loro martire: San Teodoro il Nubiano! Il ricordo dello schiavo che l’aveva fatta battezzare la distolse per un po’ dal vortice della sua vita mondana, portandola ad allontanare da sè anche Nicias.

Ma ben presto in quel vortice tornò a tuffarsi. Si era fatta costruire nella sua dimora una grotta delle ninfe, un ambiente esotico e orientaleggiante, dove spiccava una statuetta di Eros, dono di Nicias, e dove lei amava ritirarsi con gli amici a conversare; oppure, come quella sera, standosene a godere in solitudine il gran successo riscosso sulla scena, ma anche a meditare sul passar degli anni e sulla caducità delle cose terrene. Era la sera in cui Paphnuce l’aveva vista recitare Polissena. E adesso lui era lì, davanti a lei. Per manifestare il suo interesse per una donna così famosa e così bella.

I due all’inizio si abbandonano a banali schermaglie: lui dice di amarla di un amore a lei sconosciuto; lei lo irride, dall’alto della sua mondana esperienza in amori di ogni modo e maniera. Ma ecco che due rivelazioni rompono quell’atmosfera innaturale: dapprima lui, mostrandole il cilicio, si presenta come Paphnuce, Abate di Antinoé, suscitando nella donna sgomento e timore reverenziale, alimentati dal vivo ricordo dello schiavo nubiano divenuto martire; poco dopo è lei a rivelargli di essere stata battezzata, suscitando nel monaco un autentico entusiasmo, insieme alla certezza di poter ormai raggiungere il suo obiettivo di redenzione della peccatrice.

Ma la mondanità sembra riprendere il sopravvento: schiavi e schiave entrano per far bella Thaïs, che è invitata ad una gran festa conviviale in suo onore, dopo la strepitosa performance teatrale che l’ha vista trionfare poco prima. Paphnuce decide di non contrastarla, ma al contrario di seguirla alla festa, restando muto al suo fianco.      

Le Banquet. Qui France ci propina un’edizione moderna del platoniano Simposio, dove sedicenti filosofi di varie tendenze scolastiche si ritrovano (a casa di un notabile romano, ammiraglio della flotta di stanza ad Alessandria) e si confrontano dialetticamente - fra una portata e una bevuta - sui massimi sistemi (Dio per primo) e sui misteri della vita e della realtà. È un pretesto che lo scrittore impiega per mostrare la propria erudizione insieme ai propri orientamenti assai critici (e sarcastici) verso la Chiesa cattolica.

Fra i convenuti troviamo anche Ario, l’eretico condannato a Nicea, e un vecchio stoico che si rende protagonista di un autentico colpo-di-teatro, che tronca bruscamente il godereccio simposio: un suicidio in diretta!

La vacuità e la scostumatezza dell’atmosfera del banchetto, fra eresie religiose e autentiche orge, aprono ulteriormente gli occhi a Thaïs, ormai convinta a ritirarsi in un convento fuori città, verso occidente, come le ha promesso Paphnuce, che approfitta della situazione per trascinarla via da quei luoghi di perdizione. Ma prima lui le impone di disfarsi di tutto ciò che ricorda la sua vita passata nel peccato. Come? Dando alle fiamme tutto ciò che contiene la sua dimora! La donna vorrebbe salvare almeno la statuetta di Eros, che lei considera simbolo dell’amore naturale, non peccaminoso; ma Paphnuce, al colmo dell’ira, glie la strappa di mano e la scaraventa sul rogo!

Ma ora le cose per i due si complicano, poichè tutto il vicinato scende in strada, svegliato dal crepitare del fuoco e dall’acre odore di fumo. E, all’apprendere che Thaïs sta per lasciare la città insieme ad un monaco, si ribella a quello che considera un torto: negozianti che si mantenevano vendendo ogni ben di dio alla mondana e vedono sfumare i loro futuri affari; mendicanti cui Thaïs non lesinava carità che ora scompaiono; cittadini acculturati che rischiano di perdere l’oggetto dei loro piaceri estetici; amanti passati e futuri che vedono dissolversi l’oggetto dei loro desideri... Insomma, ne nasce un vero e proprio tumulto generale, che prende di mira il povero Paphnuce, ritenuto responsabile del disastro.

Per sua buona sorte, ecco sopraggiungere l’amico Nicias, che calma i bollori della folla a suon di... monete d’oro e d’argento, consentendo a monaco e pentita di svignarsela, uscendo dalla città verso occidente. Lungo il cammino Paphnuce tratta la donna con grande e financo eccesiva severità, costringendola a marciare a piedi nudi sul sentiero che costeggia il deserto e il mare e rimproverandole continuamente le sue malefatte, che solo dopo una lunga penitenza in clausura potranno essere perdonate.

Poi, accorgendosi che i piedi di Thaïs cominciavano a sanguinare, istantaneamente fu preso da grande compassione e cominciò ad invocarla come Santa Thaïs. Sequestrò un asino ad un ragazzo per issarvi la donna per il resto del viaggio, che durò ancora un’intera notte. All‘alba si mostrarono in lontananza i primi segni del monastero dove erano diretti.  

Ora frotte di monache si apprestavano a compiere ogni specie di lavoro domestico, mentre altre rimanevano immobili in contemplazione. Un’anziana monaca venne incontro ai due: era Albine, romana e nobile di origine, poi dedicatasi a custodire le giovani donne che erano ospiti del monastero. Paphnuce chiese per Thaïs una cella isolata e personalmente ne chiuse il catenaccio della porta, prima di avviarsi sulla via del ritorno ad Antinoe.

III. L‘Euphorbe. Se il viaggio di andata (fatto a piedi) era stato lungo e sofferto, forse per temprare lo spirito e la carne in vista delle fatiche della conquista (solo spirituale?) di Thaïs, quello di ritorno - ad impresa positivamente completata - fu assai rapido, grazie ad un... barcone che da Athribis (poche decine di Km a nord del Cairo) risaliva il Nilo per trasportare merci verso i monasteri sparsi sulle rive del fiume.

La notizia della redenzione della donna fatale era già arrivata prima di lui ad Antinoe, e Paphnuce fu quindi accolto come un trionfatore. Si ritirò presto nella sua cella ma, invece di ritrovarvi serenità e pace cominciò a sentirsi come a disagio, senza comprenderne il motivo. Ben presto cominciò ad apparirgli in sogno Thaïs, dapprima nello splendore della grazia, ma successivamente con aspetto esplicitamente peccaminoso. La sua cella fu invasa da un branco di sciacalli, segno inequivocabile della presenza di Satana. Sconvolto, decise di tornare nel deserto per sottoporsi a privazioni in espiazione dei suoi peccati.

Così fece visita al vecchio saggio Palémon per chiedergli conforto e consiglio. Il vegliardo gli suggerì di evitare altre privazioni corporali e invece di visitare i tanti monasteri sorti nella Tebaide, per raccoglierne le esperienze e la scienza. Ma, come già prima di partire per Alessandria, Paphnuce fece l’esatto contrario: avendo visto in sogno una colonna con capitello a forma di testa umana, mentre una voce lo esortava a salire su quella colonna, si incamminò alla ricerca di rovine di templi profani e ne ritrovò uno in cui si era fermato durante il viaggio verso Alessandria: lì vi era proprio la colonna apparsagli in sogno, con la testa di donna sulla cui fronte spuntavano due lunghe corna.

Trovò nelle vicinanze un falegname che gli costruì una scala, che lui usò per andare ad appollaiarsi sulla sommità della colonna (ndr: era il sacrificio cui si sottoponevano gli stiliti). Persone di buon cuore gli portavano del cibo e la sua presenza in quel luogo abbandonato attirò ben presto frotte di suoi seguaci; e con loro anche ogni tipo di businessman, che offriva ristori e persino alloggi ai visitatori: insomma, il luogo diventò meta turistica, oltre che di pellegrinaggio e in meno di sei mesi vi sorse una vera e propria cittadina (ovviamente chiamata Stilopolis) con tanto di municipio, di milizia, di scuola e di tribunale! E con una vita diurna e notturna da far invidia alle città più grandi e... peccaminose.

Persino l’ammiraglio della flotta romana venne in visita in quel posto e riconobbe il monaco che era stato suo ospite ad Alessandria: la cosa non fece che aumentare la popolarità di Paphnuce, riconosciuto come il più gran santo in circolazione, a venerare il quale arrivava gente da ogni dove, per chiedergli miracoli in gran quantità. 

Ma ormai Paphnuce si rendeva conto si essere precipitato nel vortice del peccato, con la sua morbosa attrazione per la figura di Thaïs, che non l’abbandonava più. Udì in sogno una voce che lo adulava, invitandolo a far carriera nella gerarchia ecclesiastica e ad abbandonare la colonna... volando come un angelo. Stava già per farlo quando la voce sbottò in una gran risata, rivelandogli di venire dall’Inferno e non da Dio e di essere stata la sua guida per tutto il tempo. Capì allora di essere diventato schiavo di Satana, mentre si credeva invece ministro di Dio! E quindi decise di abbandonare quella maledetta colonna (scendendo per la scaletta!) e di tornare nel deserto a cercare... appunto, Dio.

Vagando sulla sabbia si imbattè in una grande necropoli e trovò rifugio all’interno di una tomba, nei pressi di un’oasi dove trovava acqua e qualche frutto per cibarsi: ne fece quindi la sua dimora e il luogo di espiazione dei suoi peccati. Ma anche lì non trovò pace: una voce lo tormentava di continuo e gli chiese di osservare le pitture murali che raffiguravano scene di vita della famiglia del nobile ivi sepolto. Notò una suonatrice di lira che si materializzò e con fare seducente lo informò di essere una delle tante reincarnazioni di Thaïs, cercando di adescarlo. I diavoli abitavano ormai quel luogo e uno addirittura gli strappò il cilicio e se lo portò via.

Paphnuce trovò un passatempo per dimenticare Satana dedicandosi alla torcitura di una nuova corda per sostituire il cilicio sottrattogli, ma il desiderio carnale lo opprimeva sempre più ed arrivò così ad accusare Dio di averlo abbandonato e ad implorare il figlio, Gesù Cristo, uomo come lui, di venirgli in aiuto: proprio l’eresia di Ario! sghignazzò la voce demoniaca che lo perseguitava da quando si era installato sulla colonna... e così stramazzò a terra come morto.

Fu risvegliato da monaci in cammino nel deserto per incontrare SantAntonio (105 anni) che veniva laggiù (dalle parti di Al Bahnasa, medio Egitto) per salutare i suoi discepoli. Paphnuce si unì a loro e raggiunse il luogo dell’incontro dove era già schierata una moltitudine di monaci in attesa del Santo, fra i quali riconobbe anche il vecchio Palémon. Paphnuce si inchinò ai piedi di Antonio, ricordandogli di aver redento Thaïs e chiedendogli la sua benedizione contro le tentazioni del demonio che non gli davano pace.

Ma Antonio non si curò di lui e invece si avvicinò ad un ragazzo di Antinoe, che Paphnuce ben conosceva, di nome Paul, un povero ritardato mentale che aveva però visioni soprannaturali. E ad Antonio che lo interrogava su ciò che vedeva in cielo, Paul rispose: vedo la Santa Thaïs che sta per lasciare questa terra. E poi, guardando fisso Paphnuce: vedo tre demoni che si stanno impadronendo di quest’uomo: sono Orgoglio, Lussuria e Dubbio.

Paphnuce fu colpito al cuore da quella rivelazione e fu preso da un irresistibile desiderio di rivedere la donna che aveva redento senza aver voluto e potuto possederla. Ormai in preda all’ossessione di farla sua maledì tutta la vita passata in privazioni e sacrifici al servizio di Dio, si diede dello stolto per aver rinunciato al piacere di un bacio di quella donna, più prezioso di tutte le celestiali, eterne beatitudini. Thaïs sta morendo, si ripeteva disperatamente, Thaïs sta morendo! Si mise a correre all’impazzata per raggiungerla. Saltò su un barcone sul Nilo e dopo qualche tempo fu finalmente in vista del monastero di Albine.

La monaca lo informò di ciò che era accaduto dopo la sua partenza: Thaïs aveva umilmente accettato la sua clausura e fu così che, dopo 60 giorni di penitenza, il catenaccio della sua cella, che lo stesso Paphnuce aveva sigillato, cadde da sè e la donna entrò nella comunità delle consorelle, allietandole con la sua arte, interpretando la vita e le opere di donne sante e sagge. Poi fu colpita da una febbre che l’ha consumata e da tre mesi va peggiorando, ormai vicina al trapasso. Arrivato al suo capezzale, Paphnuce invocò Thaïs, implorandola blasfemamente di vivere, di fuggire con lui per godere la vera felicità, quella terrena. Ma la donna ormai anelava al Paradiso e, dopo aver teso le braccia verso la visione di Dio, spirò.

Paphnuce la divorava ancora di desiderio e di amore carnale. Albine lo scacciò da lì, maledicendolo. E le sorelle, terrorizzate, se ne fuggirono via gridando: un vampiro, un vampiro
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Ecco, adesso conosciamo (più o meno) il soggetto ispiratore dell’opera. Vedremo quindi come Louis Gallet ne ricaverà il suo libretto.

(1. continua)

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