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Tutto Bartók per questo ritorno della premiata coppia Boulez-Pollini. 84 anni il primo, 67 il secondo, ma oggi è ancora difficile trovare loro dei degni emuli, sia in generale, ma in particolare in questo genere di repertorio.
Intanto una considerazione sul programma: certo di altissimo livello, ma forse eccessivamente concentrato su un autore che – possiamo dire magari purtroppo – non ha la fama e la popolarità di un Mozart o di un Brahms o di un Mahler. E che andrebbe (forse) ancora propinato a dosi moderate. Ero in un palco con due ispanici, fuggiti poco dopo che Pollini aveva attaccato l’Adagio, e con due australiani, capitati lì a quel programma per puro caso (combinazione chiusa aereo-hotel-scala) che alla fine se ne sono rimasti tranquillamente seduti, forse pensando che ci fosse un secondo intervallo e poi – appunto – un Brahms o uno Schubert per far digerire quel popo’ di Bartók! Qualche vuoto anche in platea e nei palchi, per la verità. Compensato dai loggioni, tornati a piena capienza nominale dopo la rimozione (si spera definitiva) dell’antipatico amianto.
Il palcoscenico è letteralmente riempito come un uovo dall’ipertrofica orchestra bartókiana, tanto che per farvi entrare il pianoforte per Pollini si deve abbassare la sezione anteriore della pedana copri-buca, per poi risollevarla con in groppa lo strumento (e viceversa poi, per toglierlo di mezzo)… E dire che mancava il coro, prescritto, ma solo opzionalmente, per il Mandarino!
Boulez ha con Bartók una ormai lunga consuetudine, progressivamente solidificatasi negli anni e che produce sempre grandi risultati. Nessuna affettazione, anzi un approccio forse fin troppo freddo a queste partiture. Oggi muove pochissimo il braccio destro (*), ed usa esclusivamente il sinistro per dare gli attacchi, con decisi movimenti in avanti dell’avambraccio.
Nei Quattro Pezzi ha fatto emergere le venature impressioniste di Preludio e Intermezzo, dove Debussy fa spesso capolino, ma anche i richiami mahleriani che pervadono l’opera. Impressionanti davvero le sonorità dello Scherzo, sia i fracassi di ottoni e percussioni, che i delicati interventi di archi e strumentini, accompagnati dalle arpe; tutto senza enfatici compiacimenti. Lugubre la Marcia funebre chiusa con semplicità, con le note finali fatte cadere come nel vuoto.
In mezzo, il Secondo Concerto per Pianoforte. Che Pollini affronta col dovuto cipiglio, in quella parafrasi dell’Uccello stravinskiano del primo tema. Liquida, quasi eterea la cadenza, a dispetto del carattere percussivo della parte. Emozionante, in un assoluto e religioso silenzio della sala, il pianissimo iniziale degli archi nell’Adagio, che porta a quella specie di surreale concertato del pianoforte con il timpano; prima della sezione centrale in Presto, dove Pollini si scatena in una bagarre sincopata con gli strumentini, tenendo il capo girato verso di loro, in un gesto di intesa quasi da band; dopodiché si torna alla quiete, turbata ancora dai sordi rulli del timpano, che chiude infine à la Berlioz (scène aux champs) mentre Pollini appena appena appoggia le dita sulla tastiera per gli accordi finali. Dopo l’iniziale botto della grancassa (curiosamente così inizia il finale dell’incompiuta decima mahleriana, che Bartók peraltro difficilmente poteva conoscere, nel 1930…) altro round piano-timpano nell’Allegro molto conclusivo, prima della ciclica chiusa, ancora con richiami mahleriani (2a e 3a sinfonia). Applausi scroscianti, ripetute chiamate e richieste di bis, che restano ahinoi insoddisfatte.
In chiusura, Boulez ha poi dato il meglio nel Mandarino (miracoloso, nel titolo originale… csodálatos, che si può anche tradurre meraviglioso) fin dall’introduzione, dove si descrive il turbinare della caotica vita cittadina, e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui: tutti bravissimi, bisogna dargliene atto. Efficacissima la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) Pur in assenza del coro che dovrebbe accompagnarla, la luminescente trasformazione del Mandarino non perde la sua drammaticità, prima della conclusiva cadenza, che gli archi bassi – col suggello della tuba - eseguono letteralmente presi per mano dal Direttore.
Quindi grida ed ovazioni per il grande vecchio, che riesce anche a fare per un altro paio di volte l’esercizio ginnico di salire e scendere dal podio, alto almeno 40cm… Poi tutti fuori, in una sera di fine ottobre per nulla fredda, con la galleria e piazza Duomo (dalla cui facciata tuttora occhieggia il solare volto del fresco-di-beatificazione Don Carlo Gnocchi) ancora discretamente popolate.
Intanto una considerazione sul programma: certo di altissimo livello, ma forse eccessivamente concentrato su un autore che – possiamo dire magari purtroppo – non ha la fama e la popolarità di un Mozart o di un Brahms o di un Mahler. E che andrebbe (forse) ancora propinato a dosi moderate. Ero in un palco con due ispanici, fuggiti poco dopo che Pollini aveva attaccato l’Adagio, e con due australiani, capitati lì a quel programma per puro caso (combinazione chiusa aereo-hotel-scala) che alla fine se ne sono rimasti tranquillamente seduti, forse pensando che ci fosse un secondo intervallo e poi – appunto – un Brahms o uno Schubert per far digerire quel popo’ di Bartók! Qualche vuoto anche in platea e nei palchi, per la verità. Compensato dai loggioni, tornati a piena capienza nominale dopo la rimozione (si spera definitiva) dell’antipatico amianto.
Il palcoscenico è letteralmente riempito come un uovo dall’ipertrofica orchestra bartókiana, tanto che per farvi entrare il pianoforte per Pollini si deve abbassare la sezione anteriore della pedana copri-buca, per poi risollevarla con in groppa lo strumento (e viceversa poi, per toglierlo di mezzo)… E dire che mancava il coro, prescritto, ma solo opzionalmente, per il Mandarino!
Boulez ha con Bartók una ormai lunga consuetudine, progressivamente solidificatasi negli anni e che produce sempre grandi risultati. Nessuna affettazione, anzi un approccio forse fin troppo freddo a queste partiture. Oggi muove pochissimo il braccio destro (*), ed usa esclusivamente il sinistro per dare gli attacchi, con decisi movimenti in avanti dell’avambraccio.
Nei Quattro Pezzi ha fatto emergere le venature impressioniste di Preludio e Intermezzo, dove Debussy fa spesso capolino, ma anche i richiami mahleriani che pervadono l’opera. Impressionanti davvero le sonorità dello Scherzo, sia i fracassi di ottoni e percussioni, che i delicati interventi di archi e strumentini, accompagnati dalle arpe; tutto senza enfatici compiacimenti. Lugubre la Marcia funebre chiusa con semplicità, con le note finali fatte cadere come nel vuoto.
In mezzo, il Secondo Concerto per Pianoforte. Che Pollini affronta col dovuto cipiglio, in quella parafrasi dell’Uccello stravinskiano del primo tema. Liquida, quasi eterea la cadenza, a dispetto del carattere percussivo della parte. Emozionante, in un assoluto e religioso silenzio della sala, il pianissimo iniziale degli archi nell’Adagio, che porta a quella specie di surreale concertato del pianoforte con il timpano; prima della sezione centrale in Presto, dove Pollini si scatena in una bagarre sincopata con gli strumentini, tenendo il capo girato verso di loro, in un gesto di intesa quasi da band; dopodiché si torna alla quiete, turbata ancora dai sordi rulli del timpano, che chiude infine à la Berlioz (scène aux champs) mentre Pollini appena appena appoggia le dita sulla tastiera per gli accordi finali. Dopo l’iniziale botto della grancassa (curiosamente così inizia il finale dell’incompiuta decima mahleriana, che Bartók peraltro difficilmente poteva conoscere, nel 1930…) altro round piano-timpano nell’Allegro molto conclusivo, prima della ciclica chiusa, ancora con richiami mahleriani (2a e 3a sinfonia). Applausi scroscianti, ripetute chiamate e richieste di bis, che restano ahinoi insoddisfatte.
In chiusura, Boulez ha poi dato il meglio nel Mandarino (miracoloso, nel titolo originale… csodálatos, che si può anche tradurre meraviglioso) fin dall’introduzione, dove si descrive il turbinare della caotica vita cittadina, e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui: tutti bravissimi, bisogna dargliene atto. Efficacissima la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) Pur in assenza del coro che dovrebbe accompagnarla, la luminescente trasformazione del Mandarino non perde la sua drammaticità, prima della conclusiva cadenza, che gli archi bassi – col suggello della tuba - eseguono letteralmente presi per mano dal Direttore.
Quindi grida ed ovazioni per il grande vecchio, che riesce anche a fare per un altro paio di volte l’esercizio ginnico di salire e scendere dal podio, alto almeno 40cm… Poi tutti fuori, in una sera di fine ottobre per nulla fredda, con la galleria e piazza Duomo (dalla cui facciata tuttora occhieggia il solare volto del fresco-di-beatificazione Don Carlo Gnocchi) ancora discretamente popolate.
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(*) vengo a sapere che la cosa è dovuta ad una banale caduta proprio poche ore prima del concerto!
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