L’Orfeo
di Gluck ieri pomeriggio in un Costanzi
piuttosto affollato (ma non esaurito) è arrivato alla seconda recita delle 5
(+1) in programma.
Carlo
Vistoli
era al centro dell’attenzione e devo dire che il combinato disposto della
scrittura di Gluck, piuttosto sobria, e delle dimensioni non proibitive del teatro
(dotato fra l’altro di buona acustica) ha contribuito a garantire alla sua prestazione
un’accettabile efficacia, non facendo troppo rimpiangere i robusti suoni di
contralto che da sempre siamo abituati a sentir uscire dalla bocca di Orfeo.
Personalmente, avendo ascoltato (solo in registrazione, devo precisare) il sopranista Jaroussky (a Parigi nel
maggio 2018) mi sentirei di dare un voto più alto a Vistoli, non fosse altro
che per la miglior appropriatezza della sua voce di contraltista rispetto alle caratteristiche del personaggio. Ottima
anche la sua presenza scenica.
Onesto e non di più il contributo dei
due soprani Mariangela Sicilia
(Euridice) ed Emőke Baráth (ormai specialista del ruolo di Amore):
due vocine abbastanza piccole e debolucce nei centri e nei gravi. Lodevole
invece l’apporto del coro di Roberto
Gabbiani (invero fondamentale in
quest’opera).
Tutti autorevolmente concertati
dall’esperta bacchetta di Gianluca
Capuano (esordiente sul podio romano, ma che gli appassionati de laVerdi conoscono bene per le comparse in
Auditorium con il suo ensemble vocale
nel repertorio barocco). Al direttore mi sentirei di muovere un solo modesto rimprovero:
qualche eccesso di... foga riguardo ai tempi. Senza pecche l’orchestra, con un
plauso all’oboe per il suo intervento che anticipa il wagneriano venerdi
santo.
Nonostante la durata dell’opera
originale sia già abbastanza contenuta (circa 90’ netti) qui alcuni tagli (un
paio relativamente piccoli, nel second’atto: da-capo omessi nei balli e nel coro finale; uno invece assai
corposo: l’intero ballo, nel finale ultimo) la riducono a circa 75’: a parte la
citata speditezza dei tempi di Capuano, c’è da esser certi che questo esito sia
legato alle scelte estetiche e interpretative di Carsen (riprendo l’argomento più avanti). Un altro modesto (e quasi
irrilevante) intervento sulla partitura riguarda il ballo degli eroi (in SIb)
del second’atto: spostato - anche qui direi per esigenze sceniche (lo svestimento di Euridice nell'Eliso) - da
prima a dopo il recitativo di Orfeo.
In definitiva, una prestazione musicale
di cui ci si può accontentare, ecco. E anche il pubblico romano ha mostrato di
gradirla, riservando applausi (non da stadio, peraltro...) per tutti quanti.
___
Come noto, la messinscena di Carsen è
una rivisitazione di suoi precedenti lavori (2006 e 2011) quindi di essa già si
conoscevano pregi e difetti. Le scene di Tobias Hoheisel sono ispirate a severo
minimalismo (tipo Wieland Wagner, per
intenderci) in modo da concentrare l’attenzione dello spettatore sul canto e
sulla recitazione dei protagonisti: uno spoglio e scuro terreno sabbioso circondato
da un cyclorama bianco sul quale a
volte si stagliano le silhouette dei
personaggi. Costumi (pure di Hoheisel)
di foggia moderna quanto anonima. Luci (Carsen
e Peter van Praet) gestite con la
proverbiale abilità del regista: illuminazione laterale, obliqua, retrostante.
Carsen, perseguendo l’obiettivo di
enfatizzare gli aspetti più esistenzialisti
del dramma, abolisce poi ogni sovrastruttura accessoria (non certo per fare
della spending-review...) Quindi,
oltre al minimalismo con cui caratterizza le scene, minimalizza o cancella tutto ciò che striderebbe con la sua
concezione dell’opera: come i balli e le conseguenti coreografie. Che peraltro furono
concepiti da Gluck-Calzabigi come parti integranti e non certo accessorie
dell’opera, come ci conferma Giovanni
Bietti nel suo intervento sul programma di sala. Sul quale è però
sorprendente leggere un’affermazione del regista - nell’intervista rilasciata a
Leonetta Bentivoglio - secondo il
quale nella versione originale viennese del 1762 non ci sono danze! Beh, come spiegazione dei suoi barbari tagli,
non c’è male...
In definitiva - a parte lo scippo
consumato ai danni dell’ascoltatore, che si perde parecchia musica di ottima
fattura - lo spettacolo rischia di diventare fin troppo serio se non monocorde. Se osserviamo la macro-struttura dei tre
atti dell’opera, la potremmo (usando un termine musicale) definire come un
semplice rondò: A-B-A-B-A. Dove le
sezioni A sono caratterizzate da: giorno, luce e natura idilliaca; le B da
notte, oscurità e natura orrida e infernale. Orbene, Carsen ci presenta invece solo
uno scenario di tipo B, se si esclude il finale (Trionfi amore) peraltro abbastanza slavato. E meno male che il regista non
ha ripetuto l’operazione perpetrata all’Alcina,
dove aveva tagliato di netto il lieto-fine!
Parliamo
adesso di Natura e Poesia. Se prendiamo ad esempio la prima
scena, nell’originale ci troviamo una cerimonia funebre che avviene in un luogo
incantevole, in mezzo ad alberi e fiori di ogni specie: il che accentua il contrasto lancinante con il dolore
insostenibile di Orfeo - evocato dalla mirabile musica di Gluck - che in quegli elementi naturali riconosce i compagni
dei suoi giorni felici passati con Euridice (In
ogni tronco scrisse il misero Orfeo, Orfeo infelice: «Euridice, idol mio,
cara Euridice»). Ebbene, se le parole hanno un
senso, esso è totalmente tradito dalla scena proposta da Carsen, dove non c’è
la minima traccia di Natura. Quanto
alla Poesia, ditemi dove la si può
trovare in una distesa di sabbia scura e in un corteo di popolani vestiti come
becchini!
Vengo
ora ad Orfeo. Secondo Carsen è un poveraccio (everyman) come tutti noi, vittima di un destino avverso che gli ha
tolto la persona più cara. Cosicchè, già al funerale, tira fuori un serramanico
e cerca il suicidio... anticipato (rispetto a Gluck-Calzabigi). Sì, anticipato,
perchè libretto e musica ci dicono che l’istinto suicida insorge in Orfeo
soltanto dopo la seconda morte di
Euridice, della quale lui si sente (ed è) unico responsabile, a causa della
sua debolezza. Al funerale invece il suo atteggiamento è di temeraria sfida (Ho core anch’io...)
ai numi di Acheronte e Averno che gli hanno sottratto la sposa, che
lui si ripromette di recuperare alla vita prima ancora che Amore arrivi a
supportarlo nell’impresa.
Poi,
per giustificare l’idea che si è fatto di Orfeo (un uomo qualunque, come tutti
noi) ecco che Carsen (sempre nella citata intervista) afferma che nel testo di
Calzabigi e nella musica di Gluck non ci sarebbe alcun riferimento allo status di artista (poeta e cantore) di
Orfeo! Quando invece basta leggere il libretto e ascoltare gli interventi
dell’arpa per convincersi del contrario. Insomma, il buon Carsen non ce la
racconta giusta!
Per lui i compagni di Orfeo, le Furie dell’Averno e gli Eroi dell’Eliso sono
sempre le stesse persone: prima vive, poi morte e infagottate in bianchi
sudari, poi rinate nell’Eliso e infine tornate vive ad accogliere i due amanti
restituiti alla vita. Beh, a me pare una banalizzazione eccessiva del soggetto,
conseguenza della sua totale smitizzazione
perpetrata dal regista. Che poi ignora del tutto le precise modalità con le
quali il mito pretende si realizzi la riconquista (e la seconda perdita) di
Euridice. Le prime due scene dell’atto terzo (quella dove avviene il fattaccio e l’altra dove arriva
provvidenzialmente Amore) dovrebbero essere ambientate ancora nell’aldilà infernale, poichè solo lì vale il
divieto di sguardo. Invece Carsen già
all’inizio dell’atto ci mostra Orfeo che trascina Euridice nell’aldiqua, rientrandovi precisamente dallo
stesso passaggio impiegato per inoltrarsi nell’oltretomba (la fossa in cui la
fanciulla era stata inumata) e ritrovandoci la giacca abbandonata a fine del
primo atto, con annesso serramanico da usarsi per il secondo (per Carsen, non
per Gluck) tentato suicidio. Ma se i due sono già riemersi nel mondo reale, non
si capisce perchè lo sguardo debba
esservi ancora vietato...
Insomma,
una serie di forzature (per me) francamente eccessive e giustificabili solo a
fronte della scelta interpretativa di fondo compiuta dal regista.
Ecco,
come posso sintetizzare il tutto? Dicendo che: se ci si dimentica totalmente
dei contenuti del soggetto originale e si fa propria la vision del regista, allora si può godere lo spettacolo e magari
anche emozionarsi, poichè la suggestione che suscita questa messinscena è
innegabile.
Viceversa, è difficile andar oltre il
rispetto e l’ammirazione per la professionalità con la quale l’allestimento è
stato realizzato.
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