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09 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°30


É il Direttore ospite Patrick Fournillier a dirigere il penultimo concerto stagionale, con un programma comprensibilmente (per lui) patriottico: Camille Saint-Saëns che incastona un desueto Gounod. Programma peraltro dalla struttura tradizionale: pezzo breve di apertura, concerto solistico e sinfonia.

Si parte quindi con la Danse macabre, un breve Poema sinfonico (come lo definisce lo stesso Autore) che Saint-Saëns derivò da un suo precedente Lied su testo di Henri Cazalis (di cui aveva musicato tre delle sette quartine) ambientato in un cimitero dove a mezzanotte spettri e fantasmi si sbizzarriscono in danze più comiche che spaventevoli, per la verità, sulle note di un violino scordato suonato dalla Morte in persona:



Il brano è sostanzialmente bitematico: dopo l’introduzione dell’arpa che scandisce la mezzanotte e del violino solista che accorda significativamente sul tritono LA-MIb (la prima corda è calante, al posto del MI naturale) ecco un primo tema agitato e macabro (esposto inizialmente dal flauto e dai primi violini) e il secondo, assai più cantabile, esposto poco dopo dal violino solista. I due temi vengono via via riproposti con sottili variazioni e vengono anche (come in uno sviluppo di forma-sonata) messi contrappuntisticamente in confronto, con l’apparizione, nella tromba, anche del Dies Irae.

Al posto della voce (protagonista del Lied originale) qui è ovviamente il primo violino che ha la parte del leone (anche Mahler nella sua Quarta evocherà la Morte che suona proprio un violino scordato) e così è Nicolai Freiherr von Dellingshausen a mettere in mostra le sue doti, trascinando l’Orchestra in un’esecuzione accolta da ovazioni.
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Ecco poi l’eclettico Roberto Prosseda arrivare per proporci il Concerto per piano pédalier di Charles Gounod.

Il pianoforte con pedaliera è un’invenzione assai antica, che apparenta lo strumento all’organo, consentendo all’esecutore di aggiungere alle 10 dita delle mani (che operano sulle corde dello strumento principale) anche i due piedi, che consentono di percuotere delle corde supplementari (tipicamente su un’estensione di due o tre ottave gravi). Usato come pianoforte consente ad un singolo esecutore di produrre un volume di suono che altrimenti richiederebbe la presenza di un secondo pianista (pianoforte a 4 mani) o anche di un secondo strumento (due pianoforti). Lo strumento è poi in grado - dal punto di vista della tecnica esecutiva - di surrogare l’organo senza richiedere sistemi (automatici o manuali, vedi i mantici) di produzione del flusso d’aria. Compositori famosi hanno scritto brani per il pedal-piano, a partire da Mozart, per passare a Schumann e su fino a Gounod, appunto, e allo stesso Saint-Saëns.

Roberto Prosseda da parecchi anni è diventato, si può dire, il profeta dello strumento, tanto da riproporne l’impiego attraverso numerosi recital e registrazioni, ma addirittura diventando protagonista attivo nello sviluppo tecnologico di questa specie di mostro che pareva ormai destinato alla totale estinzione. Dapprima valorizzando lo strumento (unico esemplare) prodotto dal vicentino Luigi Borgato, il Doppio Borgato, costituito da un pianoforte tradizionale cui è collegato (sistemato al di sotto) uno speciale pianoforte senza tasti a 37 corde (le prime tre ottave gravi, LA0-LA3, della tastiera standard) colpite da martelletti azionati direttamente dalla pedaliera. Successivamente ideando, insieme al costruttore Fratelli Pinchi, un sistema di pedaliera e registri (relativamente leggero e poco ingombrante, quindi più facilmente trasportabile) collegabile a qualunque coppia di pianoforti standard (i 37 pedali azionano delle dita meccaniche che percuotono i normali tasti del pianoforte inferiore) e con un’estensione di ben 5 ottave, impiegabili a gruppi di tre (LA0-LA3, LA1-LA4, LA2-LA5) attraverso registri che comandano la connessione pedale - dita meccaniche, consentendo anche raddoppi all’8va e alla 15ma.

Chi volesse approfondire i dettagli tecnici e storici può leggere due articoli di Prosseda, relativi al Doppio Borgato e al Pinchi. E proprio il PinchiPedalpianoSystem è stato installato in Auditorium per la bisogna, collegandolo a due strumenti Yamaha.

Bene, fatte queste pedanti premesse extra-musicali, veniamo all’oggetto specifico, intanto segnalando che su youtube è possibile apprezzare la prima esecuzione in tempi moderni del concerto, avvenuta a settembre 2011 a Forlì, dove Prosseda suonava sul Doppio Borgato, accompagnato dalla Toscanini diretta da Jan Latham Koenig: Allegro moderato, in MIb maggiore, dal piglio e dal sapore vagamente mendelssohniano, Scherzo, in SOL minore-maggiore, per la verità piuttosto blando rispetto agli stilemi tradizionali, Adagio ma non troppo, una mesta marcia funebre dalla caratteristica struttura a due sezioni in minore che ne incastonano una in maggiore (sempre DO) e infine l’Allegretto pomposo, ancora in MIb, dall’incedere davvero enfatico, ma dove il solista ha modo di esibirsi anche in qualche volata appariscente. Qui invece il primo movimento del concerto suonato da Prosseda con il nuovissimo Pinchi a Pordenone nel 2012.

Parliamoci chiaro, non si tratta certo di un capolavoro, e la sua scomparsa per più di un secolo dagli auditorium e dalle sale di registrazione non si spiega solamente con la difficoltà di reperire il complicato strumento... Rispetto alla cui resa sonora, pur dando atto al sistema Pinchi di consentire ampie varietà timbriche, resta il dubbio che un risultato apprezzabile si potrebbe ottenere eseguendo il brano a quattro mani su unica tastiera o al massimo impiegando due pianoforti per i quali trascriverlo appositamente. Ieri sera francamente la sonorità del pianoforte basso lasciava a desiderare tanto che spesso veniva coperto bellamente dall’orchestra (cui forse Fournillier ha lasciato troppa briglia sciolta).

In ogni caso la proposta di Prosseda e de laVerdi va accolta con interesse, e il pubblico di ieri ha lungamente applaudito orchestra, direttore e solista, che ha concesso ben due encore, dove effettivamente gli strumenti hanno offerto una resa migliore: Alkan e Schumann.  
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L’intervallo ha presentato alla parte del pubblico rimasta in sala un fuori-programma... logistico: lo smontaggio e successivo inabissamento nel sotterraneo sottostante al palco dei due pianoforti e della pedaliera. Il tutto avvenuto in meno di mezz’ora, e vi assicuro che è impresa non da poco.

Ha chiuso la serata la Terza Sinfonia, nella quale Saint-Saëns prevede una parte concertante per l’organo. A proposito, laVerdi ha lanciato un’iniziativa per dotare l’Auditorium di un organo in piena regola (oggi vengono usati strumenti elettronici amplificati). É quindi in corso il processo di reperimento delle risorse finanziarie che servono a raggiungere questo importante obiettivo. 

La Sinfonia è suddivisa formalmente in due sole parti, ma al suo interno in effetti è quadripartita, come nella tradizione classica. É famosa (anche) perchè vi compare un motto che richiama il Dies Irae, presentato fin dall’inizio, e poi protagonista - portato trionfalisticamente in modo maggiore! - nel finale. È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata da Franz Liszt, di cui Saint-Saëns era devotissimo e al quale dedicò la sinfonia.


Sinfonia francamente pretenziosa e piuttosto velleitaria, per la quale (per me) vale la classica definizione di interessante, ma non bella, ecco. Certo Fournillier, che la dirige a memoria, e i ragazzi, han fatto del loro meglio per farcela apparire anche bella... beh, se il bello si rapporta al fracasso del finale, allora ci siamo in pieno!

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