É il Direttore ospite Patrick Fournillier a dirigere il
penultimo concerto stagionale, con un programma
comprensibilmente (per lui) patriottico: Camille Saint-Saëns che incastona
un desueto Gounod. Programma peraltro
dalla struttura tradizionale: pezzo breve di apertura, concerto solistico e
sinfonia.
Si parte quindi con la Danse
macabre, un breve Poema sinfonico
(come lo definisce lo stesso Autore) che Saint-Saëns derivò da un
suo precedente Lied su testo di Henri Cazalis (di cui aveva musicato tre
delle sette quartine) ambientato in un cimitero dove a mezzanotte spettri e
fantasmi si sbizzarriscono in danze più comiche che spaventevoli, per la verità,
sulle note di un violino scordato suonato dalla Morte in persona:
Il
brano è sostanzialmente bitematico: dopo l’introduzione dell’arpa che scandisce
la mezzanotte e del violino solista che accorda significativamente sul tritono LA-MIb (la prima corda è calante,
al posto del MI naturale) ecco un primo tema agitato e macabro (esposto inizialmente dal flauto e dai primi violini) e il
secondo, assai più cantabile, esposto poco dopo dal violino solista. I due temi
vengono via via riproposti con sottili variazioni e vengono anche (come in uno
sviluppo di forma-sonata) messi contrappuntisticamente in confronto, con l’apparizione,
nella tromba, anche del Dies Irae.
___
Ecco poi l’eclettico Roberto Prosseda arrivare per proporci
il Concerto
per piano pédalier di Charles
Gounod.
Il pianoforte con pedaliera è
un’invenzione assai antica, che apparenta lo strumento all’organo, consentendo
all’esecutore di aggiungere alle 10 dita delle mani (che operano sulle corde
dello strumento principale) anche i due piedi, che consentono di percuotere
delle corde supplementari (tipicamente su un’estensione di due o tre ottave
gravi). Usato come pianoforte consente ad un singolo esecutore di produrre un
volume di suono che altrimenti richiederebbe la presenza di un secondo pianista
(pianoforte a 4 mani) o anche di un secondo strumento (due pianoforti). Lo
strumento è poi in grado - dal punto di vista della tecnica esecutiva - di
surrogare l’organo senza richiedere sistemi (automatici o manuali, vedi i
mantici) di produzione del flusso d’aria. Compositori famosi hanno scritto
brani per il pedal-piano, a partire da Mozart, per passare a Schumann e su fino
a Gounod, appunto, e allo stesso Saint-Saëns.
Roberto
Prosseda da parecchi anni è diventato, si può dire, il profeta dello strumento,
tanto da riproporne l’impiego attraverso numerosi recital e registrazioni, ma
addirittura diventando protagonista attivo nello sviluppo tecnologico di questa specie di mostro che pareva ormai
destinato alla totale estinzione. Dapprima valorizzando lo strumento (unico
esemplare) prodotto dal vicentino Luigi Borgato, il Doppio
Borgato,
costituito da un pianoforte tradizionale cui è collegato (sistemato al di
sotto) uno speciale pianoforte senza tasti a 37 corde (le prime tre ottave
gravi, LA0-LA3, della tastiera standard) colpite da martelletti azionati
direttamente dalla pedaliera. Successivamente ideando, insieme al costruttore Fratelli
Pinchi, un
sistema di pedaliera e registri (relativamente leggero e poco ingombrante,
quindi più facilmente trasportabile) collegabile a qualunque coppia di
pianoforti standard (i 37 pedali azionano delle dita meccaniche che percuotono i normali tasti del pianoforte
inferiore) e con un’estensione di ben 5 ottave, impiegabili a gruppi di tre (LA0-LA3,
LA1-LA4, LA2-LA5) attraverso registri che comandano la connessione pedale - dita meccaniche, consentendo anche
raddoppi all’8va e alla 15ma.
Chi volesse approfondire i dettagli
tecnici e storici può leggere due articoli di Prosseda, relativi al Doppio Borgato e al Pinchi. E proprio il PinchiPedalpianoSystem è stato installato in Auditorium per la
bisogna, collegandolo a due strumenti Yamaha.
Bene, fatte queste pedanti premesse
extra-musicali, veniamo all’oggetto specifico, intanto segnalando che su youtube è possibile
apprezzare la prima esecuzione in tempi moderni del concerto, avvenuta a settembre
2011 a Forlì, dove Prosseda suonava sul Doppio
Borgato, accompagnato dalla Toscanini
diretta da Jan Latham Koenig: Allegro moderato, in MIb maggiore, dal
piglio e dal sapore vagamente mendelssohniano, Scherzo, in SOL minore-maggiore,
per la verità piuttosto blando rispetto agli stilemi tradizionali, Adagio ma non
troppo, una
mesta marcia funebre dalla caratteristica struttura a due sezioni in minore che ne incastonano una in maggiore (sempre DO) e infine l’Allegretto
pomposo, ancora
in MIb, dall’incedere davvero enfatico, ma dove il solista ha modo di esibirsi anche
in qualche volata appariscente. Qui invece il primo movimento del concerto suonato da Prosseda con il nuovissimo Pinchi a Pordenone nel 2012.
Parliamoci chiaro, non si tratta certo di un capolavoro, e la sua scomparsa
per più di un secolo dagli auditorium e dalle sale di registrazione non si
spiega solamente con la difficoltà di reperire il complicato strumento... Rispetto
alla cui resa sonora, pur dando atto al sistema Pinchi di consentire ampie
varietà timbriche, resta il dubbio che un risultato apprezzabile si potrebbe
ottenere eseguendo il brano a quattro mani su unica tastiera o al massimo impiegando
due pianoforti per i quali trascriverlo appositamente. Ieri sera francamente la
sonorità del pianoforte basso lasciava a desiderare tanto che spesso veniva
coperto bellamente dall’orchestra (cui forse Fournillier ha lasciato troppa
briglia sciolta).
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L’intervallo ha presentato alla parte
del pubblico rimasta in sala un fuori-programma... logistico: lo smontaggio e
successivo inabissamento nel sotterraneo sottostante al palco dei due
pianoforti e della pedaliera. Il tutto avvenuto in meno di mezz’ora, e vi assicuro
che è impresa non da poco.
La Sinfonia è suddivisa formalmente in due sole parti, ma al suo interno in effetti è quadripartita, come nella tradizione classica. É famosa (anche) perchè vi compare un motto che richiama il Dies Irae, presentato fin dall’inizio, e poi protagonista - portato trionfalisticamente in modo maggiore! - nel finale. È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata da Franz Liszt, di cui Saint-Saëns era devotissimo e al quale dedicò la sinfonia.
Sinfonia francamente pretenziosa e piuttosto velleitaria, per la quale (per me) vale la classica definizione di interessante, ma non bella, ecco. Certo Fournillier, che la dirige a memoria, e i ragazzi, han fatto del loro meglio per farcela apparire anche bella... beh, se il bello si rapporta al fracasso del finale, allora ci siamo in pieno!
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