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21 agosto, 2020

Il ROFid ha pagato l’ultima cambiale


Ieri sera si è chiuso, nello smagrito Teatro Rossini, il 41° ROF, che passerà alla storia come l’edizione pandemica...

Pesaro - all’apparenza almeno - sembrava quella di tante altre chiusure di Festival, a parte qualche individuo... mascherato: biciclette sfreccianti; la fontana con la sfera sventrata di Pomodoro circondata da frotte di selfie-isti; lungomare piacevolmente affollato; fungaia di ombrelloni ancora aperti alle 7:30 di sera; qualcuno che sguazza a godersi l’ultimo bagno della giornata; tavolini dei bar occupati senza troppa attenzione al distanziamento; ristoranti dove si preparano i coperti per la cena... Insomma, almeno da queste parti non pare proprio che ci si stia attrezzando alacremente in vista della tanto paventata apocalisse d’autunno, ecco (o stiamo tutti proverbialmente ballando sul Titanic?)      

Nel teatro le cose cambiano vistosamente rispetto alla normalità: mascherine obbligatorie, disinfettanti per le mani e regole di distanziamento almeno teoricamente rispettate. Fa impressione davvero l’interno della sala: un pavimento posticcio è stato installato ben al di sopra del livello della platea, arrivando a meno di mezzo metro dal piano del primo ordine di palchi; chi - come me - stava proprio lì aveva l’orchestra, che occupava più di metà di quello spazio, proprio davanti al naso. Insomma, qualcosa di troppo insolito, e non tanto per la vista, quanto per l’udito. Poichè nonostante gli sforzi dei cantanti e l’attenzione di Dmitry Korchak (una creatura tenorile del Festival, quest’anno esordiente qui come Direttore) a moderare i decibel dell’orchestra, ciò che arrivava alle orecchie non era precisamente quell’amalgama gradevole di suoni cui si è abituati.

E Marianna Pizzolato, ormai veterana del ROF, ne ha fatto un po’ le spese, aprendo la serata con la versione orchestrata da Sciarrino della Giovanna D’Arco, cantata composta a Parigi nel 1832 (ma ormai è certo che quella data vada incrementata di una ventina d’anni) per voce e pianoforte. Qui la stessa Pizzolato nella recita inaugurale dello scorso 8 agosto, trasmessa in streaming. Dal vivo la sua voce faticava davvero ad attraversare adeguatamente la barriera sonora orchestrale (forse meglio sarebbe stato eseguire la versione originale).

Pubblico forzosamente scarso (c'erano però posti vuoti oltre il necessario) ma assai caloroso nell'accogliere questo antipasto della serata.
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Senza intervallo si procede subito con La Cambiale di Matrimonio, alla sua quarta apparizione al ROF, dopo l’esordio del 1991 e i ritorni del 1995 e 2006. Questa nuova produzione è realizzata in collaborazione con la ROH di Muscat (Oman). Qui la recita dell’apertura.

Oltre al tenore-direttore, abbiamo qui anche il tenore-regista, chè Laurence Dale, il quale ha messo in piedi uno spettacolo piacevole, nel rispetto delle regole di distanziamento, e soprattutto senza stravolgere l’essenza del soggetto originale (cosa peraltro ardua, data la natura leggera dell’opera).

Gary McCann è il responsabile dell’intelligente scenografia (la facciata della residenza di Mill che si apre lasciando apparire gli interni, e pure un parco) e dei brillanti costumi. Ralph Kopp ha curato sapientemente le luci.

Carlo Lepore (la cui prima apparizoone pesarese risale al 1996!) è stato il trascinatore degli altri cinque interpreti e il trionfatore della serata: un Mill di gran presenza scenica, voce sempre robusta e ben impostata, nobiltà di portamento.

Iurii Samoilov fu già un più che discreto Omar nel Siège del 2017 e direi che in questi tre anni sia ulteriormente migliorato, restituendoci un convincente Slook, assai composto rispetto a quanto si vede (e si sente) spesso in giro; e la sua età gli darà certamente modo di migliorare ancora. Anche Martiniana Antonie si è già esibita come Elmira (Ricciardo&Zoraide del 2018) e poi come Azema (Semiramide, 2019): qui ha meritoriamente interpretato il ruolo della servetta Clarina, applaudita nella sua aria.  

Gli altri tre interpreti erano tutti al primo approccio con il cartellone principale del Festival, ma sono altrettanti prodotti dell’Accademia, che in anni recenti si son fatti le ossa rossiniane prevalentemente con quella fucina che è Il viaggio a Reims (che anche quest’anno ha avuto le due recite canoniche).

Su tutti Giuliana Gianfaldoni, che ha impersonato la proto-femminista Fannì con garbo e spigliatezza, ma soprattutto mettendo in luce la sua bella voce, sempre ben controllata e senza smagliature.

Ma più che bene anche l’Edoardo di Davide Giusti, tenorino di belle speranze (ma ha già una discreta carriera alle spalle); e il domestico-intrigante Pablo Gàlvez (Norton) che ha fatto piacevolmente coppia con Clarina.

Korchak ha concertato tutti con diligenza, ben coadiuvato dalla valida Sinfonica Rossini di Pesaro: per il momento lo giudicherei promettente... il futuro ci dirà se sia meglio come direttore che come tenore.
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All’uscita-artisti c’è a salutare tutti un baldo giovane che qui fa un po’ il padrone di casa: Michele Mariotti. Ecco, anche questa edizione nata davvero sotto cattiva stella corona va in archivio, e tutto sommato con pieno merito: non deve essere stato semplice nè facile allestire comunque un programma dignitoso, evitando un lockdown totale che sarebbe stato davvero difficile da digerire. E adesso... largo ai vaccini! Per poter arrivare senza problemi al prossimo appuntamento, con Moïse (Sagripanti-Pizzi),  Bruschino (Spotti-Barbe&Doucet), Elisabetta (Pidò-Livermore) e Stabat (Bignamini).

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